Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’advertising attraverso social media attraversa una fase di forte crescita ed il trend continuerà nei prossimi anni, anche se tenderà a raffreddarsi con la maturazione del mercato. Gli investimenti pubblicitari nei social network e nei social game, secondo la società di analisi eMarketer, nel 2012 dovrebbero raggiungere complessivamente i 7.72 miliardi di dollari, con un incremento straordinario del 50%.Nei due anni successivi dovrebbero continuare a crescere a ritmi attenuati, ma in ogni caso forti.
Il prossimo anno il mercato del social advertising dovrebbe crescere del 32.6% e in quello successivo il tasso di crescita dovrebbe attestarsi al 15.9%, per un totale di quasi 12 miliardi di dollari.
Via Tech Economy
Uno dei grandi problemi che i brand e gli individui hanno oggi è quello di poter emergere dal rumore e dall’overload di informazioni per poter essere rilevanti verso un certo pubblico, nicchia o un mercato di massa che sia. È un tema forte dell’economia dell’attenzione in cui ci troviamo: gli strumenti per comunicare ormai sono alla portata di tutti, moltissimi li usano (bene o male, ma non è questo il punto), pochi invece ascoltano e ne scaturisce un gran rumore, in cui è difficile cogliere cosa ci interessa.
Per ovviare a questo ci si attrezza, in vario modo: la content curation è un tema forte del momento, si continua a parlare di web semantico e di nuovi strumenti di ricerca (un’altra volta vorrei discutere di Volunia) e, in genere, si fruisce dei nuovi media attraverso singole applicazioni che consentono di fare agilmente poche cose alla volta.
Chi vuole dunque fare marketing e strategia all’interno di questo contesto sempre più affollato oggi si concentra molto sul riuscire a farsi sentire. E molto poco sull’ascolto. Ma io intravedo dietro a questa bagarre un’opportunità straordinaria, e difficile da sfruttare senza cognizione di causa, che è quella dei dati.
Pensiamoci un attimo: se vediamo l’ecosistema digitale odierno (ribadisco: ecosistema) e quello di business più in generale probabilmente non ci sono mai state tante possibilità di raccogliere, analizzare, correlare informazioni che vengono dalle fonti più disparate, online e offline, via computer o via altri device (primi fra tutti i cellulari).
É il tema di the big data di cui ho parlato altre volte recentemente e su cui stanno costruendo la loro fortuna alcuni dei big della nuova economia: Facebook e Google ad esempio fondano la loro redditività sulla vendita di spazi pubblicitari che si basano sulle informazioni e sui comportamenti dei propri utenti, con una precisazione e misurabilità sconosciuta ai vecchi media.
Mark Zuckenberg mentre illustra Open Graph - fonte: searchenginejournal.com
Sulla loro scorta, anche alcune grandi company private stanno iniziando a correlare e integrare tutti i dati in loro possesso, e chi ne ha i mezzi, come Walmart, si sta spingendo oltre con dei laboratori dove si costruiscono nuovi modelli di business.
Se il trend restasse questo il livello della sfida si alzerebbe notevolmente, in quanto:
A) basare le proprie strategie sulla comprensione e l’ascolto è molto più difficile che comunicare verso segmenti che abbiamo bene in mente ma che forse non esistono nella realtà. E non è poi un tema del tutto nuovo o solo legato ai media digitali.
B) raccogliere e strutturare i dati necessari a sviluppare il punto precedente è molto più complesso e oneroso che mettere una persona (magari in stage) a postare qualcosa su Facebook secondo l’ispirazione del momento
C) i dati vanno raccolti in una molteplicità di modi ma con una regia coerente alle spalle: ecco che tutti gli strumenti devono essere visti come un ecosistema che non può essere fatto di camere stagne e senza collegamento
D) qualcuno deve essere in grado di interpretare in una visione più ampia queste opportunità, leggendo in modo corretto le informazioni e trovando nuovi modi di costruire opportunità.
Guardando il tutto da un punto di vista economico la scelta sembra logica: si passa dal competere per una risorsa scarsa (l’attenzione) allo sfruttare una abbondante (il dato/informazione). Allo stesso tempo però non è molto interessante stare seduti su di un lago di petrolio se non lo si sa estrarre, raffinare e utilizzare (e/o anche vendere). E qui tornano in campo le persone e le nuove professionalità.
A mio avviso infatti una separazione netta fra “tecnologia” e “funzioni di business” perde di senso ma nelle nostre aziende questa evidenza ancora oggi fatica ad affermarsi.
Voi che cosa ne pensate? É troppo presto? É un trend momentaneo (io non credo)?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
PayPal, il famoso sistema di pagamento digitale, ha di recente lanciato un progetto pilota di commercio elettronico tramite smartphone a Singapore.
I device mobili sono sempre di più al centro delle attività di shopping dei consumatori e, per quanto il pagamento tramite dispositivo mobile non sia un’attività ancora molto comune, gli utenti sembrano interessati a simili formule, ma resistono delle preoccupazioni per questioni relative alla sicurezza. PayPal può, da questo punto di vista, investire e capitalizzare su un rapporto di fiducia instaurato negli anni con i consumatori, vantaggio competitivo non indifferente.
La società ha dato il via a una sperimentazione di m-commerce presso 15 fermate della metropolitana di Singapore. In ogni momento della giornata sarà possibile fare acquisti rapidamente e comodamente attraverso i QR code presenti sui cartelloni pubblicitari. Sarà sufficiente scansionare il codice ed inserire i propri dati di accesso PayPal. I QR code semplificano l’identificazione e l’acquisto del prodotto che diviene istantaneo ed elimina la necessità di ricercare l’offerta sul web, inoltre, l’iniziativa si inserisce in un trend di crescente diffusione dell’utilizzo di tale tecnologia da parte dei consumatori. I prodotti acquistati saranno poi ritirabili presso i punti vendita o recapitati a casa.
La sperimentazione PayPal, senza introdurre grandi innovazioni, potrebbe trasformare drasticamente l’esperienza del mobile shopping permettendo ai commercianti di usufruire di un canale di vendita diverso dai negozi fisici e dai tradizionali spazi dell’e-commerce. Il display advertising si configurerebbe come uno spazio espositivo e di acquisto e il device mobile muterebbe in un dispositivo d’acquisto istantaneo e potenzialmente diffuso e onnipresente.
Via Tech Economy
I possessori di smartphone e tablet apprezzano gli annunci che pubblicizzano giochi, film e programmi d’intrattenimento.
Lo dice una ricerca svolta a inizio anno da Greystripe, secondo cui il 66% dell’utenza dei cellulari di ultima generazione e il 58% dei clienti iPad interagiscono con i display pubblicitari mobili quando trattano videogame o promo dei film in uscita al cinema.
Il formato promozionale preferito dagli utenti mobili è quello video: oltre il 60% degli intervistati ha dichiarato di aver visto trailer cinematografici sul proprio dispositivo. I trailer rappresentano al momento il 42% dei video promozionali cliccati degli internauti via smartphone o tablet.
Via Quo Media
Il rischio per chi si occupi di strategia digitale e, in generale, di nuove tecnologie per il business è quello di essere percepito come un tecnico. La cosa è di certo piuttosto vera per diverse professionalità importanti e molto specializzate legate al mondo del digital (Seo, Developer, Data analyst etc.) che possono oggi trovare posto nelle organizzazioni più grandi, ma non per quelle figure che devono sovrintendere all’ecosistema dal punto di vista strategico.
immagine tratta da http://www.collaborationideas.com
Ne ho già parlato altre volte: la strategia digitale è qualcosa che si interseca profondamente con tutti i rami e i settori di business dell’azienda e richiede delle persone dotate di un approccio manageriale, della capacità di dialogare e di capire gli obiettivi e, naturalmente, competenti rispetto alle soluzioni tecnologiche che però non devono implementare in prima persona sul piano informatico.
Questa premessa è importante, secondo me, per capire se e come la tecnologia può far evolvere le organizzazioni: non conosco infatti nessuno strumento in grado di modellarle senza intervento umano (e manageriale), ma questo alle volte non sembra essere così chiaro.
Prima di tutto ritengo dunque che l’approccio POST che si applica ai consumatori si possa utilizzare anche per il cliente interno all’organizzazione: partire dalla tecnologia e non dalle persone cui è rivolta e dagli obiettivi che si vogliono raggiungere è una delle cause di insuccesso più frequenti.
Inoltre la capacità di avere una visione di insieme permette di collegare tante piccole e grandi richieste delle varie aree aziendali in un unico disegno, che permetta una reale evoluzione e non solo il tamponamento dei singoli problemi.
Ancora, la conoscenza della strategia di business unita a quella delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia consente di immaginare nuovi scenari che non sono solo relativi alle richieste esplicite e consapevoli dell’organizzazione ma che guardano a ciò che portare davvero vantaggio competitivo per il futuro.
Infine, un ruolo di digital strategist con competenze managerialideve prevedere una certa capacità di evangelizzazione all’interno dell’organizzazione, in quanto la mentalità delle persone è il vero elemento chiave del mutamento, mentre la tecnologia è solo un supporto e uno strumento.
Mi sento dunque di rispondere alla domanda iniziale dicendo che la tecnologia può far evolvere profondamente le organizzazioni, e già oggi sta creando nuovi paradigmi, ma che questo processo deve essere guidato con il giusto audit interno, con lo stimolo della mentalità corretta e con un approccio strategico consapevole.
La mia personale esperienza lavorativa mi dice che tutto questo è possibile ma che questo tipo di ruolo è ancora implicito nelle organizzazioni, anche se sta diventando cruciale perché l’ecosistema digitale è sempre più complesso e pervasivo. Voi cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Recentemente Twitter ha acquisito Summifiy, una startup con base in Canada che offre un servizio che si sta rivelando sempre più apprezzato: la selezione dei contenuti più interessanti che vengono dai nostri vari social, con l’eliminazione del rumore di fondo che a volte ci impedisce di vedere gli elementi rilevanti.
Alla base c’è un fenomeno interessante, che passa sotto il grande cappello della content curation e che sta vedendo l’ ascesa anche di altri servizi, il più cool dei quali è Pinterest e il più premiato, nella sua tipologia, è Flipboard.
Il tema essenzialmente è quello di fruire del meglio delle news e degli stimoli che ci arrivano dai nostri contatti attraverso una selezione basata sulla popolarità di un tweet/post, sugli argomenti o su quanti altri filtri ci possono interessare. La selezione può essere automatica oppure può avvenire ad opera delle persone stesse, che offrono anche ai loro contatti l’opportunità di consultare quello che si ritiene più interessante (come per Scoop.it, Pinterest, in fondo anche per il vecchio Delicious con gli stack).
Tutto questo ci permette alcune considerazioni: la prima è che anche in questo caso ci torna valida la teoria della coda lunga: per ogni nicchia più o meno grande sulla rete c’è un pubblico e per raggiungerlo è fondamentale la disponibilità di filtri che raffinino sempre più l’enorme offerta esistente fino a giungere a ciò che interessa davvero.
La seconda nota poi è che questo trend ci conferma che i social sono, per la maggior parte delle persone, un grande bacino d’ascolto dove per un utente che crea ci sono nove commentatori e novanta fruitori essenzialmente passivi. Tale proporzione 1-9-90, anche se non nuova, deve far riflettere le aziende che comunicano sulla rete, per comprendere correttamente qual è il reale bacino di audience di cui dispongono, anche quando all’apparenza sono pochi coloro che interagiscono direttamente.
Ancora, la content curation dimostra che il giudizio e i criteri di selezione delle persone cui diamo credito è un fattore importante per i lettori, le aziende dunque dovrebbero essere in grado di porsi come “editori” credibili di elementi interessanti e non solo autoreferenziali, proponendo stili di vita, competenza negli argomenti del proprio territorio semantico e, soprattutto, capacità di individuazione e di ascolto dei propri target.
Infine è sempre più importante la capacità delle aziende di rendere liquidi e facilmente distribuibili i proprio contenuti, le immagini, i testi e quanto rientra nel mare degli asset digitali, per far sì che le persone li possano far entrare nei propri circuiti di lettura e condivisione, amplificandone clamorosamente la portata. Un’operazione tecnicamente non impossibile ma in assoluto poco nota alle aziende, anche nelle versioni più semplici e di lunga esistenza come i feed rss (che possono essere molto parcellizzati per argomento).
Il fenomeno della content curation ci dimostra dunque in conclusione che c’è voglia di contenuti validi e molto segmentati e che l’ostacolo casomai è l’enorme rumore di fondo che c’è online. Come scrissi tempo addietro parlando del defunto Google Wave, una delle sfide del futuro nell’economia dell’attenzione è la capacità di offrire criteri rilevanti e anche semantici di selezione. Mi sembra un trend attuale e su credo che siamo che si sia oggi solo all’inizio…
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
I numeri dei social media sono sempre impressionanti, ogni volta che li si legge oppure li si vede in un video, come quello qui sotto.
È naturale e corretto dunque che le aziende che vogliono fare marketing digitale guardino con grande attenzione a questi fenomeni, anche se spesso lo fanno senza quella prospettiva strategica di cui tante volte ho parlato.
Tuttavia questo intesse si scontra con un problema di fondo di cui pochi si rendono conto, ossia la scarsa preparazione delle imprese, almeno per quanto riguarda l’Italia, sul web e i nuovi media in genere.
Per il mio ruolo professionale infatti mi confronto ogni giorno con i marketing di grandi e piccole aziende per attività di comunicazione digitale e mi rendo conto che spesso mancano le più elementari nozioni circa i concetti di link, domini internet, newsletter, formati dei file e chi più ne ha più ne metta. Quasi tutti però sono pronti a fare qualcosa assieme sulle rispettive pagine di Facebook.
il digital marketing - immagine tratta www.boldendeavours.com
Allargando ancora lo sguardo e navigando su moltissimi siti aziendali emergono altri aspetti rilevanti, dalla totale assenza delle più elementari componenti SEO/SEM (e qui la colpa è anche di chi fa i siti) fino alla sezioni news aggiornate a 2 anni prima e passando per usi smodati del flash o di altre tecnologie che ogni iniziano a creare problemi con i dispositivi mobile.
Questi problemi naturalmente si applicano a chi abbia un sito proprio, perché molte sono le imprese che stanno trasformando la loro presenza sul web in una pagina Facebook, che è l’esempio aziendale della democratizzazione degli strumenti digitali: facile da gestire (finché non bisogna rispondere ai fan), gratuita, simile al proprio profilo personale.
Tuttavia se il digitale ormai è un ecosistema questo quadro descritto sopra risulta davvero devastante.
Il primo problema è che senza le fondamenta non si può costruire una casa, e in questo caso le basi sono un sito strutturato in modo corretto, con tutti i suoi elementi di base e una regolare politica di marketing che vada dalle newsletter all’advertising passando per i motori di ricerca. Se poi non ci limitiamo solo al web ci sarebbe da discutere di digital asset management, di gestione delle informazioni, multicanalità, clima organizzativo e di molto altro.
Il secondo tema è relativo al dilemma dei social media e al corretto rapporto fra earned media e owned media: spostare tutta la propria presenza web sui social vuol dire esporsi al rischio di perdere i propri clienti in qualsiasi momento, di essere dipendenti da terzi su cui non abbiamo il controllo (se Facebook domani chiudesse la vostra fan page? Lo può fare) e di non avere nessun dato analitico sofisticato da poter leggere.
L’ultimo elemento mi porta poi nel terzo tema, gli analytics: il web e i nuovi media in genere sono quanto di più misurabile ci possa essere, ma pochi sfruttano questa opportunità, per ignoranza e per analogia con altri media in cui la scarsa misurabilità è rassicurante perché mimetizza meglio i risultati decrescenti che essi portano in termini di ROI. Il mondo però va avanti, e i paesi più evoluti hanno già superato l’e-commerce a favore delle vendite multicanale e le semplici statistiche a favore del big data: è la logica dell’ecosistema dove tutto concorre ad un’unica strategia.
immagine tratta da http://www.tech2date.com
Un ultimo flash infine sulle competenze delle persone: è vero che in altri paesi chi si occupa di digitale è pagato molto meglio e gode di grande status aziendale ma c’è da dire che la maggior parte di coloro che da noi fanno questo tipo di mestiere in quei contesti forse potrebbero essere presi come stagisti. Non si legga quest’ultima frase come arroganza e mancanza di rispetto: semplicemente lo standard interno alle aziende è davvero basso e dunque la crescita delle persone non è facile, e questo incide anche sullo status professionale di tutto il settore.
Tutto male dunque? Assolutamente no, le cose si stanno evolvendo anche da noi e molti giovani capaci iniziano ad apparire sul mercato del digitale, che a sua volta è in crescita per via della crisi visti i costi minori rispetto ad una parte del marketing più tradizionale. Quello che ancora scarseggia è la visione di insieme e, forse, un po’ di ricambio generazionale e organizzativo se i marketer di maggiore esperienza non sapranno aprirsi ai nuovi mezzi per paura di perdere la loro posizione. E voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
La pubblicità di Facebook arriverà, da marzo, anche agli utenti mobili che usano l’applicazione del social network per iPhone, iPad e dispositivi Android. La compagnia di Mark Zuckerberg sta discutendo i dettagli con le agenzie pubblicitarie, ma è ormai certo che le così dette ‘storie sponsorizzate’, attive su Facebook da dicembre 2011, arriveranno anche sui smartphone e tablet.
Il sito prova così a rimpolpare ulteriormente gli introiti pubblicitari, sfruttando al meglio la crescita esponenziale del traffico mobile. La crescita dei proventi mobili è uno degli obiettivi di Facebook per i prossimi mesi e dovrebbe fare da ulteriore volano per la quotazione in borsa della società, prevista per maggio.
Via Quo Media
Apple è l’azienda del comparto telefonia mobile (smartphone + cellulari) con un migliore rapporto fatturato-profitti e la quota maggiore di utili. Le concorrenti al contrario ricavano in proporzione utili molto minori dalla propria quota di mercato.
Le vendite di iPhone rappresentavano a metà 2010 il 3% del mercato complessivo. L’incremento di quasi il 6% ottenuto in un anno e mezzo, porta la quota di mercato dello smartphone della mela all’8,7% a fine 2011, con un fatturato che rappresenta il 39% dei ricavi totali del comparto. Nello stesso periodo la quota di profitti della compagnia è passata, secondo dati elaborati dall’analista di mercato Horace Dediu, dal 39% degli utili dell’intero mercato al 75%. Apple riesce, quindi, ad ottenere i tre quarti dei profitti del settore con meno di un decimo dei dispositivi venduti. La multinazionale di Cupertino ha un tasso di profitto davvero invidiabile.
Solo cinque compagnie, tra le maggiori otto del comparto, ottengono profitti. Samsung ottiene il 16% dei profitti del settore, con il 25% del fatturato. Apple e Samsung da sole rappresentano il 91% degli utili, lasciando agli altri le briciole. RIM incassa l’8% del fatturato complessivo e ricava profitti per il 3.7% (quarta per fatturato, terza per profitti). HTC a fine anno è terza per utili (3.0%) e quinta per fatturato (5,5%). Nokia è seconda per fatturato 12,6%, ma con tasso di profitto non positivo quinta per profitti (1.8%). Motorola, LG e Sony sono in rosso e registrano perdite.
Via Tech Economy
Un’App aziendale ben progettata è un punto di contatto importante tra azienda ed utenti e può contribuire al business in svariati modi: creando awareness, facendo passare più tempo con la marca, consentendo di innalzare il livello del servizio offerto. Tuttavia, se viene realizzata senza cogliere le specificità del canale Mobile, con scarso valore per l’utente, anzi deludendone le aspettative, può trasformarsi in un boomerang e generare l’effetto opposto. Ecco l’elenco delle 5 linee guida da seguire per non sbagliare, stilato dai ricercatori dell’Osservatorio Mobile Marketing & Service della School of Management del Politecnico di Milano.
. Definizione degli obiettivi
2. Progettazione dei contenuti
3. Promozione dell’App
4. Misura delle performance
5. Processi e logiche di gestione degli Application store
1.Definizione degli obiettivi
Occorre avere ben chiari gli obiettivi per cui si sviluppa un’App, tenendo in considerazione che quelli che maggiormente valorizzano le peculiarità del Mobile sono la creazione di engagement e l’aumento del livello di servizio al cliente.
2. Progettazione dei contenuti
Occorre tenere in considerazione alcuni elementi peculiari nella progettazione delle App:
• uno degli errori più comuni è quello di interpretare l’App come una pura trasposizione Mobile del sito Web, mentre occorre valorizzarne l’integrazione con le funzionalità a valore aggiunto dello Smartphone, come l’accelerometro, il GPS, la condivisione di foto, l’interazione con i social network, ecc.;
• poiché l’utente fa un utilizzo frequente solo di poche Applicazioni, occorre che offrano un reale valore aggiunto e che abbiano contenuti di elevata qualità e coerenti con i valori della marca. In caso contrario l’App rischia di rimanere inutilizzata o, addirittura, di creare un “effetto boomerang” sul valore e l’immagine del brand in caso di rating e giudizi degli utenti molto negativi;
• occorre aggiornarla (anche con release successive al lancio) e, in molti casi, svilupparla per più piattaforme/Application store.
3. Promozione dell’App
Non basta sviluppare l’App ma occorre renderla visibile in quanto le applicazioni sviluppate da Brand pubblicitari sono solo una minima parte in termini numerici rispetto al totale delle App disponibili negli Store, né sono facilmente rintracciabili in una specifica categoria, e competono quindi in termini di visibilità e usabilità con le altre centinaia di migliaia di App presenti.
Più in dettaglio:
• occorre farla rintracciare dagli utenti all’interno dello Store. La promozione diretta può sicuramente aiutare, ma occorre agire anche sui meccanismi di ricerca dell’utente all’interno degli Application Store;
• occorre adottare iniziative di promozione specifica (con costi superiori, in molti casi anche di molto, a quelli di sviluppo), ad esempio tramite formati di Mobile Advertising, legati a specifiche parole chiave sui motori di ricerca (Keyword Advertising) o tramite banner da inserire in altre App o siti Mobile (Display Advertising). Altri canali di promozione sono i blog di settore (sia specializzati nella recensione di Applicazioni sia legati al settore di appartenenza dell’azienda), i propri di vendita e quelli più tradizionalmente pubblicitari e di relazione con il consumatore (sia Web che offline).
4. Misura delle performance
È fondamentale monitorare il comportamento del consumatore rispetto alle proprie applicazioni con opportuni sistemi di Mobile Analytics e identificando i corretti indicatori di prestazione. Il numero di download non è un parametro sufficiente a misurare i risultati, ma occorrono anche indicatori di reale utilizzo, viralità, reputation e di impatto sulle prestazioni di business. Nelle (poche) aziende più evolute sul Mobile questo già accade, ad esempio con un account aziendale (e non del fornitore) registrato allo Store e/o con il monitoraggio diretto delle performance attraverso strumenti di Analytics specifici.
5. Processi e logiche di gestione degli Application store
A differenza dei siti Web e Mobile, le applicazioni non sono gestibili in maniera totalmente autonoma e indipendente, in quanto sono ospitate su una o più piattaforme di proprietà di terze parti e quindi soggette alle “regole” degli Application Store.
In particolare, due sono gli aspetti più critici che le aziende devono tenere in considerazione:
• i tempi di pubblicazione della propria applicazione sullo Store o dei relativi aggiornamenti possono non essere direttamente controllabili dalle aziende e questo può rappresentare un elemento di criticità nel momento in cui tali tempistiche costituiscano un elemento sensibile (ad esempio se la pubblicazione dell’Applicazione è legata a eventi, conferenze stampa, ecc.);
• l’Application store consente agli utenti di esprimere giudizi e valutare l’applicazione: se da un lato questa è un’opportunità molto importante per generare download e innescare fenomeni virali, dall’altro l’azienda non ha possibilità di fornire una risposta in caso di critiche o giudizi negativi, come accade, invece, nei social network classici. Per ovviare a questa criticità, diventa ancora più rilevante predisporre attività ed iniziative strutturate di pubbliche relazioni per la costruzione e il consolidamento della reputation dell’App, utilizzando i social network per dialogare coi consumatori e coinvolgendo opinion leader di rilievo.
di Andrea Boaretto e Marta Valsecchi
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