Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Secondo una recente ricerca di mercato nell’ultimo anno sarebbe letteralmente impazzata la mania dei dispositivi indossabili facendo segnare un’incremento delle vendite del 684 percento!
La ricerca è stata effettuata da Canalys che ha divulgato i dati nel proprio sito web ufficiale dichiarando che in questi numeri non sono compresi gli Smartwatch.
I leader indiscussi di questo mercato sono Fitbit e Jawbone che tra l’altro sono anche rispettivamente il primo ed il secondo produttore al mondo di dispositivi indossabili.
La ricerca rivela che Nike ha perso molto del terreno guadagnato negli anni passati in questo mercato mentre al contrario Garmin con la sua gamma Vivo Fit sta riuscendo ad ottenere dei buoni numeri di vendita nei mercati principali.
Nella prima metà del 2013 sono stati piazzati (venduti) meno di 800 mila dispositivi indossabili mentre nello stesso periodo del 2014 si è sfiorata quota 4,5 milioni di pezzi venduti!
Per quanto riguarda gli Smartwatch invece abbiamo assistito anche qui ad una crescita molto importante anche se ovviamente il costo di questi prodotti è più alto.
Samsung è l’attuale leader di questo mercato grazie anche alla vasta gamma di dispositivi lanciati (Samsung Gear Live, Samsung Gear Fit, Samsung Gear 2, Samsung Gear 2 Neo e Samsung Galaxy Gear) mentre a seguire troviamo Pebble, un’azienda nata su Kickstarter che ha riscosso il successo che si meritava.
Nella prima parte del 2014 sono stati piazzati 2 milioni di Smartwatch, cifra destinata a salire nella seconda metà grazie all’arrivo di nuovi interessanti prodotti come Motorola Moto 360 o LG R Watch.
Via PianetaCellulare
Ancora tempo di shopping in casa Amazon che si aggiudica Twitch, la piattaforma di video streaming dedicata ai videogiochi, per 970 milioni di dollari e soffia l’affare a Google, da tempo interessata a chiudere l’affare senza però alcun successo. Sembra quindi che l’idea di Jeff Bezos di trasformare Amazon in un fornitore di contenuti, andando ben oltre la vendita online, si stia affermando e con acquisti di alto livello.
Questo è infatti il più grande affare nella storia di Amazon da 20 anni a questa parte e aiuterà la società americana di e-commerce a gareggiare con Apple e Google nel mondo del gioco online, che rappresenta oltre il 75% di tutte le vendite di app mobili.
Twitch è una piattaforma online che consente la condivisione delle proprie fasi di gioco da parte dei gamer: uno strumento per la divulgazione da una parte, un “luogo” di condivisione dall’altra, il tutto all’interno di un sistema di socializzazione incentrato sul mondo del gaming. Dalla fondazione del gruppo nel 2011 la crescita è stata esponenziale al pari al suo successo.
Così recita il comunicato ufficiale: “Amazon annuncia di aver trovato un accordo per l’acquisizione di Twitch Interactive, piattaforma video per il gaming. Nel mese di luglio, oltre 55 milioni di visitatori unici hanno visto più di 15 miliardi di minuti di contenuto su Twitch prodotti da oltre 1 milione di broadcaster, inclusi gamer individuali, giocatori, editori, sviluppatori”. Ad aprile il Wall Street Journal aveva collocato Twirch al quarto posto per volume di traffico negli Stati Uniti, dopo Netflix, Google e Apple.
“Abbiamo scelto Amazon perché crede nella nostra comunità, condivide i nostri valori e la visione a lungo termine – ha spiegato in un post Emmet Shear, il CEO di Twitch – e ci aiuterà ad arrivare più rapidamente ai nostri obiettivi. Grazie ad Amazon saremo in grado di darvi il miglior Twitch di sempre”.
Bezos nel comunicato ufficiale spiega come entrambe le compagnie siano “ossessionate dalla soddisfazione dei clienti e capaci di pensare in maniera diversa. Non vediamo l’ora di imparare da loro e aiutarli a crescere rapidamente per dare nuovi servizi alla comunità mondiale dei gamers”.
Fino a pochi mesi fa Google era la candidata più affidabile per la chiusura dell’operazione, anche grazie alla presenza di Youtube di cui Twitch sembra essere la spalla ideale, ma, secondo Forbes, le normative antitrust hanno ostacolato l’accordo per evitare una eccessiva concentrazione di potere nel mercato dei video online.
Al momento le conseguenze di tale operazione non sono ancora chiare. Shear assicura che la piattaforma di streaming conserverà la sua indipendenza ma l’integrazione con il sistema Amazon è la via più sicura: sarà possibile, infatti, acquistare i giochi ai quali si sta facendo da spettatori, il tutto in pochi click. Inoltre i servizi offerti da Twitch allargheranno ulteriormente il pubblico dei gamers, ora più che mai tentato dalle potenzialità dei videogiochi in streaming a prezzi contenuti.
Insomma un’acquisizione che può sembrare di nicchia ma che promette novità interessanti dall’incontro tra videogiochi e streaming.
Via Tech Economy
Nell’era digitale la nostra navigazione on line è lo specchio dei nostri gusti e delle nostre opinioni, compresi gli orientamenti politici, religiosi e sessuali: il tutto, come noto, ad uso e abuso degli utilizzatori silenziosi di questi dati a scopo pubblictario, come Facebook, Google etc. Adesso però la tecnologia sta cominciando a rivendicare il controllo di qualcosa di più profondo: la nostra personalità e le nostre emozioni.
Così, per esempio, in Gran Bretagna alcune startup tecnologiche sono già andate lontano nello sviluppare applicazioni che leggono i nostri stati d’animo e le nostre tendenze, per poi interpretare questi dati e rielaborarli in un logaritmo che consente loro di conoscerci meglio: come persone in generale, ma più in specifico come consumatori, come candidati per un posto di lavoro e così via.
Siamo nel mondo dello “psytech”, quello in cui la psicologia sposa la tecnologia del big data. La startup londinese VisualDna, per esempio, ha sviluppato dei test psicometrici: bisogna scegliere tra una serie di immagini per far emergere qualcosa di più, in positivo, sulla nostra vera personalità. Il modello di VisualDna parte da quelli che in psicologia vengono chiamati i Big Five (apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amicalità e stabilità emotiva) associati ad altri indicatori specifici per i diversi clienti. «Capire il comportamento e le potenzialità delle persone attraverso un logaritmo è ciò che fa girare Internet. Quello delle ricerche di mercato è un business da 40 miliardi di dollari. Al momento però l’ecosistema digitale è sbilanciato a svantaggio dei consumatori che vengono studiati di soppiatto. Noi pensiamo che ci sia molto più valore nell’arrivare alle informazioni attraverso la porta principale: è una scelta consenziente dei nostri utenti fare i test visivi, digitalizzare i propri dati per assumerne il controllo ed ottenerne benefici», spiega Alex Willcock, fondatore e amministratore delegato di VisualDna. VEDI ANCHE: like-jpg Cosa dicono di noi i nostri “like”
Lo Psycometric Centre dell’Università di Cambridge rivela com’è facile individuare e definire, attraverso i social network, non solo
la nostra personalità ma anche quella dei nostri amici
Se ci conoscessimo più a fondo, potremmo ad esempio sapere quali sono i prodotti, i luoghi, i servizi i film e le letture che fanno per noi, evitandoci gli acquisti sbagliati; ma ci sono casi in cui farci conoscere dagli altri per quel che veramente siamo potrebbe cambiarci la vita, soprattutto se stiamo cercando un lavoro o vogliamo ottenere un prestito bancario. Attraverso i test di credit-risk, infatti, persone escluse da un mutuo possono ribaltare il giudizio negativo dell’agenzia di credito ed avere l’opportunità di crearsi il proprio business. «Nel settore del rischio creditizio abbiamo già 100 mila profili. Rispetto ai test tradizionali usati dalle banche, la nostra metodologia ha ottenuto un incremento del 50 per cento nei crediti concessi a persone che prima non avevano alcuna possibilità di accesso al prestito, con una diminuzione del 23 per cento del tasso di default», afferma Jacob Wright, Head of Strategy della startup. A VisualDna stimano che nel mondo ci siano 2,5 miliardi di persone che sono escluse del credito. La loro missione è aiutare ad uscire dalla povertà 30 milioni di persone nei prossimi tre anni. Per questo la loro tabella di marcia è serrata: il prossimo anno opereranno in Brasile, nel 2016 sarà la volta di India, Africa, Filippine e Indonesia.
Non che VisualDna sia senza scopo di lucro, s’intende: la startup che ha 500 clienti (tra cui Mastercard ed Experia) in un anno ha duplicato i fatturati, raggiunto 160 dipendenti ed è passata dai due ai sei Paesi nei quali è attualmente operativa: Polonia, Gran Bretagna, Russia, Sudafrica, Repubblica Ceca e Turchia. Prossimo obiettivo: Amazon. «Una percentuale considerevole delle loro vendite dipende dalle raccomandazioni fatte sulla base dei prodotti che gli utenti hanno comprato. Se Amazon potesse invece conoscere chi siamo, con il nostro consenso, potrebbe farci raccomandazioni molto più efficaci, sarebbe un vantaggio per i consumtori», dice Alex Willcock. «Vorremmo lavorare più da vicino con i servizi finanziari per favorire un miglior rapporto con i loro clienti», anticipa Jacob: «Pensiamo anche che ci sia un grosso potenziale nel settore dell’istruzione e della salute. Gli studi dimostrano che a diverse personalità corrispondono diverse tecniche di insegnamento o di allenamento fisico. Abbiamo una partnership con un’azienda di tecnologie da indossare: potremo aiutare le persone a perdere peso ed essere più in forma».
Nell’universo dello psytech c’è anche il cosiddetto “affective computing”, una nuova tecnologia che cattura le nostre emozioni, guardandoci in faccia. Crowd Emotion, una startup di Londra è riuscita a mettere insieme vent’anni di ricerche neuroscientifiche in una web application che dà agli utenti la possibilità di decifrare le emozioni espresse dal volto semplicemente attraverso un browser e una webcam. Viene descritta come la prima tecnologia cloud per codificare le espressioni facciali, e a crearla sono stati due italiani: lo psicologo Giancarlo Mirmillo e il responsabile della piattaforma tecnologica Diego Caravana. Il sistema non si basa sul riconoscimento facciale (con buona pace della nostra riservatezza) ma sulla codifica dei pattern delle emozioni espresse dal nostro volto. Siamo tutti un numero, anche se con un cuore: «All’utente viene inviato un link con la richiesta di poter attivare la webcam (rigorosamente su consenso ) la quale riprenderà le sue emozioni durante la proiezione di un video. Il tutto diventa un file, un flusso di dati che poi noi analizziamo per estrarre insight utili alla comprensione dell’efficacia di un certo prodotto», spiega Diego Caravana.
Il software è già usato in Gran Bretagna dalla Bbc per misurare la risposta emotiva degli spettatori ai suoi programmi, mentre in Italia è in corso uno studio sull’efficacia degli spot di Pubblicità Progresso. «Il nostro approccio è unico perché possiamo andare oltre le sei emozioni di base (felicità, sorpresa, rabbia, disgusto, paura e tristezza) e capirne anche di molto complesse perché siamo in grado di elaborare non solo messaggi facciali ma anche vocali», sostiene Giancarlo Mirmillo.
In ultima analisi la tecnologia di CrowdEmotion è in grado di aiutarci a predire il nostro comportamento: se la persona davanti a noi tenterà il suicidio, se il nostro partner ci ama davvero o se il tizio alla frontiera è un trafficante di droga. «È una rivoluzione poter individuare le nostre emozioni attraverso la tecnologia e usarla per far comunicare le persone, anche quelle scarsamente autonome che non possono esprimersi verbalmente», afferma Caravani. «L’idea», dice da Londra il Ceo di CrowdEmotion Matt Celuszak, «è quella di usare la web application per collegare espressioni a stati d’animo, bisogni e possibili azioni da prendere. Si può utilizzare ovunque ci sia una telecamera, un registratore vocale o un sensore di movimenti per rilevare casi di depressione, quando un autista è stanco, se una pubblicità è efficace o, nel settore della sicurezza si potrebbero individuare possibili comportamenti criminali».
Per i due ideatori italiani in futuro questa tecnologia potrà dare un tocco di umanità anche a macchine come i frigoriferi, personalizzati magari sulle nostre emozioni, o rubinetti che regolano l’acqua per le persone che soffrono di Alzheimer. Importanti sviluppi potrebbero aversi nel campo della salute mentale e dell’educazione, con sistemi in grado di valutare i livelli di stress e fornire suggerimenti a chi ha problemi di apprendimento, aumentando l’autostima. «Sono progetti interessantissimi che stiamo sviluppando insieme a vari istituti», dice Mirmillo.
L’innovazione è aperta a chiunque: Crowdemotion ha appena condiviso la sua Api ( l’interfaccia di programmazione) permettendo ai clienti un’integrazione abbastanza semplice di questa funzionalità sulle loro applicazioni. Tra dieci mesi, poi, CrowdEmotion arriverà anche sui cellulari.
Via L'Espresso
Facebook, infatti, è di gran lunga l’applicazione superiore, con 115,4 milioni di visitatori unici nel mese di giugno ma è Google nel complesso l’azienda che vanta il maggior numero di app nelle posizioni top della classifica: con YouTube, Google Play, Google Search, Google Maps e Gmail presenti nelle prime 10 posizioni della classifica. Bene anche Pandora (mentre la rivale Spotify non è nella top 25), al quinto posto, mentre Microsoft è rappresentata solo da Skype al numero 22.
Non ci sono giochi in top 25 ma non è un errore: secondo Andrew Lipsman di ComScore afferma che molti giochi hanno un grande pubblico, ma si “fermano” a 10 milioni di visitatori unici, probabilmente perché i giochi tendono ad avere un picco in popolarità e poi a decrescere mentre app come Facebook e Google tendono a restare stabili. Netflix è l’applicazione top tra quelle che richiedono un abbonamento.
La ricerca fa anche il punto sul mercato delle app in America verificando che il tempo totale trascorso in Usa sui media digitali è salito del 24% nell’ultimo anno, guidato da un aumento nell’uso delle app mobile, che è aumentato del 52%. Il desktop registra una minima crescita dell’1%. Le applicazioni guidano la stragrande maggioranza delle attività di consumo dei media su dispositivi mobili: gli smartphone registrano una leggera più alta percentuale di attività sulle app: 88% rispetto all’82% su tablet.
Per quanto riguarda le abitudini d’uso legate alle app, più di un terzo di tutti i possessori di smartphone scaricano almeno una app al mese. Gli americani dimostrano anche di avere difficoltà a staccarsi dai loro device con la stragrande maggioranza dei consumatori che usano applicazioni sul smartphone e tablet quasi ogni giorno. Più della metà (57 %) degli utenti di smartphone accede alle sue app ogni singolo giorno del mese, mentre solo il 26% degli utenti di tablet fa la stessa cosa. Il 79% degli utenti di smartphone accede alle app almeno 26 giorni al mese, contro il 52% dei possessori di tablet.
Sul fronte piattaforme Android si classifica come il sistema operativo top per smartphone con 83,8 milioni di utenti, circa 16,4 milioni di più dell’iOS di Apple ma, a causa dell’ecosistema frammentato di Android quanto a produttori di apparecchiature originali (OEM), è la casa di Cupertino a rimane il più grande produttore di apparecchiature originali (OEM). Da un punto di vista demografico il 43% degli utenti di iPhone sono di età compresa tra 18-34 rispetto al 39% degli utenti di telefoni Android. Inoltre, il 57% dei gli utenti iPad sono sotto di 45 anni rispetto al 53% degli utenti di tablet Android.
La maggioranza delle app consultate rientrano nella categoria dei social network, ai giochi e al mondo della musica che, insieme, coprono quasi la metà del tempo totale speso sulle app mobili. Tale “peso” evidenzia che i dispositivi mobili sono più pesantemente utilizzati per l’intrattenimento e la comunicazione delle loro controparti desktop. Una curiosità: gli utenti iPhone spendono una quota maggiore del loro tempo sul consumo dei media, con Notizie Generali, radio, foto, Social Networking e Meteo mentre gli utenti Android spendono una quota maggiore del loro tempo nella ricerca e-mail.
Via Tech Economy
Se Andy Warhol avesse immaginato l’avvento di YouTube, avrebbe rivisto la sua profezia sui 15 minuti di celebrità alla portata di tutti. La stima è errata per difetto, a giudicare dai risultati di Felix Kjellberg, il volto più famoso sul portale web comprato da Google nel 2006 per 1,65 miliardi di dollari: conosciuto col nome di PewDiePie , ha 29 milioni di iscritti al suo canale video. Tanti quanti gli spettatori della finale dei mondiali del 2006, l’evento tivù più visto negli ultimi dieci anni in Italia. Un successo tale da far apparire il 24enne svedese sulle pagine del quotidiano americano “Wall Street Journal”, che stima i suoi guadagni in 4 milioni di dollari all’anno.
Kjellberg, che nei suoi video sperimenta e racconta ai suoi seguaci come funzionano i nuovi videogiochi, è la punta dell’iceberg del fenomeno degli YouTubers, come vengono chiamati in gergo i giovani e giovanissimi che si riprendono con una telecamera, montano un filmato e lo caricano online per catturare l’attenzione degli spettatori. Questi ragazzi a caccia di audience nascono col sito, nel 2005, ma è da maggio 2007 che tutto cambia, con l’introduzione del programma di partnership: dopo avere accolto le pubblicità nei video professionali, YouTube allarga la possibilità ai creatori indipendenti più seguiti, aprendo l’era delle star di Internet.
L’idea di base è semplice: chi carica video originali può stipulare un contratto per consentire di inserire spot pubblicitari e iniziare a guadagnare. Google trattiene il 45 per cento dei ricavi, mentre il 55 va all’autore della clip. È difficile stabilire con precisione i guadagni, che dipendono dal tipo di pubblicità (banner o video) e di posizione della stessa sulla pagina, dal Paese di appartenenza, dal prezzo di vendita per una campagna. Inoltre dato che il 75 per cento degli spot possono essere evitati, cliccando la scritta “salta” entro 5 secondi, e considerato che gli investitori pagano solo quando vengono visti per 30 secondi, è possibile stabilire soltanto una stima di guadagno lordo minimo e massimo, che va da uno a 15 dollari ogni mille visualizzazioni della pubblicità collegata al video originale. Per gli utenti con più audience il mercato è ghiotto: nel 2013 la raccolta globale di YouTube ha generato secondo eMarketer.com 5,6 miliardi di dollari, il 51 per cento in più rispetto al 2012. E gli YouTubers in grado di fare guadagni a sei cifre sono ormai migliaia.
tati Uniti ed Europa, dove il fenomeno è esploso prima, dominano il mercato, ma anche l’Italia ormai ha le sue star. Non c’è solo Marzia Bisognin, 22 anni di Vicenza, che seguendo Kjellberg in Svezia per amore ha aperto un canale in lingua inglese sui propri hobby e oggi, col nome CutiePieMarzia vanta 4 milioni di iscritti. Tra le celebrità c’è anche Francesco “Frank” Matano , 24 anni di Santa Maria Capua Vetere, che nel 2007 ha iniziato a pubblicare video di scherzi telefonici, fingendo di essere un bambino o una badante russa, ha sfondato con la sua comicità, e ora conta 932 mila iscritti. O ancora il romano Gugliemo Scilla, 26 anni, in arte Willwoosh , che dal 2008 si è costruito un pubblico di 602mila persone con show comici sempre più sofisticati in cui recita tutti i ruoli.
Col passare del tempo si sono differenziati anche i generi: oltre all’intrattenimento e alle video-parodie, che ad esempio rendono celebri il duo iPantellas (622mila iscritti), Francesco Sole (252mila) e altri, ecco la categoria del “fai da te”, con le ricette culinarie di GialloZafferano (139 mila), canale della 37enne Sonia Peronaci, o il make-up di Clio Zammatteo, 31enne di Belluno che su ClioMakeUp spiega come applicare fard e mascara ai suoi 698mila spettatori.
Un argomento molto cliccato di recente è quello dei videogame, come dimostra l’ascesa di Lorenzo Ostuni, 19 anni di Borgaro Torinese. Col suo nome d’arte FaviJ e i suoi 981mila iscritti, nel mese di giugno è stato inserito dal sito specializzato Tubefilter.com al 36esimo posto nella classifica dei 100 YouTuber più influenti al mondo, con 32 milioni di visualizzazioni al mese e un tasso di crescita del 47 per cento (la graduatoria è dominata da PewDiePie con 351 milioni). «Non mi sento famoso, ma solo uno che ha tanti amici», si schermisce Ostuni. «Ho cominciato per gioco nel 2011 a caricare video con i miei compagni di classe. Poi dal 2013 ho aperto un canale perché a molti piaceva il mio racconto dei videogame horror: la maggior parte dei miei fan ha dai 13 ai 17 anni e gli piace vedermi terrorizzato. I guadagni sono importanti, ma commisurati all’impegno: per realizzare un video impiego sei ore».
La celebrità acquisita può essere spesa fuori dai confini di Internet: Frank Matano è finito nel cast de “Le Iene” in tivù e poi a girare commedie per il cinema, come Willwoosh, che ha lavorato anche in radio e pubblicato un libro, mentre Sonia Peronaci ha avuto il suo programma e i suoi spot in televisione, e Clio Zammatteo si è divisa tra schermo ed editoria.
Per gestire questi talenti sono nate le prime agenzie e i cosiddetti “multi channel network”, come vengono chiamati i produttori di più canali, destinati sempre alla piattaforma video. A dare un’idea del business può bastare la recente acquisizione da parte di Disney del network Maker Studios (380 milioni di iscritti, 5,5 miliardi di visualizzazioni al mese), per una cifra di 500 milioni di dollari più bonus di 450 ad obiettivi raggiunti.
«Cerchiamo talenti sul web, come utenti Facebook con un vasto seguito, e tentiamo di trasferire il loro successo su YouTube», spiega Giovanna Avino, responsabile italiana di Divimove, uno dei maggiori network europei, «oppure mettiamo a disposizione dei nostri YouTubers studi televisivi con attrezzature professionali». È quanto fa la stessa YouTube, che ha già aperto studi di produzione a Los Angeles, New York, Londra e Tokyo, perché video dalla confezione più professionale attirano più spettatori. «Infatti quando le clip diventano virali, vengono spinte da Google in cima ai risultati di ricerca, generando sempre più clic e ricavi pubblicitari», spiega Avino.
«Cerchiamo tutto il giorno i talenti di domani», racconta Luca Casadei, che con l’agenzia Web Stars Channel gestisce tra gli altri Fancazzisti ANOnimi (347 mila utenti) e Leonardo Decarli (271 mila). «Poi iniziamo a farli emergere, ad esempio con comparsate insieme a colleghi già noti. Oggi puntiamo su 13 artisti, ma ne stiamo coltivando più 100 in attesa che esplodano», dice Casadei. «È impossibile costruire un artista da zero», avverte il conduttore televisivo e rapper Francesco Facchinetti, che con NewCo Management gestisce Matano e Sole, «perché è la rete a decidere se funziona o meno. Però una volta individuato un talento possiamo aiutarlo a consolidare il numero di visualizzazioni, anche se non si possono scrivere i testi di uno YouTuber, perché il segreto è la spontaneità». «Nessuno potrebbe montare i miei video, conoscere i miei tempi comici», gli fa eco FaviJ, «e se i fan si accorgono che non sei genuino il rischio è perderli tutti».
Ma quanti ragazzi ne hanno fatto davvero un lavoro? «L’Italia è il terzo mercato dopo Inghilterra e Francia», spiega Facchinetti, «e quelli che guadagnano da 2-3mila euro a 20-30mila euro al mese non sono più di cinque o sei». «Per trasformare un hobby in lavoro passano anni e bisogna raggiungere almeno 450mila iscritti», conferma Avino. Quello che però non si dice è che oltre alla pubblicità di YouTube, ce ne può essere una più o meno occulta, quando lo YouTuber accetta di mostrare un prodotto in video, farne una recensione o girare una telepromozione. «Il confine è molto labile», commenta Facchinetti, «ma le aziende hanno capito che si vende di più se un videogame appare in un video di PewDiePie che in uno spot durante la finale del Super Bowl. Il mercato italiano però è ancora immaturo e molte offerte vengono respinte al mittente per paura che il pubblico si disaffezioni». «Mi hanno proposto di parlare di alcuni giochi», conferma FaviJ, «ma ho rifiutato perché i miei fan non capirebbero un cambio di stile e contenuti». «Le aziende iniziano a capire che lo scambio di opinioni è molto intenso e ci propongono di provare in anteprima i loro videogame. Ma io dico che un gioco non mi piace anche se magari non fa piacere all’azienda», spiega Francesco Gentile, in arte Johnny Creek, 27 anni di Torino, inventore del canale in ascesa Melagoodo (310mila iscritti), che nel nome spiega la sua filosofia di vita. «Ci possono entrare tutti e l’ho lanciato per passione e non per soldi: al massimo tiro su 400 dollari al mese».
Mentre l’industria dei media inizia ad accorgersi del fenomeno, come dimostra l’accordo firmato da Divimove con Fremantlemedia, che produce show come “X-Factor” e “American Idol”, bisognerà vedere se gli YouTubers resisteranno in rete oppure no. Da una parte c’è la promessa di accedere al grande pubblico nazionalpopolare della tivù, dall’altra c’è l’incognita dei guadagni promessi dal web, messi a rischio dall’aumento esponenziale del numero degli YouTubers. E poi, man mano che diventano adulti, i ragazzi di maggior successo potrebbero stufarsi del loro hobby: «Il mio sogno è fare il montatore cinematografico, anche se mi piacerebbe continuare a caricare i miei video su YouTube», dice FaviJ. «Non ho mai pensato di diventare uno YouTuber a tempo pieno», ammette Creek, «ma mi piacerebbe organizzare eventi che ruotano attorno ai videogame».
Ma il pubblico, oggi per lo più composto da giovanissimi, da adulto vorrà ancora vedere show spesso molto improvvisati? «Penso di sì, perché gli adolescenti che ricevono il primo cellulare, una volta acceso YouTube, dimenticano per sempre l’esistenza della tivù», spiega Casadei. Facchinetti è fiducioso: «La nostra scommessa è allargare il pubblico a fasce di età più alte e fare diventare questi ragazzi le star di domani, portando tivù, cinema e musica sulla rete. Penso che ce la faremo».
Via L'Espresso
Precisamente 10 anni fa, il 19 agosto del 2004, Google faceva il suo ingresso in Borsa. Uno sbarco che, all’epoca, non generò una spasmodica attesa mondiale equiparabile alle più recenti di Facebook o Twitter, ma che ha segnato profondamente il nostro tempo. In occasione dell’anniversario sono molte le testate e gli esperti che hanno colto l’occasione per guadare indietro per riscoprire come il mondo era allora e come è adesso, anche grazie a Google. Lo ha fatto ad esempio il Wall Street Journal, rispolverando il prospetto programmatico redatto da Brin e Page e presentato alla Sec: una sorta di “magna charta” che ruotava attorno alla chiarezza e semplicità espositiva.
Il WSJ pone l’accento su un passaggio in particolare, che colpisce soprattutto alla luce di quanto è poi realmente accaduto e di quali e quanti progetti, dai più rivoluzionari ai meno, il colosso ha portato avanti.
“Non eviteremo progetti ad alto rischio o altamente remunerativi a causa della pressione di guadagni a breve termine. Alcune delle nostre passate scommesse sono andate straordinariamente bene e altre no. Perchè riconosciamo nel perseguimento di progetti come questi, la chiave del successo a lungo termine, e continueremo a cercarne…non siate sorpresi se faremo piccole scommesse su aree che sembrano strane. Accetteremo ancora progetti al di fuori del nostro tradizionale campo soprattutto quando l’investimento iniziale sarà basso.”
Un vero e proprio manifesto che, in 10 anni, pare aver guidato realmente le azioni di Google se è vero che tanti progetti sono diventati avanguardia dell’innovazione che verrà ma molti altri, anche a dispetto del successo e dell’apprezzamento da parte degli utenti, sono stati chiusi. E ‘affascinante pensare, spiegano dal WSJ, “a quanto piccolo fosse il mondo di Google allora, una compagnia di circa 2.000 dipendenti, quasi esclusivamente un motore di ricerca con Yahoo e Microsoft erano gli unici concorrenti di peso“. E nel 2004 le entrate di Google erano ferme a 3,2 miliardi dollari mentre oggi superano i 65 miliardi dollari, i margini di profitto netti superano il 20% e la sua capitalizzazione di mercato è diventata una delle più grandi della terra, quasi 400 miliardi di dollari. “Questo successo potrebbe sembrare inevitabile grazie all’ascesa del web. Ma se fosse così Yahoo e Microsoft sarebbero cresciuti di pari passo.” E come sappiamo non è stato così.
Il Time ha provato a stilare un elenco dei dieci grandi cambiamenti, dai più seri ai più divertenti, che Google ha portato nelle nostre vite:
Ha cambiato il linguaggio, diventando un vero e proprio verbo. “To Google” in inglese, che in italiano diventa “googlare” ovvero cercare su Google, è un verbo ormai entrato stabilmente nei nostri vocabolari, così popolare che pare che la società possa anche rivendicarne i diritti, se il termine diventerà generico, come “scala mobile” e “cerniera”, che una volta erano un marchio di fabbrica.
Ha cambiato il nostro cervello. Google è diventata una sorta di “stampella”, di aiuto mentale collettivo. La nostra mente ricorre al concetto di ricerca in rete per avere l’informazione che le sfugge in modo automatico.
Ha preparato il terreno alle altissime valutazioni di Facebook e Twitter. Valutazioni alte basate solo mere speculazioni erano comuni anche nel pieno del boom delle dot-com degli anni ’90, dice Ed Crotty, responsabile degli investimenti per Davidson Investment Advisors. Ma Google ha dimostrato per prima che anche solo un vasto pubblico potenziale poteva pagare in termini di investimento.
Ha cambiato i telefoni cellulari. Dal momento che il primo telefono Android è stato venduto nel 2008, il sistema operativo mobile di Google è ancora in espansione. Oggi possiede quasi l’85% della quota di mercato e ha quasi raddoppiato la sua quota negli ultimi tre anni.
Ha trasformato il modo in cui usiamo e-mail. Gmail è stato inventato dieci anni fa: è difficile persino ricordare “quei secoli bui” in cui lo spazio delle caselle di posta era limitato e bisognava fare costantemente pulizia. Oggi le nostre caselle di posta sono mausolei, che ospitano i file a lungo e persino intere relazioni.
Ha cambiato il modo in cui collaboriamo. Nel 2006 Google ha acquisito la società chiamato Writely. Con quella scommessa, Google ha creato un mondo dove le persone possono collaborare praticamente su qualsiasi tipo di documento, sia per il lavoro che per il gioco.
Ci ha permesso di viaggiare per il mondo stando seduti alle scrivanie. Google Maps (e la Terra) è diventato molto di più di uno strumento per misurare itinerari di viaggio e fusi orari. Dal momento in cui Google Street View è arrivato sulla scena nel 2007, è stato possibile “visitare” mete lontane, fare tour virtuali, pianificare in anticipo i viaggi, e passare ancora più tempo su Internet.
Ha influenzato le notizie che leggiamo. Un alto posizionamento delle notizie nei risultati di ricerca di Google ormai è un affare estremamente serio e può avere un effetto profondo sul successo dei media e soprattutto delle imprese. Non a caso il “comparire in cima” ai risultati di Google è una delle richieste più gettonate delle aziende.
Gli utenti diventano dati. Aziende come Google e Facebook non sono veramente “gratis”: tutti i dati degli utenti sono un bene prezioso che Google mette a disposizione dei suoi inserzionisti pubblicitari.
Ha cambiato il mondo con cui gli altri ci vedono. Ad esempio quando un datore di lavoro “googla” il nome di un potenziale candidato e ne trova link e pagine sul motore di ricerca.
Google oggi è alle prese con temi e problemi che travalicano moltissimo i tradizionali ambiti del colosso: è sempre più spesso chiamata in causa quando si tratta di privacy, sia in rete che su mobile, perchè Google sa anche essere molto invasiva e furba quando vuole. Eppure dieci anni dopo rimane innegabilmente inserita nel nostro “sistema nervoso centrale”. E promette di rivoluzionarlo ancora e ancora con progetti e iniziative che sfidano il futuro.
Via Tech Economy
L'ultima iniziativa di Amazon si chiama Local Register, un servizio di pagamento mobile che permette a utenti e commercianti/professionisti di effettuare/ricevere pagamenti usando una carta di credito (o a debito) e uno smartphone o tablet.
Local Register si basa sull'utilizzo di un lettore di carta magnetica (da inserire nella porta audio di un gadget mobile) e di una app disponibile su Android, iOS, e Amazon Fire: accoppiata che permette di pagare un servizio o un prodotto facendo scorrere la carta nel lettore e autorizzando il trasferimento di fondi. Il deposito del denaro verrà finalizzato entro il giorno successivo al pagamento.
Il nuovo servizio Amazon funziona in maniera non dissimile da quello della start-up Square, e come spesso accade con l'azienda di Jeff Bezos la concorrenza si fa soprattutto sui prezzi: il lettore di schede viene venduto a 10 dollari, mentre la percentuale trattenuta da Amazon su ogni "strisciata" è dell'1,75 per cento sul totale della transizione. Al confronto, la percentuale richiesta per l'utilizzo di Square è pari al 2,75 per cento.
Si tratta, è bene sottolinearlo, di percentuali promozionali per gli utenti che si registreranno entro il 31 ottobre e valide fino al primo gennaio 2016, mentre il sovrapprezzo pieno sarà del 2,5 per cento delle transazioni. Per invogliare ulteriormente i clienti all'uso di Local Register, infine, Amazon darà la possibilità - tramite la app mobile - di consultare rapporti sull'attività economica, i trend delle vendite, i periodi di picco degli affari e altro ancora.
La soluzione Amazon per i pagamenti online rappresenta l'ennesima riprova del fatto che le transazioni "wireless" con comunicazioni NFC (Near Field Communication), inizialmente salutate come una rivoluzione capace di far sparire in un sol colpo denaro contante e carte di credito, non hanno sfondato come molti si aspettavano. Un nuovo rapporto di BI Intelligence, però, va in direzione contraria e invita a non dare ancora per defunta la tecnologia.
Via Punto Informatico
Ancora novità per gli inserzionisti di Facebook: il social di Zuckerberg sta lavorando per consentire ai propri inserzionisti di vedere quali acquisti vengono fatti e su quali dispositivi. Il social network sta infatti lavorando ad uno strumento di reportistica “cross-device” ovvero un nuova funzionalità che consenta di vedere come effettivamente si muovono i consumatori quando passando da un device ad un altro, rilevandone le conversioni, ovvero “l’acquisto, la registrazione, l’aggiunta di un articolo al carrello o la visualizzazione di una determinata pagina”. In altre parole sarà possibile capire sia su quale dispositivo gli utenti vedano, ad esempio, annunci pubblicitari, e poi quale usino effettivamente per finalizzare l’acquisto. A motivare la mossa di Facebook vi è la crescente abitudine a usare device in modalità integrata per usi legati allo shopping.
Nei primi test i marketers hanno utilizzato il sistema di reportistica cross device per comprendere meglio il ruolo della telefonia mobile nelle loro campagne di adverstising e spiegare anche le differenze presenti negli strumenti di analytics elaborati di terze che non tengono in considerazione l’acquisto che si finalizza attraverso l’uso di più device.
Il monitoraggio è reso possibile tramite un piccolo frammento di codice chiamato “Conversion Pixel”. In pratica gli inserzionisti che vogliono vedere gli annunci a cui i consumatori sono stati esposti possono inserire questo codice all’interno di un sito o di un’applicazione. Attraverso questo strumento gli inserzionisti potranno vedere quante persone convertono la fruizione dell’annuncio nell’acquisto di un prodotto.
Facebook sostiene che il 32% dei consumatori che “hanno mostrato un interesse” negli annunci di Facebook sul cellulare acquistano qualcosa tramite la versione desktop entro 28 giorni. ”Monitorare i click e le loro conversioni effettive in acquisti ha confermato ciò che sappiamo già: gli annunci da mobile guidano il commercio in tutto il mondo” afferma Josh McFarland, CEO di TellApart, uno sviluppatore Facebook del gruppo Preferred Marketing, in un suo post sul blog.
L’industria dell’advertising ha affrontato la questione con un modello di marketing misto, che cerca di catalogare la gamma di annunci e le fonti online che un consumatore studia prima di effettuare un acquisto. Nielsen, ad esempio, attraverso il Multi-Touch Attribution tiene traccia di come i consumatori interagiscono con diverse forme di media, compresi i mobile, prima di acquistare qualcosa.
Via Tech Economy
Sono stati 28,9 milioni gli italiani dai due anni in su che si sono collegati a internet almeno una volta nel mese di aprile 2014, online in media per 37 ore e 50 minuti per persona mentre l’audience totale nel giorno medio ha raggiunto i 20,6 milioni di utenti collegati per 1 ora e 46 minuti. Sono i dati rivelati da Audiweb sull’ audience online da mobile (smartphone e tablet) e dell’audience totale di internet (total digital audience) del mese di aprile 2014.
Per quanto riguarda l’audience di internet da device mobili essa è rappresentata da 17,2 milioni di utenti nel mese (utenti unici tra i 18 e i 74 anni che accedono a internet da smartphone e tablet), con una media di 37 ore di tempo speso per persona. Nel giorno medio gli utenti mobile sono stati 14,8 milioni.
La fruizione quotidiana di internet è molto diffusa principalmente tra le fasce più giovani della popolazione, rispettivamente il 66% dei 25-34enni (4,5 milioni) e il 65% dei 18-24enni (2,8 milioni), che risultano anche i segmenti più attivi nella fruizione di internet da mobile. In particolare, i giovani tra i 18 e i 24 anni accedono a internet da device mobili per 1 ora e 54 minuti al giorno e per oltre 50 ore nel mese, mentre i 25-34enni per 1 ora e 30 minuti nel giorno medio e 39 ore e 47 minuti nel mese.
Per quanto riguarda i dati sull’uso dei differenti device utilizzati per accedere a internet, risulta che il 58% del tempo totale speso online è generato dalla fruizione di internet da mobile e, più in dettaglio, il 51,7% dalla fruizione tramite mobile applications. Per quanto riguarda, invece, la fruizione di internet da mobile, l’88,5% del tempo speso tramite questi device è generato dall’uso di mobile applications.
Tra le categorie di siti più visitate ad aprile, la fruizione da mobile rappresenta quote più elevate sul tempo speso per i siti o applicazioni legati al mondo dei cellulari (99% del tempo totale speso online su Cellular / Paging), i siti generalisti (75% su General Interest Portals & Communities), di intrattenimento di vario genere (71% su Multi-category Entertainment), siti o applicazioni utili per il lavoro e la condivisione (67% su Internet Tools / Web Services), i siti di giochi online (65% su Online Games) e i Social Network (62% su Member Communities).
Più tempo viene generato da PC nella consultazione delle email (85% del tempo speso su siti della categoria email), nella fruizione delle news online (79% su Current Event & Global News), su siti di eCommerce (65% su Classifieds/Auctions e 56% su Mass Merchandiser) e su siti specifici di intrattenimento (83% Adult, 60% su siti sportivi, 56% su siti con contenuti video).
Via Tech Economy
Anche Amazon cavalca fino in fondo il business delle stampante 3D. Oggi ha lanciato una piccola sezione all'interno del suo vasto sito di commercio online con una collezione di oggetti creati con le 3D printer. Non parliamo quindi delle macchine e degli accessori per la stampa, quelli c'erano già, ma di gioielli, decorazioni, giocattolini, ninnoli, oggettini per la casa. Tutti "ino" perché sono piccole cose. Ma possono essere personalizzate e modificate nella forma, nel colore e anche, almeno un po', nella dimensioni. Tra i partener ci sono i più grossi come Mixee, Scupteo e 3DLT. Tuttavia a differenza di servizi di questo tipo non offre la possibilità di stampare per conto terzi progetti grafici (Shapeways). In qualche modo, il gigante del commercio elettronico per ora si accontenta di offrire una serie limitata di modifiche garantendo in qualche modo il controllo qualità.
Con la presentazione della nuova sezione Amazon di fatto introduce una serie di nuovi tool per personalizzare il designer dei prodotti 3D. Ed è questa forse l'aspetto più interessante e specifico dell'opeazione che non si configura solo come l'apertura di un nuovo scaffale di prodotti. Attraverso piccole funzioni per la visualizzazione si possono, per esempio, personalizzare alcuni dettagli dell'oggetto che poi può essere stampato in metallo o plastica e in una serie di colori a scelta. Si contano per ora poche centinaia di oggetti suddivisi per categorie che vanno dai soliti pupazzetti da pochi dollari a gioielli in metallo da 60 dollari. L'iniziativa è partita un po' in sordina. Ma, i bene informati, scommettono che per Amazon possa rappresentare un pretesto per sperimentare programma di personalizzazione da applicare a tutto il commercio elettronico e non solo a quello in forte crescita dei prodotti della produzione additiva.
Via IlSole24Ore.com
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