Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Un tentativo di affrontare, in chiave collaborativa, i molti problemi che Google sta fronteggiando in Europa. Ci sarebbe anche questo alla base della Digital News Initiative: Google e otto dei principali editori europei hanno infatti siglato una partnership che ha l’obiettivo di supportare il giornalismo di qualità attraverso la tecnologia. Una mossa, secondo molti osservatori internazionali, con cui il colosso Usa tenta il disgelo con attori forti del panorama Ue dopo le tante “rotture”: dalla chiusura di Google News in Spagna fino ad arrivare alla più pesante, e attesa, apertura di procedimenti ufficiali Ue contro il colosso per abuso di posizione dominante nel mercato del search online.
L’idea è quella di favorire lo sviluppo di un ecosistema di informazione sostenibile e promuovere l’innovazione nel campo del giornalismo digitale. “Internet offre opportunità immense per creare e diffondere grande giornalismo - sostiene Carlo D’Asaro Biondo, Presidente Strategic Relationships di Google in Europa -, tuttavia ci sono anche questioni legittime su come il giornalismo di alta qualità possa esse sostenuto nell’era digitale. Attraverso la Digital News Initiative Google lavorerà a fianco di editori e organizzazioni che si occupano di giornalismo per contribuire a sviluppare modelli più sostenibili per l’informazione. È solo l’inizio del percorso e invitiamo altri a unirsi a noi”. Tre le aree di azione: gli editori istituiranno un “gruppo di lavoro sul prodotto” per esplorare lo sviluppo di prodotti legati all’incremento dei ricavi, del traffico e del coinvolgimento dei lettori. L’azienda di Mountain View metterà, inoltre, a disposizione 150 milioni di euro per progetti in grado di dimostrare un nuovo approccio al giornalismo digitale. Chiunque lavori all’innovazione dell’informazione online potrà richiedere i contributi, inclusi editori riconosciuti, testate solo online e start up tecnologiche legate al mondo dell’informazione. Infine, Google investirà in formazione e nello sviluppo di nuove risorse per giornalisti e redazioni in Europa e finanzierà ricerche sullo scenario media, istituendo ad esempio borse di studio per la ricerca accademica sul giornalismo computazionale.
I partner fondatori sono Les Echos (Francia), FAZ (Germania), The Financial Times (Regno Unito), The Guardian (Regno Unito), NRC Media (Paesi Bassi), El Pais (Spagna) e Die Zeit (Germania). L’Italia è rappresentata da La Stampa. Partecipano anche organizzazioni che si occupano di giornalismo tra cui lo European Journalism Centre (EJC), il Global Editors Network (GEN), l’International News Media Association (INMA).
Via Tech Economy
I primi rumor risalgono a novembre dello scorso anno ma è in queste ore che Amazon ha lanciato, senza troppi clamori, la pagina Amazon Destination, parte di Amazon Local. L’iniziativa nasce per rispondere alle esigenze di brevi vacanze locali: la pagina in questione, infatti, mostra agli utenti elenchi degli hotel disponibili in determinate aree. Per ora il servizio è attivo in poche città e attrazioni degli Stati Uniti come Seattle, New York e Los Angeles.
“Abbiamo creato Amazon Destination per risolvere un problema che affronta la maggior parte dei viaggiatori: come pianificare facilmente e prenotare viaggi locali” ha spiegato a Mashable Tom Cook, responsabile delle relazioni pubbliche di Amazon. “Più del 40% di tutti i viaggi di relax sul territorio nazionale statunitense è rappresentato da “fughe” di breve durata di 1-3 notti, e molti di questi viaggi sono nelle vicinanze, raggiungibili in macchina.”
Il che conferma una recente ricerca di Expedia secondo cui le prenotazioni per soggiorni di una o due notte sono in crescita, mentre quelle per soggiorni di quattro e sette notti sono in discesa. ”Eppure i viaggiatori hanno spesso difficoltà a pianificare vacanze brevi”, aggiunge Cook. “E ‘difficile decidere dove andare, e spesso le persone si perdono nella ricerca di posti in cui soggiornare.”
Di qui la nascita di Amazon Destination che non ha ancora le caratteristiche, almeno in dimensioni, di altri colossi come Expedia o Tripadvisor, ma che rappresenta una concreta “minaccia” per i competitor di settore.
Via Tech Economy
Quando nell'ottobre del 2013, l'allora CFO di Facebook, David Ebersman, parlò di un calo di accessi al social network da parte degli utenti più giovani, le reazioni si sprecarono. Il gioiello di Mark Zuckerberg fu immediatamente descritto come un malato terminale. Sembrava l'inizio della fine. Oggi, un anno e mezzo dopo, Facebook è più vivo che mai. E a quanto pare gode di ottima salute. Basta dare un'occhiata agli ultimi dati diffusi da Pew, secondo i quali circa il 71% dei ragazzi di età compresa fra 13 e i 17 anni frequenta Facebook. Una cifra che è esattamente il doppio di quella relativa ai teenagers che visitano siti come Google o Twitter.
Facebook, dunque, è ancora il social network più popolare tra gli adolescenti. E c'è di più: è anche il mezzo di informazione preferito dai giovani italiani. Lo dicono i dati del 12esimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione. Dati che analizzano i consumi mediali nel nostro Paese e certificano in modo inequivocabile la netta differenza fra i giovani e i meno giovani. Una differenza che, a pensarci bene, traccia una linea di demarcazione importante fra il passato e il futuro. I dati sono quasi predittivi, anche senza volerlo.In sostanza questa ricerca ci dice che i più giovani preferiscono informarsi soprattutto attraverso i canali digitali. Facebook su tutti (il 71% contro il 61,5% del 2011, alla faccia di chi parlava di disamore verso il social di Zuckerberg da parte dei teenagers) ma anche Google e YouTube. I meno giovani, invece, sono ancora affezionati ai canali tradizionali: telegiornali e quotidiani di carta. Il dato più indicativo, insomma, è sicuramente quello relativo a Facebook. Il social network di Mark Zuckerberg è il mezzo di informazione più utilizzato fra i giovani che che hanno dai 14 ai 29 anni, con una percentuale del 71,1%. E questo è l'unico caso - secondo Censis-Ucsi - in cui i telegiornali non occupano il gradino più alto del podio. La presa che il social di Palo Alto ha sui teenagers è fortissima. Roba da mettersi l'anima in pace e provare a capirne le opportunità. Consci del fatto che su un social network la quantità di informazioni è vasta e spesso incontrollata, viene il dubbio che a rimetterci sia la qualità. Quotidianamente su Facebook informazioni false vengono spacciate per vere, e non esiste una soluzione immediata al problema. Secondo Vincenzo Cosenza, esperto di social media, il problema esiste, ma è compito dei giornali salvaguardare la qualità: «Sono i mezzi di informazione - dice Cosenza a Nòva - a dover fare un buon uso dello spazio che offre Facebook. Invece spesso vedo testate italiane che lo usano come una discarica di link e solo per pubblicare le notizie più becere. Senza capire che in questo modo svalutano l'immagine del brand, per qualche like in più».
Intanto Zuckerberg, nel suo progetto di social totalizzante, sta studiando un metodo per integrare le news dei giornali direttamente all'interno di Facebook, offrendo parte delle revenue pubblicitarie agli editori. E questa, secondo Cosenza «può essere una opportunità in più (ma non in sostituzione del sito) se la si usa per valorizzare i contenuti d'informazione e soprattutto per indirizzarli al pubblico giusto. Facebook offre strumenti di targeting molto granulari che permettono di segmentare l'audience di ciascuna notizia». Al di là di quanto questa idea possa essere affascinante (per alcuni pochissimo, per altri molto), il rischio concreto è di trovarsi davanti a piattaforme sempre più chiuse, con l'obiettivo non dichiarato ma palese di ingabbiare gli utenti al loro interno. «Ogni social network sviluppa un'attitudine a costruire un walled garden, - ci dice Cosenza - un villaggio autosufficiente dove far rimanere l'utente per più tempo possibile, in modo tale che egli possa fruire della pubblicità. Ma finché il web rimarrà una piattaforma aperta ci sarà sempre spazio per poter scoprire nuovi territori». Già, sarà anche vero. Ma la piattaforma aperta che hanno in mente a Palo Alto lascia più di qualche perplessità.
Via IlSole24Ore.com
Si preannunciano settimane dure per i siti web non ottimizzati per il mobile: Google martedì 21 aprile avvierà l’aggiornamento del suo algoritmo “segreto” con cui determina il posizionamento dei siti nel search per favorire i siti che sono “mobile friendly”, mentre retrocederà i siti che non rispettano i criteri. Gli esperti di SEO lo chiamano Mobilegeddon, più volte annunciato dallo stesso colosso, poichè si prevede che determinerà notevoli scossoni, anche per siti “inaspettati”, che potrebbero subire pesanti penalizzazioni in termini di visibilità sul motore di ricerca.
Anche colossi come Microsoft, nota il Financial Times, potrebbero essere penalizzati così come l”Unione Europea: il sito del grande accusatore di Google che nei giorni scorsi ha accusato ufficialmente il colosso di Mountain View di abuso di posizione dominante, non sarebbe mobile friendly come dimostrato facendo un rapido controllo su Mobile Friendly test messo a disposizione dal colosso per verificare lo stato dei siti web.
Il cambiamento algoritmo non influirà, invece, sulle ricerche via tablet o desktop. Ma, dal momento che il mobile ora rappresenta la metà di tutte le ricerche su Google le aziende, prevede il FT, potranno notare le conseguenze eccome. In questo senso non riuscire a prepararsi in tempo all’aggiornamento potrebbe realmente avere un impatto economico rilevante tanto che la stessa Google ha annunciato: “Questo cambiamento interesserà ricerche mobile in tutte le lingue in tutto il mondo e avrà un impatto significativo sui risultati di ricerca.”
La mossa di Google non fa che ribadire il peso che il mobile sta assumendo nella fruizione di contenuti da parte degli utenti globali e nell’attrazione di ampie quote di investimenti pubblicitari da parte di imprese e organizzazioni.
Via Tech Economy
Centinaia di migliaia di download, star in visibilio e colossi che duellano per fare breccia nel cuore del pubblico. La nuova moda dell’hi-tech si chiama live streaming e ha i suoi alfieri in app come Periscope, Streamago Social e Meerkat (ma ci sono anche Stre.am, Tarsii, Kik…) che permettono di inviare in diretta ciò che viene ripreso dalla fotocamera di smartphone, tablet e computer. Non ci sono filtri: basta avviare l’applicazione e il filmato va in Rete, l’unica cosa che si può fare è fermarlo. Ma vediamole in breve: Periscope, nata da Twitter, è la più celebre e da noi è tra le dieci applicazioni più scaricate della settimana.
Disponibile solo per iOS, consente di mandare in diretta filmati all’interno dell’app dedicata e notifiche push ai nostri amici. Meerkat, sempre per iOS, posta su Twitter un link per seguire lo streaming in corso, Streamago Social di Tiscali invece trasmette su Facebook da iOS e PC. Stre.am e Tarsii sono le alternative per Android. Vista la giovane età delle applicazioni, non più di tre settimane di vita, è lecito chiedersi a cosa servano. I filoni principali sono tre: c’è il giornalismo (e il citizen journalism), le star e i comuni mortali. Sul primo fronte The Verge, Guardian, Sky News e BBC sono subito salite alla ribalta, offrendo notizie dal vivo, recensioni e coperture di eventi impensabili fino a qualche giorno fa. Non serve più una troupe, un collegamento via satellite o una Rete veloce per condividere un fatto, bastano un cellulare e il 3G.
La qualità non sarà eccelsa ma il valore documentaristico è ai massimi livelli: due pressioni sul display e si è online. Nel caso di eventi scottanti poi non c’è tutore dell’ordine che possa fermare la diretta: qui va tutto online subito e non c’è memory card che possa essere cancellata. Oltre ai big della notizia, il live streming può essere una risorsa inesauribile anche per le piccole testate, che ora possono competere con i colossi puntando sulla presenza capillare sul territorio dei propri collaboratori. E porpio quest’ultimo aspetto ci porta al citizen journalism: il caso clou è stato il rogo di New York della settimana scorsa, che numerosi utenti hanno documentato con Periscope, mentre da noi ha spopolato il duplice omicidio al Tribunale di Milano. Non c’è stato giornalista più tempestivo delle persone che erano nel luogo giusto al momento giusto (o meglio sbagliato) e la possibilità di vedere il replay del video ha fornito molto materiale a chi voleva confezionare servizi più meditati sull’evento. Immaginare queste app durante la primavera araba o al G8 di Genova ne scatena la portata rivoluzionaria e da oggi i grandi eventi potranno avere tutto un altro sapore, nel bene come nel male.
Dal serio al (molto) faceto, eccoci alle star. Fiorello e Jovanotti sono tra le personalità italiane più attive del settore: mostrano backstage, prove degli spettacoli e vita privata. È un’idea simpatica per continuare quella via intrapresa anni fa con Twitter, ovvero mostrarsi vicini ai fan condividendo una porzione (limitata) della propria intimità. Il problema però è che si rischia di far finire tutto alla Maria De Filippi, come quando Aurora Ramazzotti, figlia del più noto Eros, ha condiviso un video in cui imitava Belén Rodriguez e si lasciava andare a una battuta infelice sul figlio della stessa. Allo scalpore mariadefilippesco è stato subito posto rimedio con scuse spammate in ogni dove e un intervento salvifico di papà (“Ragazzi, Auri ha commesso un’ingenuità di cui si è pentita amaramente”). Una prova che non tutti sono pronti alla rivoluzione, la vita senza filtro è diversa dalle luci della ribalta.
Arriviamo ora a noi comuni mortali. Tralasciando i genietti della comunicazione che hanno iniziato a fare del live streaming una piattaforma di lancio simil YouTube, nella maggior parte dobbiamo ammettere di essere noiosi. Al momento ci sono migliaia di video di pochi secondi del tutto inutili ma ci sta, sono coloro che hanno aperto l’app, l’hanno provata e poi spento tutto (Alzi la mano chi non l’ha fatto). Basta però consultare uno qualsiasi dei tanti profili attivi per ritrovarsi immersi in una noia siderale. Ci sono bordate di bambini, gattini e cagnolini alla deriva, gli immancabili pervertiti e camere fisse che riprendono muri, porte e finestre con relativa musichetta di sottofondo. Non mancano nonne che cucinano, zie che si esprimono in incomprensibili dialetti e professori alle prese con bande di ignoranti.
La vita senza filtro in questo caso mostra tutta la sua banalità ma gli utenti migliori (pardon, peggiori) però sono coloro che mettono lo smartphone sul parabrezza dell’auto e danno vita a piani sequenza fatti di asfalto e vetture in coda. Non siete Jean Luc Godard, il vostro Week End è ben diverso da quello del genio francese e avete perso una buona opportunità per risparmiare la batteria. Usare in questo modo dei mezzi così potenti e rivoluzionari non va bene. Se proprio dovete farlo almeno dite qualcosa. Non necessariamente di sinistra, eh.V
Via IlSole24Ore.com
Recentemente sono stato all’evento italiano di Gartner, dal titolo significativo “From E-business to D-business: How to Realize, Build and Optimize Digital Opportunities“, dove ho sentito interventi di ottimo livello che mi hanno confermato gli spunti che avevo recentemente sentito al SAP Executive Summit sulla profonda trasformazione in corso nelle aziende grazie alle nuove tecnologie.
L’IT deve imparare ad essere bimodale
Gli analisti di Gartner da tempo hanno iniziato a dire che l’IT deve diventare Bimodal, ossia deve essere in grado sia di continuare a garantire le attività core, con un approccio progettuale tradizionale, sia affrontare le nuove sfide del digitale aprendosi a logiche di sviluppo di tipoAgile (e non solo) e più business oriented.
I due IT a confronto
Il rischio altrimenti è quello di restare fuori dal processo di innovazione e dai relativi budget, secondo quanto detto al convegno già oggi infatti un 38% di spesa sulle tecnologie non nelle competenze IT tradizionali e si stima che possa arrivare al 50% nel 2017.
Ma il tema è solo l’IT?
Ma se Bimodal vuol dire anche convergenza tra chi si occupa di tecnologia e le line of business alloraforse non è solo un tema di IT.
I modi di affrontare il tema organizzativamente possono essere diversi, passando sicuramente perfigure di collegamento come il Chief Digital Officer o il Chief Marketing Technologist, ma in ogni caso non padroneggiare la tecnologia è come non conoscere un fondamentale che riguarda tutti.
Non importa che tu sia IT o Marketer, inizia a correre!
Alla fine io credo che alla lunga discutere delle separazioni fra chi fa tecnologia e chi fa business sia abbastanza ozioso, in modi che varieranno a seconda delle company e della loro cultura interna arriverà un momento in cui due mondi troveranno una conciliazione. Ma bisogna intanto non perdere il treno delle opportunità!
Per farlo, come titola un report che sto leggendo sulle nuove metodologie di progetto, serve un passaggio dalla cultura “Me” a quella “We”, perché oggi nessuna funzione aziendale può farcela da sola a cavalcare la disruption causata da questi nuovi fattori senza collaborare con le altre.
Facebook rimane il più popolare social network tra gli adolescenti americani di età compresa tra 13 e 17, secondo un nuovo sondaggio di Pew.
Anche se siti come Instagram e Snapchat si rivolgono sempre più alla fascia d'eta dei ragazzi, Facebook è ancora una "forza dominante", Pew ha detto. Tra gli oltre 1.000 ragazzi intervistati, il 71 per cento ha dichiarato di utilizzare Facebook, mentre il 41 per cento ha detto che Facebook è il sito che usano più di frequente su tutte le altre reti sociali. Instagram e Snapchat sono, rispettivamente, il secondo e terzo dei siti più utilizzati di frequente.
Mantenere (e anche trovarne di nuovo) pubblico adolescente è fondamentale per Facebook per attirare dollari di pubblicità, sia nel presente e soprattutto nel futuro. Nel frattempo, il ruolo di Facebook nella vita del tipico adolescente americano (perchè il sondaggio è stato condotto tra ragazzi americani) è stato più volte messa in discussione negli ultimi anni.
Indagini pubblicate l'anno scorso, come quelle di Piper Jaffray e Frank N. Magid Associates, hanno concluso che la popolarità di Facebook tra gli adolescenti è diminuita negli ultimi anni. Tuttavia, un sondaggio di Forrester sempre dello scorso anno ha ottenuto risultati più in linea con la nuova indagine di Pew e ha notato che Facebook è ancora il sito di social media più utilizzato tra gli adolescenti.
Ad ottobre 2013, il Chief Financial Officer di Facebook David Ebersman ha detto che ogni giorno l'uso di Facebook tra gli adolescenti più giovani era diminuito tra il secondo trimestre ed il terzo trimestre di quell'anno. Tuttavia, il mese successivo il Chief Operating Office di Facebook Sheryl Sandberg ha respinto tali preoccupazioni, dicendo che "la stragrande maggioranza dei ragazzi americani sono su Facebook, e la maggior parte degli adolescenti americani usano Facebook quasi ogni giorno."
Secondo il nuovo sondaggio di Pew, la maggior parte degli adolescenti trascorrono il loro tempo su più di un social network. Nello specifico, il 22 per cento degli intervistati usano ancora solo un sito, il 66 per cento dpreferisce Facebook, il 13 per cento usa Google+, il 13 per cento Instagram e il 3 per cento Snapchat.
Pew ha precisato che i ragazzi avevano più probabilità rispetto alle ragazze di dire che visitano Facebook più spesso - il campione era composto per il 45 per cento da ragazzi contro il 36 per cento di ragazze.
I ragazzi tra i 15 a 17 anni hanno più probabilità dei giovani adolescenti di età tra 13 e 14 anni di usare maggiormente Facebook (il 44 per cento dei ragazzi più grandi contro il 35 per cento dei ragazzi più giovani). Gli adolescenti più giovani si sono rivelati essere più appassionati di Instagram dei ragazzi più grandi. Questa è ancora una buona notizia per Facebook, in quanto la società ha pagato 1 miliardo di dollari l'acquisizione di Instagram nel 2012.
Pew ha anche interrogato i ragazzi per il loro numero di amici di Facebook. Tra gli intervistati, il tipico adolescente ha 145 amici in rete. Nel dettaglio, il 30 per cento ha riferito di avere amici in numero tra 0 e 100, il 12 per cento tra 101 e 200 amici, il 9 per cento tra 201 e 300 amici, e il 15 per cento oltre 300 amici. Circa un terzo dei ragazzi intervistati ha dichiarato di non essere sicuro di quanti amici in Facebook avevano.
Il sondaggio di Pew è stato condotto online negli Stati Uniti in inglese e spagnolo tra circa 1.060 ragazzi di età compresa tra 13 e 17 anni, insieme a un genitore o tutore, dal 25 settembre al 9 ottobre 2014 e ad altre 44 coppie di adolescenti/genitori dal 10 febbraio al 16 marzo 2015.
Via PianetaCellulare.it
Con il progetto Google Plus in netto declino e clinicamente morto, Google potrebbe lanciare una offerta di pubblico acquisto per Twitter per dotarsi di uno strumento social e rilanciare una ulteriore integrazione tra il proprio motore di ricerca e l'enorme flusso informativo di Twitter.
Si tratta per ora solo di voci di corridoio, sufficienti a far volare il titolo in borsa del 4%.
Secondo le indiscrezioni, circolate a Wall Street, Google si sarebbe rivolta alla società Goldman Sachs per valutare il caso e preparare l'offerto di acquisizione delle azioni che, come forse saprete già, sono quotate al Nasdaq.
In queste occasioni, l'acquirente ha l'obbligo di annunciare una offerta di pubblico acquisto ovvero una promessa di acquisire le azioni detenute da investitori e risparmiatori ad un prezzo prefissato. In caso di adesione di una certa quota azionaria, l'operazione si conclude effettivamente. Per avere il controllo sicuro di una società quotata, è necessario disporre del 50% +1 delle azioni totali, anche se in realtà, in molti casi, un buon 30% è sufficiente per averne il controllo di fatto.
A leggere i commenti sui siti americani, sembrerebbe che la notizia possa trovare effettivamente delle basi solide.
Google dispone di ampia liquidità, calcolata intorno ai 60 miliardi di dollari e deve in qualche modo sopperire alla mancanza di un progetto Social in grado di funzionare a dovere.
Inoltre, come già accaduto in passato, l'integrazione con Twitter darebbe anche un certo valore aggiunto a Google che potrebbe includere i tweet nei risultati di ricerca, sfruttando la dote di istantaneità tipica di Twitter.
Altro punto da considerare, l'ipotesi che Google, messe le mani sul cuore del social network, possa acquisire dettagli da sfruttare poi nel proprio algoritmo di ricerca, aggiungendo una interessante componente social per stabilire l'importanza e l'ordinamento nei proprio risultati di ricerca.
Riguardo Twitter, il sistema si presa decisamente bene alla rivoluzione Mobile in corso, per la sua stessa natura.
Via PianetaCellulare
All'inizio di marzo sono stato ospite di SAP e di DMA Italia al SAP Executive Summit nella splendida cornice di Villa d’Este a Cernobbio, e in particolare nella prima parte del meeting ho partecipato alla sessione sul consumatore digitale.
Con una location così…
La domanda da cui partiva il dibattito era proprio: esiste il cliente digitale? La risposta, che condivido, è no.
Digitale? Sì, ma quando mi fa piacere esserlo
Il punto di partenza è semplice, esiste il cliente, anzi forse sarebbe corretto dire i clienti perché ciascuno di essi ha un percorso sempre più personale ed è difficile racchiuderlo in etichette. In questo senso, come detto giustamente anche dalla brava Mafe De Baggis che ha condotto parte dell’incontro, l’utilizzo degli strumenti tecnologici avviene quando questo risponde ad un’esigenza ed è spontaneo, non c’è un momento in cui un cliente si mette consapevolmente il cappellino “consumatore digitale”! Come tutti quelli che si occupano di digital da tanto tempo poi anche Mafe è ormai stufa di vedere questo ambito come qualcosa di separato ed esoterico, e tanto meno pensa che questa separazione esista per le persone.
Come ho scritto anche io tante volte, bisogna invece pensare al mobile, al social, al web, al cloudcome qualcosa che fa parte di un contesto di vita (e di strategia aziendale) e che si sposa in modo coerente con tutto il resto. Molte delle tendenze, come ad esempio lo sharing e certe forme di socializzazione, in realtà non sono certo nate con i social media o i cellulari, questi strumenti le hanno fatte evolvere, trasformate, potenziate, come già tante invenzioni prima di essi. La digitalizzazione quindi è un elemento del quotidiano, ed il fatto che un evento importante come quello di SAP sia stato dedicato alla digital transformation mi sembra un’ottima prova.
La conversazione ci piace, ma meno dell’informazione
Un’altra cosa che condivido in pieno è il fatto che il social è uno strumento di relazione prezioso ma che nel tempo si è creata una mitologia circa il cliente che vuole conversare con noi, che va quanto meno integrata. Se è indubbio infatti che una comunicazione puramente promozionale è distonica in cui contesto in cui le persone si stanno obiettivamente facendo i fatti propri è altrettanto vero che le stesse persone per fare conversazione non stanno di certo cercando un brand.
Che cosa vuole da noi allora il cliente? Informazioni prima di tutto
Il social è diventato una estensione di Google e del SEO, per cui le persone che cercano risposte su di un brand si aspettano di trovarlo (anche) nel loro network preferito, per soddisfare le loro necessità. Questo non vuol dire di certo che gli owned media vanno abbandonati per gli earned o che sesiamo veloci a rispondere sul social abbiamo risolto tutti i nostri guai (e il call center che ci mette tre giorni, non siamo sempre noi?)! Più semplicemente il cliente cerca di rispondere a dei suoi bisogni, nel contesto (parola molto importante) in cui si trova.
La convergenza di ruoli continua a pieno ritmo
Concludo sottolineando con piacere che la convergenza fra ruoli di IT e business prosegue spedita:al di là del tema digital transformation infatti anche i partecipanti all’evento parlavano chiaro, con solo la metà dei delegati con cariche di CIO o equivalente. Il resto erano persone di marketing, HR o di altri rami del business. Ci avreste scommesso solo due o tre anni fa?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Chi l’ha detto che le donne sono le e-shopper più accanite? Almeno in Usa, stando a una ricerca di Bronto Software, con dati rilasciati nel mese di marzo 2015, la situazione sarebbe esattamente opposta, con i compratori maschi ad avere il click sul tasto buy più frequente rispetto alle femmine.Tre su 10 degli acquirenti digitali negli Stati Uniti, infatti, hanno dichiarato di fare un acquisto on-line almeno una volta alla settimana, rispetto a meno di un quinto degli intervistati di sesso femminile. E mentre quattro donne su 10 fa acquisti on-line di tanto in tanto, gli uomini sono ancora i più propensi a fare acquisti online almeno una volta al mese o più: il 62% contro il 58%.
Un’altra ricerca, quella di dicembre 2014 condotta da Ipsos Public Affairs ha scoperto che gli uomini si sono dimostrati leggermente più entusiasti rispetto alle donne nel fare shopping natalizio online. Il 31% degli utenti maschi statunitensi ha fatto shopping digitale il giorno del Ringraziamento e il Black Friday, le occasioni calde per gli acquisti d’oltreoceano a ridosso delle festività, contro il 28% delle femmine.
I maschi sono anche coloro che spendono cifre più rilevanti rispetto alle femmine per gli acquisti da mobile. Secondo uno studio di novembre 2014 condotto da Harris Poll per la Interactive Advertising Bureau (IAB) Mobile Marketing Center of Excellence e Market Insights Precision di Verizon, il 35% degli americani maschi adulti possessori di smartphone hanno speso 51 dollari o più ogni mese per gli acquisti tramite i loro telefoni, contro il 20% delle donne.
Via Tech Economy
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