Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Bob Dylan negli anni '70 cantava : The times they are a-changing - i tempi che stanno cambiando, esibendosi in un espressione di puro pleonasmo. Mai verità più assoluta e certa fu pronunciata. Infatti CAMBIARE è nello stato naturale delle cose , del mondo, degli uomini. Tutto scorre, è in divenire: Panta Rei, tutto è un flusso in continua trasformazione sosteneva Eraclito già 500 anni A.C. E il cambiamento coinvolge anche usi, costumi, abitudini, stili di vita e di comportamento con l'evolversi della società, soprattutto della attuale società, cosiddetta della informazione, della comunicazione, dell'immagine. Di pari passo dovrebbero cambiare o meglio innovarsi sia le policy industriali sia le strategie aziendali. Esattamente un anno fa la rivista internazionale di management Business Week salutava il 2004 con una copertina che dava il benvenuto alla "innovation economy". E in effetti il 2005 può essere battezzato come l'anno dell'innovazione. Ma perché innovare? Di certo per stare al passo con le mutazioni dei tempi. Di sicuro non perché è la panacea di tutti i mali, come ostenta ed acclama a gran voce , in puro esercizio di stile, tutta la classe dirigente italiana: dagli economisti agli scienziati ed particolar modo dai politici agli industriali. Gli uni con la tipica impostazione propagandistica che lascia spazio a parole e non ai fatti, gli altri (gli industriali) in funzione apotropaica, per scacciare chissà quali spiriti maligni pervadessero le loro imprese, o come soluzione sommaria a problemi ben più radicati e differenziati, con la ipocrisia di chi non vede la trave nel proprio occhio. I mali nelle aziende e di conseguenza nella economia italiana ci sono, gli spiriti maligni, no!. "Medice cura te ipsum". Il vecchio adagio con cui i nostri padri latini invitavano chi consigliava una cura (appunto il medico) ad adottarla lui per primo, sembra oggi particolarmente appropriata per la nostra classe imprenditoriale e manageriale. Pronta (Luca di Montezemolo in testa) a mettere sul banco degli imputati, per le difficoltà attuali, come al solito, il Governo, di qualunque schieramento esso sia, e un non meglio precisato Sistema Paese. Meno pronta a dare il buon esempio e a rimboccarsi le maniche ( e non nel senso di mettersi più comodo, senza giacca, in ufficio). Ma in Italia innovare fa paura perché non si è mai certi del risultato. Innovare responsabilizza. Assumersi responsabilità non esiste nel dizionario e nelle pratiche quotidiane di molti (non tutti per fortuna) dirigenti nazionali. Li fa tremare per timore di perdere la poltrona acquisita. Invece non si accorgono di perdere una opportunità. Provare per primi una tecnologia, un cambiamento di strategia, di tattica , un prodotto, o un servizio, è come tuffarsi nel vuoto senza rete. Il massimo di concessione alla sperimentazione è fare una area test. Un timido tentativo a costi ridottissimi, per limitare eventuali danni. Una piccola azione mirata e localizzata per altro quasi mai significativa e sicura in proiezione macro. Meglio aspettare che altri, prima di loro, innovino e poi eventualmente copiare. Cavalcare l'onda di un successo, di una moda, di una tendenza, non dà alea. La strada non è in salita, ardua e faticosa, ma in piano, più facilitata. Non tengono conto , questi manager, della prima delle 22 leggi immutabili del marketing che attesta, con la autorevolezza acquisita dalla esperienza ormai storica: "meglio arrivare sul mercato per primi che essere i primi". L'imitazione di iniziative ed il plagio di idee altrui è pratica abitudinaria per i tanti manager o imprenditori che non amano prendere decisioni e non hanno la consapevolezza di dover rispondere degli effetti di azioni proprie. Totò in un suo proverbiale e umoristico paradosso affermava: " A inventare son buoni tutti, è copiare che è difficile". A fargli da contraltare l'illuminante pensiero di Alessandro Morandotti che, nelle sue 'Minime' asseriva: "Imitare è più faticoso che creare".. Investire in creatività comporta sforzi mentali, economici, strutturali. L'innovazione si nutre di tempo, che spesso, nella frenesia contemporanea sembra mancare. Innovare per davvero, è oggi un imperativo categorico per le aziende che desiderano fronteggiare le avversità economiche contingentali e proiettarsi verso un futuro più roseo implementando nuovi business e sviluppando maggiori profitti. Innovare rappresneta una sfida. Innovare è un modo di reagire alla crisi, alla stagnazione, alla inerzia, al passato, al desueto. Innovare è attivare la creatività e perseguire lo sviluppo. Non è semplice. Costa ingegno, fatica, impegno, volontà, perspicacia, dispiego di risorse, ed un approccio mentale positivo e proattivo, nonché di fiducia in se stessi e nel futuro. Ma costa e tanto anche in denaro. Le spese da sostenere per la ricerca e la scoperta sono vissuti non come investimenti ma come puri costi. La carenza di risorse economiche per le piccole e medie imprese e la ritrosia agli investimenti della grandi aziende sono la ragione principale forse della mancanza di innovazione. Innovare significa mettersi in gioco e rischiare. Fatti salvi i soliti noti nei settori moda, auto di lusso, design, arredamento e utomazione, per i quali la creatività e l'innovazione rappresentano la mission stessa aziendale, sono un must imprescindile per competere e segno di qualità ed eccellenza, il resto del panorama produttivo e commerciale nazionale è un arido deserto in fatto di evoluzione e cambiamento. Come sempre la solita dicotomia all'italiana: un made in Italy a due velocità tra nicchie vincenti e potenzialità ancora da esprimere. In Italia ci esaltiamo immediatamente per l'ultima novità tecnologica, seguiamo in massa celermente la moda del momento, per poi tornare, con la stessa rapidità alle nostre quotidiane, rassicuranti, e confortevoli abitudini e tradizioni, ben radicate. Un sistema adottabile da molti manager in particolar modo di marketing (vendite e commerciali) o di comunicazione potrebbe essere quello di tornare a muoversi in prima persona, a battere le strade per stare vicino ai clienti perché il contatto fisico è sempre un atout in più. Per conoscerli meglio, apprendere e comprendere. La conoscenza è potere. L'augurio è che l'innovazione, se pur labile ed ancora latente, nelle tematiche e nelle pratiche di marketing e di comunicazione, nella sperimentazione di tecniche e strategie all'avanguardia, non convenzionali e rivoluzinarie non sia un breve viaggio turistico per esplorare l'ennesima moda manageriale, ma l'effettiva partenza di un lungo percorso della conoscenza impostato sul dinamismo e sull'evoluzione. Per intraprendere fiduciosi la strada dell'innovazione che spinge la continua generazione di nuovi prodotti e servizi per i mercati attuali e per quelli che oggi non ci sono ancora palesi , ma che vivacizzeranno l'economia che verrà. Comunque, per ora, la logica conclusione di tutto ciò è: Tu , politico, scienziato, industriale, chiamale se vuoi innovazioni, io manager, intanto, ci penso!Buone innovazioni.Danilo Arlenghi
Nel variegato mondo del marketing una delle distinzioni più consolidate è quella tra B2C (Business to Consumer) e B2B (Business to Business). Nel primo caso il marketing e la comunicazione sono prevalentemente rivolti ad un pubblico di consumatori, nel secondo invece l’interlocutore principale è un’altra azienda, con tutte le differenze che ne conseguono in termini di modalità di comunicazione, obiettivi e strategie.Il marketing che si concentra sulle aziende è tradizionalmente considerato il fratello minore e meno brillante rispetto a quello che ha come obiettivo il consumatore. Diverse sono infatti le finalità, l’organizzazione e spesso anche i mezzi a disposizione del marketing industriale, che si rivolge nella maggio parte dei casi ad un interlocutore tecnicamente preparato e più interessato alle funzionalità dei prodotti che al fascino del brand o alle suggestioni che questo è in grado di offrire.Queste considerazioni sono però generiche e non si adattano sempre ad una realtà a volte poco esplorata dove molte aziende industriali investono e molto nella percezione del proprio brand e, pur vendendo materie prime o semilavorati, cercano di affermarsi non solo nei confronti dei clienti diretti (quindi altre aziende) ma di suscitare interesse anche nel consumatore che utilizza i prodotti finiti.Un tipico caso di realtà industriale che dimostra una profonda sensibilità di marketing è la BASF. Il colosso chimico tedesco, presente in numerosissimi settori, da tempo ha lanciato una campagna di comunicazione multicanale con il claim“Contributo invisibile. Successo evidente.”, tesa a sottolineare come molti dei prodotti di quotidiano utilizzo siano composti almeno in parte grazie al contributo di BASF.Per celebrare i 75 anni dall’entrata in produzione del polistirene (una resina plastica), l’azienda ha lanciato un gioco on-line, nel quale il visitatore, nei panni di un personaggio denominato Mr. 75 PS (il nome non è il massimo, ma si riferisce al prodotto), doveva aggirarsi tra gli scaffali di un supermercato virtuale e, guardando i diversi tipi di prodotti confezionati, mettere nel carrello solo quelli con l’imballo in polistirene (operazione non eccessivamente complicata per gli addetti ai lavori). Al gioco hanno partecipato oltre 1.380 giocatori di 40 Paesi diversi, per un’iniziativa che ha dato ulteriore visibilità al marchio e dimostrato che l’azienda continua ad investire in tema di comunicazione e ha una certa sensibilità sociali: i 740.000 punti accumulati dai giocatori sono stati trasformati in 37.000 euro che saranno devoluti al un progetto umanitario SOS Children’s Village in Africa.Questa iniziativa di BASF mostra come si possa essere originali e creativi anche in un contesto industriale, unendo alla promozione dei propri prodotti la capacità di divertire e stupire il visitatore abbinando il tutto a un’iniziativa umanitaria che, oltre ad essere apprezzabile di per sé stessa, contribuisce a dare ulteriore visibilità al brand.
La scomparsa del 12 ha scatenato una vera e propria guerra tra i vari operatori di directory telefoniche, che lottano spalla a spalla a colpi di spot e offerte speciali per affermarsi in un mercato ricco ma estremamente competitivo.Una delle aziende del settore che ha nei mesi scorsi più discutere è stata “Il Numero Italia”, sia per la martellante campagna basata sulle imprese dei due ballerini-gemelli 892 892 che per l’utilizzo di messaggi promozionali e colori che a detta di molti inducevano il consumatore a credere che si trattasse di un servizio sostitutivo della Telecom invece che di una società terza.Un altro aspetto molto discusso, ma che riguarda tutti gli operatori di questo mercato, è quello dei costi di accesso ai servizi offerti, che sono spesso esorbitanti, tanto che una chiamata con messa in contatto diretta da parte dell’operatore (quando cioè non solo viene fornito il numero di telefono ma anche inoltrata la chiamata) può arrivare a costare anche una decina di Euro.Se aggiungiamo che le offerte di alcuni operatori sono talvolta volutamente poco trasparenti e difficilmente paragonabili tra di loro abbiamo tracciato il quadro di un moderno Far West, pieno di indiani pronti a fare lo scalpo all’incauto consumatore-esploratore.Una novità positiva, almeno per quanto riguarda la chiarezza, e che molto probabilmente sarà progressivamente adottata anche dagli altri operatori, proviene da “Il Numero Italia”, che prima in Italia ha voluto introdurre una tariffa flat da1,8 Euro compresa l’eventuale chiamata urbana o interurbana verso il numero richiesto. La scelta, a detta dell’Amministratore Delegato Giacomo D’Amato, deriva dal venire incontro alle esigenze di molti consumatori, resi ansiosi dal costo degli scatti e dall’impossibilità di sapere preventivamente il costo complessivo della telefonata.Voci ufficiose fanno comunque sapere che l’Authority per le Comunicazioni ha in programma di regolamentare anche questo mercato, stabilendo un prezzo massimo di 30 centesimi per lo scatto alla risposta e di 1 Euro al minuto per il tempo del collegamento.Nel frattempo, per lanciare la nuova tariffa, è cambiato anche lo stile di comunicazione dell’azienda. Nei nuovi spot televisivi infatti assistiamo ad una processione in un paesino del sud, dove il tradizionale santo è stato rimpiazzato dalla nuova offerta, considerata provvidenziale e miracolosa. Riusciranno i due ballerini biondi a fare irruzione anche in questo scenario più tradizionale?L’introduzione di una tariffa flat rappresenta una piccola rivoluzione per questo mercato e sarà sicuramente apprezzata da molti utenti, che potranno finalmente utilizzare il servizio sapendo chiaramente quanto andranno a spendere. Trattandosi di un’offerta molto concorrenziale non dovremo aspettare molto perché anche altri player si allineino, con le loro tariffe, in modo da non finire fuori mercato.Questo si tradurrà inevitabilmente in una contrazione degli ampi margini finora guadagnati sulle telefonate, ma la progressiva sfiducia dei consumatori unita al probabile intervento dell’Authority stanno rendendo necessaria una riorganizzazione di mercato e servizi per un settore che si preannuncia comunque profittevole e quindi meritevole di ulteriori battaglie, a colpi sia di offerte speciali che di campagne promozionali.
Prendo ampio spunto da una newsletter di Peppers & Rogers che mi è stata recapitata qualche giorno fa per trattare questo argomento. Recentemente l’articolo pubblicato da Gianluigi sul marketing one to one ha destato molto interesse, e mi sembra quindi stimolante affrontare nuovamente il tema della fidelizzazione da un altro punto di vista.L’intervento dei due guru del marketing one to one parte dall’analisi del rapporto tra fedeltà dei clienti e redditività dell’azienda, analizzanto per verificare il grado di correlazione tra le due variabili.L’utilizzo di programmi tesi a migliorare la fedeltà è molto comune in vari settori, tra i quali spiccano quello della grande distribuzione e dei trasporti aerei. Nonostante gli sforzi di molte aziende tuttavia l’efficacia di questa operazione è spesso limitata, e gli utenti non si sentono eccessivamente legati ad un operatore in particolare solo per il fatto di partecipare ad una raccolta punti.Anche nel settore del credito la situazione non è molto migliore. Un’analisi condotta presso 16.000 clienti di banche dalla BAI Research ha dimostrato che oltre il 70% degli intervistati non è interessato ad avere rapporti più stretti con la propria banca, anche se il 90% degli istituti ha affermato di ricorrere a programmi più o meno ambiziosi di fidelizzazione.Tornando però all’analisi del rapporto tra fedeltà e redditività il 2005 Walker Loyalty Report, una ricerca di mercato che ha analizzato oltre 18.000 diversi brand ha dimostrato che le aziende leader nel loro settore per gli aspetti legati alla fidelizzazione dei clienti mediamente si garantiscono margini operativi migliori del 13% rispetto ai concorrenti meno blasonati, con un impatto positivo anche sul valore delle azioni quando quotate.La rivista Brandweek Magazine in collaborazione con Brand Keys, pubblica ogni anno i propri awards, attraverso i quali premia le 50 aziende che più si sono distinte nei programmi di fidelizzazione. La classifica è redatta intervistando un panel di 16.000 consumatori, e analizzando attitudine all’acquisto, comportamento e valutazione delle esperienze più recenti.Incrociando la top ten di questa classifica con un’analisi della situazione finanziaria di queste aziende appare plausibile una precisa correlazione anche se, ovviamente, la fedeltà alla marca non è l’unico driver del successo.Il numero uno della classifica, un certo Google, nel terzo trimestre ha realizzato ricavi per oltre 1,578 miliardi di dollari, segnando un incremento del 96% rispetto a quanto avvenuto nello stesso periodo dell’anno precedente.Anche le altre aziende della top ten oltre ad essere brand molto forti e apprezzati mostrano una situazione finanziaria particolarmente positiva, basta dare un’occhiata alla lista per far sorgere il sospetto che clienti fedeli aiutino e di molto a mantenere solida l’azienda.2. Avis3. Yahoo!4. Treo5. Samsung6. Blackberry7. Verizon Long Distance8. Canon Color Printers9. Miller Genuine Draft10. Marriot Hotels
Di Eli (del 16/12/2005 @ 19:22:42, in Marketing, linkato 3486 volte)
Le immagini sono state dichiaratamente ritoccate al computer, però l’effetto è molto interessante. Che possano essere di ispirazione per qualcuno?
Via Avertising/Design Goodness
La tecnologia che progredisce a velocità esponenziale sembra sfuggire a chiunque tenti di spiegarla o quantificarla. Eppure, un uomo è riuscito a "fermare" il segreto della sua crescita. "Il passo della tecnologia raddoppia ogni dieci anni", questo è il fulcro della "legge di accelerazione" scoperta da Ray Kurzweil.La prospettiva che ne deriva è vertiginosa: "Mentre ci sono volute decine di migliaia d'anni per sviluppare pienamente tutte le potenzialità di scoperte come la ruota e il fuoco, l'uso del cellulare e del web si è diffuso in poco tempo dappertutto".Così, spiega lo studioso, "nel 19mo secolo ci sono stati più cambiamenti tecnologici che nei nove secoli precedenti. "Nei primi venti del secolo successivo, ci sono stati più passi in avanti che in tutto il 1800 e ancora di più ce ne saranno nei primi dieci del secolo che stiamo vivendo". Un'escalation di numeri che potrebbe trasformare radicalmente il nostro pianeta. Ma sarà questo il modo giusto di considerare il progresso? E' davvero solo una questione di numeri? Forse alcune scoperte del passato hanno influenzato la storia dell'uomo più delle ultime proposte che la tecnologia sforna "ogni giorno". Fa piacere che ognuno possa esprimere liberamente la propria creatività con un blog in rete e forse anche il sito "Friendster" avrà migliorato la vita sociale di un sacco di gente.Ma da qui a parlare - come si è fatto - di "massiccio impatto sulla società" ce ne passa. La penicillina è una scoperta che ha cambiato il corso della storia umana, così come lo hanno fatto la teoria della relatività, il sonar, i robot e la televisione. E sono tutte conquiste del secolo scorso.
Uno degli effetti negativi della globalizzazione a detta di molti esperti di mercato è l’eccesso di offerta. I continui miglioramenti nelle tecnologie velocizzano i cicli produttivi, mentre la lenta ma inarrestabile erosione dei margini spinge ad aumentare i volumi per compensare la perduta redditività.. Molte aziende quindi si trovano nella situazione di dover cercare di immettere sul mercato volumi crescenti di prodotti, che non sempre possono essere assorbiti.Questa sovrapproduzione viene infatti a collocarsi in un contesto di mercato a cresciuta lenta, caratterizzato da consumatori sempre più volubili, che riconoscono il valore della marca ma sono molto difficili da fidelizzare.Acquista quindi sempre più importanza la capacità di comunicare con il target di riferimento. La grande azienda deve infatti essere in grado di offrire non solo prodotti di elevata qualità ma anche una serie di aspetti collaterali (assistenza pre e post vendita, garanzia estesa, design e packaging) che assumono una rilevanza crescente nel processo decisionale che determina l’acquisto.Un altro rischio legato alla volubilità della clientela è che innesca una sfida all’arma bianca tra produttori e trader,che attivano programmi di fidelizzazione costosi e poco efficaci, spesso basati sulla convenienza del prezzo e quindi più adatti ad attirare i cacciatori di offerte che a trasformare saltuari visitatori in assidui clienti.Il rilancio di molte grandi imprese dipende invece dalla capacità di costruire un reale dialogo con i consumatori, promuovendo una comunicazione alla cui base ci siano fiducia e familiarità. Ma per avere successo questa strategia non può prescindere da una collaborazione più intensa con la grande distribuzione, le cui strategie giocano sempre più un ruolo chiave nelle dinamiche di acquisto del cliente finale.Secondo gli esperti di Procter & Gamble infatti i consumatori che si aggirano nelle corsie di un supermercato prendono le loro decisioni in un lasso di tempo che oscilla tra i 3 ed i 7 secondi, cioè giusto il tempo di prendere nota della merce esposta sullo scaffale. Questi preziosi secondi sono chiamati “il momento della verità”, e rappresentano un momento di marketing fondamentale per un marchio, che deve essere in grado di suscitare l’emozione che scatena il processo di acquisto, differenziandosi quindi dai numerosi prodotti concorrenti che lo circondano.Tale è la rilevanza di questo breve intervallo da convincere P&G a creare ruolo dedicato allo studio e all’analisi di questi preziosi istanti, che è il di Direttore del Primo Momento di Verità (FMOT, First Moment Of Truth).
Gli istituti di ricerca stanno escogitando nuove tecniche e fiutano l'aria in cerca delle sue tracce, ma il consumatore sembra scomparso. Che fine ha fatto?
A domandarselo sono sociologhi, marketer, psicologi, imprenditori, manager, pubblicitari, comunicatori, commercianti e perisno la gente comune che si chiede che fine abbia fatto quel suo alter ego, quel tale che si inferforava per ogni ultimo modello, andava in crisi d'identutà senza una firma addosso, cambiava l'auto più spesso degli indumenti intimi e si dedicava all'accumulo di quantità industriale di prodotti come se stesse facendo scorte per un letargo lungo cinque anni.
Le avvisaglie erano nell'aria: negozi mezzi vuoti (e sono già ottimista), consumi in ribasso, pensioni da fame, in compenso (si fa per dire!) i prezzi , l'inflazione e la disoccupazione sono le sole variabili a salire. Le imprese , preoccupate, erano state le prime ad attivarsi: "Spendi, perchè se lo fai l'economia gira con te!" avevano flautato, lanciando nell'etere uno spot da pifferai magico con ricetta risolutoria.
Ma, se non altro per l'insistenza, al consumatore, avevano fatto girare, qualcosa. Non esattamente quel che si aspettavano. Gli esperti, gli aruspici dei comportamenti sociali, quelli che nel '69 avevamo previsto il '68 (per intenderci) hanno una pronta soluzione. Il suo nome è creatività! Che , a me pare come l'Araba Fenice: tutti ne parlano e nessuno sa dove sta! Si , perchè oramai , il consumatore sa bene come difendersi da sciocchi imbonimenti dai quali è bombardato ogni momento e distingue questi ultimi da una campagna sul podio a Cannes.
Una comunicazione efficace, in grado di sollecitare le corde del desiderio, e del bisogno necessità più che di grandi investimenti, di grande intelletto. Meno soldi e più creatività. La creatività non consiste di certo nel colpire il consumatore a tradimento, in modo invasivo e continuativo, perchè questa modo di approccio ha mutuato atteggiamenti e linguaggio dalla guerra: strategie, tattiche, target, campagne, conquiste di territori....
Si sa che gli italiani sono tra i popoli più pacifisti della Terra. Ed ancora: il rischio può essere che in questa guerra senza regole alla conquista del consenso, la reazione del troppo bersagliato acquirente sia quella di reagire facendo ricorso all'arma definitiva e letale: il telecomando. La creatività non è fatta di agguati e aggressioni, ma di parole e di immagini: McLuhan ha affermato che una immagine vale più di mille parole, e per dimostrarlo ha dovuto scrivere più di un libro.
Le immagini col tempo sbiadiscono, si cancellano. Le parole superano intatte i millenni. Nella civiltà dell'immagine l'ultima frontiera della comunicazione è la conquista del vocabolario. La creatività, quintessenza della pubblicità,è l'anello di congiunzione fra la marca e il gradimento del consumatore.
La creatività è insieme inventiva, intelligenza, mestiere. E quando Maometto consumatore sembra poco propenso ad andare alla montagna pubblicitaria, quest'ultima è costretta a muoversi verso il consumatore, anche con strumenti below the line, escogitando espedienti per farsi prima udire, poi sentire, ed infine comprendere.
Jacques Seguelas, uno dei più grandi creativi francesi, sostiene che i consumatori non comperano prodotti, ma sogni. Quali siano i sogni in cui desideriamo cullarci fa parte di quel libero arbitrio dell'inconscio che spesso e volentieri ci rende immuni anche alle più elocubrate seduzioni dei venditori di chimere.
Viviamo senza dubbio nella società dei senza, dove il privativo sembra essere sinonimo di miglioramento ed invece non è altro che un paludato modo per spacciare prodotti e servizi innovativi che mistificano la natura stessa dei prodotti e dei servizi.
Eccovi alcuni scampoli veritieri e significativi: birra senza alcool, burro senza grassi, merendine senza zuccheri, pasta senza glutine, marmellate senza conservanti, bevande senza gas, caramelle senza coloranti. E la lista, ahimè , continua con arresti senza prove, sentenze senza giustizia, bambini senza istruzione, faccendieri senza coscienza, saccenti senza cultura, ministri senza portafoglio, autisti senza patente, medici senza laurea, popolazioni senza cibo, uomini senza religione, donne senza veli. E non potevano mancare servizi senza qualità.
Troppo spesso sento direttamente dai miei clienti o, in modo riportato, dai miei colleghi frasi come questa: "Non ha importanza (la qualità), basti che costi poco!
Che i manager aziendali , oggi, non badino più alla qualità , ma si curino solamente dei costi bassi è un fatto accertato. Sino a ieri si discorreva solo di qualità: come fine a cui tendere nella erogazione dei servizi e nella elaborazione dei prodotti. Era un onore ed un privilegio consumare prodotti e servizi di qualità.
Oggi è in corso un vero ribaltone dei valori, un vero salto all'indietro da veri acrobati dei principi base, a scapito della immagine dei prodotti, della identità aziendale e della credibilità dei manager stessi. Un modo di pensare e di agire che porta i consumi ed i comportamenti verso il basso, in una sorta di regressione collettiva dominata dal Dio risparmio.
Il processo in atto , ci auguriamo solo temporaneo , non nasce da profonde convinzioni ma dalla contingenza economica e finanziaria. Stanno cavalcando la crisi, certo, ma non la professionalità: e appena il mercato si riprende potrebbe essere la crisi a cavalcare loro.
Comunque , anche in tempi di vacche magre è preferibile l'equazione : meno ma buono! Altrimenti questi manager diverrano oggetti del monito di Ruskin: " E' difficile trovare al mondo qualche cosa che un uomo non possa fabbricare leggermente peggio e vendere più a buon mercato. Divengono preda legittima di quest'uomo coloro che desiderano solo il prezzo".
E’ possibile per la pubblicità riconquistare l’attenzione e l’interesse di un consumatore sempre più sfuggente e annoiato? Secondo Roberto Venturini si, ricorrendo ad una strategia di “Engagement Marketing”.Da qualche tempo alcuni guru della comunicazione stanno scommettendo su una nuova "buzzword". La nuova parola magica è "engagement", la capacità della comunicazione di attirare, coinvolgere il pubblico.In una parola di farsi vedere e appassionare.Di fronte alle correnti di pensiero che attribuiscono una disaffezione del pubblico al mezzo televisivo e di fronte alle richeste sempre più pressanti dei grandi clienti di otrtimizzare il budget, si sta iniziando a spostare il tiro.A passare dalla necessità di fare OTS (un gran numero di opportunità potenziali per il target di vedere il messaggio, calcolate estrapolando i numeri dei un campione Auditel) alla necessità di misurare quanto in effetti il messaggio sia davvero visto, compreso, di quanto abbia avuto effetto.Si parla allora di engagement, della capacità del messaggio di costruire una storia per la marca, una storia che abbia un effetto sugli atteggiameni e sui consumi.Si parla di engagement come alternativa al ricorso alla pura "interruzione" - ovvero all'affidarsi alla potenza della televisione di infilarsi nella vita del target e dello spot di colpire il prospect. Un meccanismo che, in uno scenario dove l'affollamento di messaggi pubblicitari che ci interrompono è sempre più alto, il consumatore ha sviluppato dei filtri potenti - in grado di cancellare dalla sua percezione buona parte delle comunicazioni indesiderate o non "engaging"Al crescere del numero di interruzioni cresce la capacità di filtro e la sfida per le agenzie ed i clienti di osare, di investire strategicamente in pensiero ed esecuzione per creare messaggi coinvolgenti, non solo dal punto di vista meramente esecuzionale ma dal punto di vista dei concetti di marketing sottostantiCreando una relazione più stretta e proficua con la marca - una marca che non ci assedia durante il giorno "interrompendoci" ma una marca piacevole, che ci arricchisce (un pochino) la vita con contenuto interessanti, affascinanti..."engaging"Nasce quindi (in TV e su altri media) la disciplina dell'"Engagement Marketing", naturalmente basata in larga parte sulla capacità di inserire elementi di entertainment value nella comunicazione pubblicitaria.Una forma di marketing che se non richiede necessariamente forti budget richiede molta competenza fantasia e, soprattutto un grandissimo coraggio... direi fuori della portata della maggior parte delle aziende nostrane (e non solo...). O no?
Roberto Venturini
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