Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
I media digitali stanno conquistando la comunicazione corporate e nei prossimi cinque anni cresceranno più di tutti gli altri canali. Lo dice un’indagine Doxa su 100 responsabili comunicazione promossa da iCorporate, società di consulenza per la comunicazione corporate e la gestione della reputazione offline ed online, che conferma la centralità del digital per costruire e difendere la reputazione aziendale e l’immagine del capo-azienda. L’interesse delle aziende per i social media, dunque, è sempre più orientata all'obbiettivo di farsi conoscere e di avviare un dialogo diretto con clienti e consumatori. Nei prossimi cinque anni, i manager e dirigenti intervistati vedono nei social network lo strumento che più di ogni altro è destinato a crescere per importanza (67%), seguito dal sito web aziendale (58%) e dai blog (48%). Per contro, ben oltre la metà (64%) pensa che l’importanza dei media tradizionali rimarrà invariata o, addirittura, diminuirà. Già oggi la totalità delle aziende intervistate dichiara di utilizzare i canali digitali per gestire la comunicazione corporate. In particolare, probabilmente per la natura fortemente relazionale di questa disciplina, lo strumento più utilizzato a tal fine è quello delle Digital Pr (72% dei casi), seguite a ruota dal sito web aziendale (69%). Ma i social media non sono da meno, con ben il 66% delle aziende che già comunica la propria dimensione istituzionale attraverso presidi attivi suFacebook (82%), Twitter (76%) e LinkedIn (62%). CORPORATE STORYTELLING. Perché le aziende vedono nei canali digitali una risorsa irrinunciabile per l’affermazione della propria reputazione? Tre le ragioni fondamentali. Innanzitutto, perché permettono di condividere più contenuti, con maggior frequenza e autonomia rispetto ai media tradizionali, più costosi e “selettivi”; in secondo luogo, per l’immediato accesso a feedback e insight provenienti dalla Rete; terzo, più in generale, per la possibilità di accrescere la visibilità complessiva dell’azienda, affiancando ai canali di comunicazione tradizionali anche quelli digitali e aumentare così la share of voice. «Lavorando ogni giorno al fianco di aziende, imprenditori e top manager, assistiamo a una progressiva presa di coscienza: la comunicazione digitale ha un potenziale immenso, ma, specialmente quando si toccano le corde della reputazione aziendale, è necessario gestirla con un approccio altamente professionale e orientato alla massima qualità», commenta Sergio Pisano, direttore generale di iCorporate. «I leader più illuminati sanno quanto sono esigenti i loro pubblici, anche sui social media, e per questo stimolano l’organizzazione per creare contenuti sempre più rilevanti e modalità di gestione delle relazioni sempre più innovative, all’interno del processo dinamico di affermazione del profilo corporate dell’azienda, on e offline». TOP EXECUTIVE IN PRIMA FILA. Il ruolo crescente della comunicazione corporate digitale è confermato anche dall’importanza che i capi-azienda vi attribuiscono: l’89% presta molta attenzione alle potenzialità offerte dalla Rete per costruire, consolidare e difendere la reputazione aziendale, e nel 59% dei casi hanno già aperto profili personali sui social media (Facebook 79%, LinkedIn 59% e Twitter 52%) per finalità puramente aziendali: ampliare il proprio network di contatti, creare opportunità di business e promuovere l’azienda in prima persona. Solo il 44% dei capi-azienda che ha aperto profili sui social media li gestisce personalmente: la maggior parte tende ad affidarsi a collaboratori fidati e specializzati,interni all’organizzazione o consulenti esterni. Francesco Foscari, Executive President di iCorporate, aggiunge: «Ricorrere a strumenti digitali per la comunicazione istituzionale non significa abbandonare la comunicazione offline. Questo i leader aziendali lo sanno bene. La sfida è riuscire a costruire un giusto mix tra canali tradizionali e digitali, adatto alle proprie specificità, individuando di volta in volta il canale più efficace per veicolare diversi contenuti. Con l’obiettivo di stabilire relazioni durature e di successo con tutti gli stakeholder e rafforzare la percezione dell’identità aziendale». Da ultimo, grazie anche all’ampia disponibilità di strumenti per l’analisi della web reputation che consentono di misurare i ritorni dell’azione con precisione e tempestività, la comunicazione corporate digitale è una modalità generalmente considerata molto efficace: innanzitutto, per influenzare i comportamenti di acquisto (secondo il 93% dei rispondenti) e per raggiungere le “online communities” (91%); inoltre, sempre di più, per ingaggiare partner di business (86%) e altri stakeholder chiave quali gruppi di opinione e di pressione (86%), autorità e istituzioni (81%), giornalisti (80%). Via Business People
Dopo molti anni di contrazione, il mercato italiano dei Media (pay e advertising) chiude il 2015 a quota 15,3 miliardi di euro, in linea con il valore 2014. Mentre la Tv chiude in pareggio e la Stampa registra un calo del 5%, gli Internet Media crescono dell’11% arrivando a valere quasi 2,3 miliardi di euro. Il 95% di questo mercato è legato alla pubblicità; la restante parte è legata all’acquisto[1] da parte degli utenti italiani di news online e di servizi in abbonamento legati a Video e musica in streaming. Nel 2016 ci si attende che gli Internet Media mantengano lo stesso andamento, con un trend di crescita analogo all’anno precedente. Questo è quanto emerge dai dati presentati dall’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano* in occasione del convegno “Internet Media: il dato è tratto”. “Il mercato pubblicitario complessivo[2] nel 2015 vale 7,4 miliardi di euro, in leggera crescita (+3%) rispetto al 2014. L’Internet advertising[3] ha raggiunto i 2,15 miliardi di euro (+11%), rafforzando così la sua posizione di secondo mezzo pubblicitario italiano con una quota del 29% (rispetto al 27% nel 2014), alle spalle della Televisione, che continua a valere il 49% (50% nel 2014) ma sempre davanti alla Stampa che scende al 17% (18% nel 2014) e alla Radio (stabile al 5%). Nel 2016 abbiamo stimato che l’Internet advertising crescerà ancora di circa l’11% avvicinandosi ai 2,4 miliardi di euro”, afferma Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. “I dati confermano un media mix diverso da quello osservato in Europa, dove la Stampa continua ad avere un ruolo ben più rilevante che in Italia, attestandosi su una quota pari al 25%, a scapito della Televisione che vale il 33% e dove Internet nel 2015 è diventato il primo mezzo in Europa (36% di quota), in particolare grazie al mercato UK nel quale l’advertising online pesa il 43% del totale mezzi[4]” è il commento di Daniele Sesini, General Manager di IAB Italia. “I due terzi del mercato dell’Internet advertising in Italia sono riconducibili ai grandi Over The Top internazionali (e in particolare a Google e Facebook) che crescono del 16% nel 2015 e del 12% nel 2016, grazie, soprattutto, ai numeri di audience raggiunti, alla semplicità nella pianificazione e all’ampia disponibilità di dati profilati. Audience, dati e tecnologia stanno, quindi, diventando i principali ambiti di competizione nel mercato pubblicitario online” aggiunge Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano. I formati pubblicitari online: la crescita è trainata dai Video La Display advertising, principalmente banner e Video, resta la componente dominante (57% nel 2015 e 59% nel 2016), raggiungendo un valore di 1,2 miliardi nel 2015 (+15% sul 2014) e di 1,4 miliardi di euro nel 2016 (+13% rispetto al 2015). Per l’acquisto di visibilità nei motori di ricerca (Search), nel 2015 sono stati spesi 702 milioni di euro, in crescita del 5% e si prevede un’ulteriore crescita del 3% nel 2016 fino a superare i 720 milioni. All’interno della Display advertising, il Video advertising stimiamo crescerà del 34% nel 2016 arrivando a quasi 490 milioni di euro, dopo aver ottenuto già nel 2015 una crescita del 25% e un valore assoluto di 364 milioni di euro. Questo valore è la somma di due componenti: da un lato, la raccolta derivante da YouTube e dai Social network, che nel 2015 vale circa i due terzi del totale Video e cresce del 40% circa; dall’altro lato, la raccolta sui siti degli editori/Media Company italiani e sui portali verticali, che vale un terzo del totale ed è complessivamente stabile in valore assoluto nel 2015. “Per la prima volta, abbiamo stimato anche il valore di mercato del Native advertising: in senso stretto, ossia considerando solo i formati cosiddetti Recommendation Widget e In-feed Unit, stiamo parlando dell’1% del totale mercato Internet advertising”, afferma Andrea Lamperti, Direttore dell’Osservatorio Internet Media. “Se consideriamo però l’accezione più ampia, includendo anche la Search, il Classified, i post sponsorizzati all’interno dei Social network e i lavori realizzati a quattro mani con l’editore (come i pubbliredazionali e gli advertorial indicati come contenuto sponsorizzato) scopriamo che il mercato del Native advertising in Italia vale già più della metà del totale (56% nel 2015)”. I device: un quarto del mercato Internet advertising è Mobile Nel 2015 l’Internet advertising su Smartphone è cresciuto del 54% arrivando a 452 milioni di euro, mentre quello legato alle App per Tablet è cresciuto del 35% arrivando a quota 84 milioni. I trend positivi sono previsti anche per il 2016: “Lo Smartphone è il device con il maggiore impatto sulla crescita complessiva del mercato: crescerà con un tasso pari al 48% nel 2016, a causa del costante e continuo spostamento dell’audience su questo canale. Arriverà così a valere quasi 670 milioni di euro[5] con un peso pari al 28% dell’Internet advertising complessivo: il 95% dei circa 230 milioni di aumento rispetto al 2015 verranno raccolti qui”, afferma Andrea Lamperti, Direttore dell’Osservatorio Internet Media. “Il Tablet (solo App) rimane marginale (5% del mercato pubblicitario online nel 2016), ma cresce del 45%. I due canali Mobile quindi passano da circa un quarto (nel 2015) ad un terzo del mercato pubblicitario online (nel 2016)”. Il Programmatic advertising varrà il 22% della Display advertising nel 2016 Il Programmatic advertising, dopo essere cresciuto nel 2015 del 113%, fino a valere 234 milioni di euro, nel 2016 stimiamo crescerà poco più del 30%, superando i 300 milioni di euro: la crescita è inferiore alle stime di fine 2015, anche perché gli investitori stanno cercando di valutare i benefici di queste piattaforme, vista l’entità non irrisoria delle fee tecnologiche e dei costi di gestione. L’incidenza sul totale Display adv inizia ad essere rilevante: 22% nel 2016. I Video crescono anche tra i contenuti pay A differenza dell’advertising, il mercato dei Media a pagamento registra un segno negativo nel 2015 (-3%), per un valore assoluto di 7,9 miliardi di euro. Inoltre, la componente derivante da Internet vale poco più dell’1% del totale, ossia 112 milioni di euro. La crescita del mercato Internet Media pay nel 2015 è del 24%. In particolare, la spesa dei consumatori (al netto IVA) per i contenuti Video online (SVOD, abbonamenti di contenuti Video On Demand) cresce del 27% e vale poco meno della metà del totale mercato Internet Media a pagamento; seguono i ricavi pay online legati alle news, che pesano poco più del 30%, ma calano del 2%. Completano il quadro i ricavi per gli abbonamenti a servizi musicali, che valgono oltre il 20% del totale e crescono dell’87%. I dati sul comportamento degli utenti Internet italiani confermano i trend in atto. “I Video si stanno affermando come formato privilegiato di consumo dei contenuti Media” afferma Guido Argieri, Telco & Media Director di Doxa. “L’80% degli utenti Internet guarda Video brevi online, soprattutto attraverso YouTube (74% degli utenti internet) e Facebook (50%) ma anche da siti e App dei quotidiani (14%). La presenza dei Video aumenta il tempo speso online: in particolare, grazie ai Video il 31% del campione passa più tempo sui siti dei quotidiani, mentre il 29% su Facebook. Online vengono visti anche film e programmi Tv dal 46% degli utenti Internet; stiamo parlando soprattutto di serie Tv, film meno recenti ma anche film appena usciti al cinema. Infine abbiamo stimato che 3,2 milioni di italiani utilizzano un servizio in abbonamento per contenuti Video online (TIMvision, Infinity, Sky Online e Netflix); tale valore include anche chi sta provando gratuitamente questi servizi”. Via Spot and Web
Il 2015 ha confermato il mobile payment come uno dei trend più importanti nei prossimi anni anche per il nostro Paese. Il mercato dei pagamenti in prossimità potrà intercettare nel 2017 tra i 3 e i 6 miliari di euro di transato e una base di utenti tra i 2,7 milioni e 4,8 milioni; numeri correlati anche alla diffusione di sistemi come Apple Pay, all’offerta commerciale delle banche e soprattutto all’arrivo di nuove startup.
L’evoluzione del mercato
Secondo il recente Global report di Worldpay i metodi di pagamento alternativi (APM) hanno toccato un traguardo storico lo scorso anno raggiungendo la quota di mercato del 51%, superando i pagamenti con carta di credito. Il boom dell’eCommerce è stato determinante nel guidare questo cambiamento: l’aumento degli acquisti in mobilità, la popolarità raggiunta dalle nuove applicazioni per i pagamenti e dalle tecnologie di prossimità (NFC) hanno reso lo smartphone molto più di un dispositivo per il semplice shopping online ma inizia ad essere considerato come la principale piattaforma per la gestione di denaro. Stiamo ufficialmente entrando nella “terza generazione” dei pagamenti con metodi alternativi per la mobilità. La prima era dei pagamenti digitali ha avuto inizio con il boom dell’e-commerce nei primi anni 2000 quando aziende come PayPal e AliPay avevano introdotto eWallet al mainstream. La seconda fase ha coinciso con l’ascesa dello smartphone all’inizio del nuovo decennio, con il crescente proliferare di nuove applicazioni mobili. Ora che gli APM hanno raggiunto la maggior parte del mercato e non vi sono segni di rallentamento di questa crescita è possibile sostenere che lo smartphone abbia contribuito a portare l’eCommerce al di fuori dei propri canali. Il recente Global Payments report ha anche stimato che l’eWallet supererà sul mercato, entro il 2019, sia le carte di credito che l’e-commerce arrivando a rappresentare il 27% del fatturato globale rispetto all’attuale 24% delle carte di credito. Ciò anche in considerazione della diminuzione delle vendite sul mercato dei personal computer a favore invece dei dispositivi connessi in mobilità quali smartphone e tablet che continueranno dunque ad erodere quote di mercato ai metodi di pagamenti più tradizionali come carte di debito, bonifici bancari e, naturalmente, contanti.
L’ascesa delle startup nel settore
Secondo una recente ricerca di Deloitte il mercato dei “servizi finanziari 2.0” crescerà talmente tanto da raggiungere 7 trilioni di dollari nel 2020. Probabilmente anche questo scenario ha influenzato molte startup come ad esempio la Venmo, la più popolare startup di p2p negli States, di proprietà di PayPal, ad esplorare l’ipotesi di sviluppare un proprio robo-advisor come fatto anche da Snapchat, per la quale già a partire dal novembre 2014 tutti gli utenti potevano utilizzare Snapcash per scambiarsi denaro tra di loro. I trasferimenti disponibili solo tra persone e non verso gli esercenti sono real-time e resi possibili dalla partnership con Square che ha fin da subito intuito le potenzialità del servizio di Snapchat. Ad oggi l’app conta 100 milioni di utenti attivi al giorno, il 60% dei quali tra i 13 e i 34 anni, proprio i più disaffezionati alle banche e a modalità di pagamento tradizionali e attratti invece da servizi finanziari innovativi fruibili attraverso gli smartphone, da cui sono oramai inseparabili. Un altro caso di questo tipo è ad esempio Satispay, l’app con cui chiunque abbia un conto corrente bancario di qualsiasi banca italiana può scambiarsi denaro con altri utenti privati e pagare per i propri acquisti nei punti vendita convenzionati facendo un “check-in” nel negozio in cui ci si trova. Ad oggi ha convenzionato più di 2 mila punti vendita e punta ad espandersi ancora in Italia ma non solo.
In casa Jusp, il mobile Pos rende facile per tutti i piccoli esercenti accettare pagamenti elettronici tramite pc, tablet e smartphone. Questa startup dei mobile Pos ha siglato anche un accordo con Fastweb che porterà il dispositivo ai clienti dell’operatore. Il servizio si chiama “Fast Pos” e promette di rendere i pagamenti con carta semplici e accessibili alle piccole e medie imprese che avranno così la possibilità di gestire in maniera digitale e in mobilità transazioni, firme e scontrini. Un’altra startup interessante è Solo, che rispetto ai mobile Pos come Jusp, Payleven o SumUp ha il vantaggio di non necessitare di un hardware dedicato. Si tratta infatti di un Pos virtuale, ovvero un link che rinvia ad una pagina personale del business o di chi riceve il pagamento e che permette a chi accede al link di pagare con carta di credito o di debito. Effettuato il pagamento arriva istantaneamente una mail di conferma di avvenuto pagamento, che è in realtà un bonifico sul conto corrente associato a quella pagina. La startup è partecipata dal venture incubator Digital Magics, e ha siglato un accordo con il Gruppo Uvet, polo distributivo leader in Italia nella fornitura per viaggi, per portare il Pos virtuale di Solo in oltre 1.300 agenzie turistiche del network. La fase di test è in corso a Milano e Bologna. Una sfida decisamente ambiziosa e stimolante considerato che alcuni big hanno iniziato ad offrire servizi similari, come ad esempio PayPal che nel 2015 ha lanciato PayPal.me, il personal link che funziona per il business (per ricevere pagamenti appunto per la vendita di beni e servizi) ma in questo caso anche per i pagamenti tra persone.
Il settore bancario
Nel corso dell’ultimo anno le banche non sono certo rimaste a guardare, sebbene abbiano assunto perlopiù una posizione difensiva inseguendo le innovazioni già presenti sul mercato. Uno dei maggiori successi del 2015 è senza dubbio Jiffy, il servizio di mobile payment inserito anche all’interno del Mediolanum Wallet di Banca Mediolanum: funziona con un meccanismo semplice molto simile all’applicazione di WhatsApp ma specifico solo per i pagamenti. Jiffy è veicolato attraverso le app di mobile banking delle banche aderenti ed ha avuto la forza di imporsi come standard di mercato nel settore bancario, sbarcando anche in Europa. Diverse le startup internazionali che si configurano come delle vere e proprie banche ma che operano solo in mobilità via smartphone:
1. Atom Bank: è una delle prime digital bank ad avere ottenuto l’autorizzazione da parte degli enti regolatori britannici usando addirittura parametri biometrici per il riconoscimento dell’utente al posto delle password. La banca spagnola BBVA ne detiene il 30% e garantisce tassi e fee più basse e servizi che aiutano a gestire soldi e risparmiare. E’ stata fondata nel 2014 da Anthony Thomson e oggi offre servizi mobile banking e conti di deposito.
2. Monese: è un servizio di digital banking che consente ai cittadini di aprire un conto corrente nel Regno Unito in pochi minuti anche se stranieri e senza cittadinanza. Il target della startup fintech sono proprio gli immigrati ed offre loro la possibilità di aprire un conto e ottenere una carta di debito Visa in pochissimo tempo con un semplice selfie e una foto del passaporto. E’ stata fondata nel 2013 da Norris Koppel ed oggi offre ritiro contanti, pagamento con carta, conto corrente, trasferimento internazionale di denaro.
3. Osper: è una carta di debito prepagata e un servizio di mobile banking dedicato soprattutto ai giovani che vogliono gestire soldi con più responsabilità. Esiste anche un’app con login separate per i ragazzi e i loro genitori. E’ stata fondata nel 2012 da Alick Varma ed offre i servizi di carta di debito prepagata, app che offre consigli su come spendere e gestire al meglio i propri soldi.
4. Mondo: è un’app che offre servizi bancari a costi più bassi rispetto a quelli tradizionali. Gli utenti possono accedere all’app tramite iPhone e ottengono una carta di debito prepagata Master Card. Possono caricare soldi nella carta e fare transazioni nei negozi e ritirare soldi al bancomat. Ricevono inoltre notifiche in tempo reale sulle loro spese. Fondata nel 2015 da Gary Dolman, Paul Rippon, Jonas Huckestein, Tom Blomfield, Jason Bates offre applicazioni per servizi bancari digitali.
5. Starling: fondata nel 2014 da Anne Boden, ex COO della Allied Irish Bank, come le altre banche digitali punta su servizi più economici e sulla tecnologia e fornisce informazioni e aggiornamenti in tempo reale.
6. Tandem: è una banca digitale fondata nel 2013 da Matt Cooper e Ricky Knox. A dicembre 2015 ha ottenuto una licenza dalla Banca d’Inghilterra. Qualche settimana fa ha avviato una campagna di equity crowdfunding con una raccolta record nei primi giorni di 1 milione in appena 15 minuti.
7. Simple: è un’app creata nel 2009 da Shamir Karkal, Alex Payne, Joshua Reich che aiuta i consumatori a spendere in modo più saggio e a risparmiare. La startup oggi offre un conto bancario e gli strumenti per gestire i soldi che sono accessibili via app e web. Acquistata dal gruppo bancario BBVA nel 2014, oggi serve più di 100mila consumatori e ha gestito più di 1,7 miliardi di transazioni.
8. Moven è un servizio che offre un’app, una carta di debito, il contactless payment, e consigli in tempo reale su come prendere decisioni finanziare più sagge e risparmiare di più, con aggiornamenti sulle spese e le transazioni effettuate. E’ stata fondata nel 2011 da Brett King, Alex Sion, Richard Nearn.
9. BankMobile: è la prima banca che offre conti di deposito senza fee, e accesso a più di 55mila ATM, anche questi senza alcuna soprattassa. La tecnologia messa a disposizione permette di avere tutta “una banca in una tasca”. Fondata nel 2015 da Jay Sidhu, Luvleen Sidhu offre pagamenti peer-to-peer, conti di deposito senza fee e tutti i principali servizi bancari trasferiti sull’online.
10. Digibank by DBS: è un’intera banca “trasferita” all’interno del mobile, fondata nel 2016. È l’unica banca indiana che consente ai clienti di aprire un conto senza firmare alcun documento. Gli utenti possono iniziare con un e-wallet che possono trasformare poi in un vero e proprio conto bancario.
Via Tech Economy
Creare un ambiente di lavoro ottimale – in grado di favorire la crescita professionale e umana delle persone – non fa solo bene ai dipendenti, ma anche all’azienda in termini di fatturato e di capitalizzazione di Borsa. È il risultato di una ricerca Top Employers-Hrci che, svolta per cinque anni (2011-2015) monitorando i principali indici di Borsa internazionali, documenta un sensibile incremento di valore dei titoli azionari e del fatturato delle aziende che investono in ambito HR. L’analisi ha messo a confronto 289 società internazionali quotate in Borsa e certificate Top Employer-Hrci con aziende analoghe, ma non certificate. I dati dimostrano come le aziende certificate ottengano performance sensibilmente migliori rispetto agli indici di Borsa e all’andamento medio di mercato delle aziende non certificate. In particolare, emerge non solo il dato dell’aumento di valore del singolo titolo azionario delle aziende certificate (+57,5% in cinque anni), ma ancora di più la performance del +51,2% (+8,6% annuo) rispetto alla media degli indici di Borsa. L’incremento del fatturato rispetto ad aziende analoghe non certificate è invece del 14,1% in cinque anni (+2,8% l’anno). “Attenzione”, precisa David Plink, Ceo di Top Employers Institute, “non stiamo dicendo che esista un rapporto diretto tra Best Practice in ambito HR e incremento del valore azionario o fatturato aziendale, ma che una gestione coinvolgente, motivata e diffusa della politica HR e una profonda attenzione al valore del capitale umano può contribuire positivamente ai risultati aziendali. Un ambiente di lavoro ottimale e una politica mirata alla crescita umana e professionale delle persone si traduce, in ultima analisi, in benessere diffuso e quindi anche in una proficua crescita aziendale”. Via Business People
In uno scenario in cui sempre più si parla di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, che da una parte si trova ad affrontare le nuove esigenze del cittadino e dall’altra le nuove direttive a cui deve adeguarsi, come questa può sfruttare al meglio i social network? E in che modo e con quali strumenti si può migliorare il rapporto con i cittadini e il livello dei servizi offerti? L’investimento in attività social da parte della PA è in crescita sì, ma lentamente. Ad esempio la presenza social dei comuni italiani secondo l’Anci (Associazione Comuni Italiani) è ancora molto bassa: solamente il 6% circa degli oltre 8mila Comuni italiani possiede un account sui principali social network. Se guardiamo, invece, alle Regioni – secondo i risultati un progetto di ricerca presentato dalla giurista Morena Ragone nel corso del convegno su social network e sentiment analisys che si è tenuto nei giorni scorsi a ForumPA – emerge che la maggioranza di queste possiede sia un account Twitter che Facebook. I motivi che portano la PA ad investire sui social media sono principalmente due: il primo, invariato rispetto al passato, per avvicinarsi e raggiungere il cittadino che è diventato sempre più esigente ma al contempo anche più aperto alla collaborazione ed al dialogo; il secondo, invece, riguarda le tendenze crescenti in merito all’uso e al tempo mediamente speso dagli utenti sui social, come dimostrato dal rapporto We are social “Digital in 2016”. Le PA sempre più adottano una strategia Citizen-Centric, mediante la quale si impegnano a favorire maggiore trasparenza e facile accesso ai servizi pubblici secondo le esigenze del cittadino, malgrado questo richieda un maggiore sforzo in termini economici e organizzativi che nel lungo periodo si traducono in benefici per la collettività. I 4 temi fondamentali di tale strategia sono: Comunicazione Gli account istituzionali sui social network spesso assumono il ruolo di un vero e proprio “sportello di informazione”, una sorta di prolungamento dell’ufficio URP: secondo l’indagine condotta da Anci il social network maggiormente impiegato è Twitter, attraverso il quale i Comuni svolgono attività informativa, come la promozione della cultura del turismo e news del territorio, ma non si aprono molto al confronto con i cittadini. Un vero peccato, se si considera la possibilità di dar vita, proprio attraverso i social, a nuove community pronte ad accogliere discussioni democratiche sulle tematiche riguardanti il territorio. Ascolto La PA interessata all’ascolto del cittadino può investire nella sentiment analysis di quanto discusso online, uno strumento utile a studiare la soddisfazione del cittadino e valutare la qualità della comunicazione online. Nello studio presentato da Morena Ragone, ad esempio, si sono evidenziate, tramite strumenti di sentiment analysis applicati a Twitter, le “polarità” delle discussioni classificandole come con accezione negativa, positiva oppure neutra. Dai risultati emerge che nella quasi totalità dei casi la polarità dei tweet pubblicati dalle Regioni è relativamente neutra e questo è probabilmente dovuto alla difficoltà comunicativa e semantica legata ai restrittivi 140 caratteri che Twitter permette di pubblicare e che dovrebbe far riflettere sulla necessità di adottare nuovi linguaggi che meglio si adattino alle caratteristiche del canale di comunicazione adottato. Social Media Policy La Social Media Policy è quel documento in cui vengono definite le norme di comportamento e i regolamenti in merito all’uso dei social media, rivolte sia ai dipendenti di un’organizzazione che ai suoi utenti con cui questa entra in contatto attraverso i canali di comunicazione istituzionale online. Dai dati presentati durante il convegno di ForumPA emerge che non tutte le PA dispongono di una social media policy: delle 13 Regioni che hanno risposto all’intervista effettuata solo 3 posseggono policy interne. Questo fenomeno comporta un generale disorientamento e disorganizzazione dei dipendenti non istruiti all’uso delle utenze istituzionali social. “La social media policy – afferma Marco Laudonio, che cura la strategia digitale del MEF ed è componente del gruppo di supporto al Responsabile Anticorruzione e Trasparenza dello stesso Ministero – è la carta di identità della pubblica amministrazione. Nel lavoro che abbiamo realizzato per il MEF, ad esempio, abbiamo aggiunto anche una sezione su cosa non postiamo proprio come forma di autodisciplina oltre che di assoluta trasparenza”. Servizi Attraverso i social network site si può dar vita a nuovi canali di erogazione dei servizi pubblici al cittadino, come ha affermato durante il convegno Giacomo Angeloni, Consigliere del Comune di Bergamo che ha sottolineato come sia possibile, attraverso i social, creare nuove occasioni di fruizione dei servizi offerti. La PA infatti grazie ai social network può offrire servizi di assistenza al cittadino attraverso la messaggistica in real time, la divulgazione di informazioni di pubblica utilità e la promozione di eventi sul territorio e di nuovi servizi erogati online come quello dei pagamenti elettronici, che in molti casi riducono le lunghe tempistiche amministrative migliorandone l’efficienza. Infine in un’ottica di autodisciplina la PA può diffondere questionari volti a raccogliere le opinioni e le valutazioni dei cittadini in merito ai servizi offerti, sia online che presso i diversi sportelli fisici dislocati sul territorio. Tutto ciò con l’obiettivo di cimentare un rapporto di collaborazione e fiducia reciproca tra cittadino e pubblica amministrazione. Case history interessante quella del Comune di Modena, che ha usato i social per “ascoltare”, ovvero diffondere questionari e sondaggi, ma soprattutto per creare community di cittadini modenesi che potessero supportare i processi decisionali dell’Amministrazione. Questo è stato possibile grazie allo sviluppo di una piattaforma di ascolto dal nome “Che ne pensi?”, che si propone di raccogliere le opinioni riguardo le grandi scelte strategiche della Pubblica amministrazione. Quale il freno al cogliere le Social Opportunità da parte della PA? Il limite vero sembra legato ad una scarsa consapevolezza di cittadini e dipendenti delle pubbliche amministrazioni rispetto agli strumenti digitali che riconduce tutto quindi a una questione culturale. Ma come si può dar vita a un nuovo fenomeno culturale volto all’innovazione? La risposta a questa domanda forse dovrebbe essere aggiunta nell’aggiornamento del Vademecum Pubblica Amministrazione e social media, purtroppo fermo al 2011, ma che potrebbe costituire un valido strumento di supporto per le PA. “I social media – afferma Stefano Epifani, direttore di Tech Economy – sono strumenti di contatto fondamentali tra PA e cittadini. Non solo perché rappresentano ormai un canale largamente utilizzato dalle persone, ma soprattutto perchè determinano un nuovo modello di interazione, più orizzontale e partecipativo, che la PA non può non prendere in considerazione. Certo è che il cambiamento è forte, e per portarlo avanti serve prima di tutto una vera e propria rivoluzione culturale. Molto è cambiato da quanto – anni fa – scrivemmo le linee guida per i social media nella PA, ma ancora oggi la necessità di comprendere come l’ecosistema della comunicazione sia cambiato è prioritaria, se la PA vuole davvero avvicinarsi ai cittadini”. Via Tech Economy
Siamo nel pieno dell’era del mobile e a dimostrarlo si aggiunge un dato importante: il metodo più utilizzato per fare ricerca su determinati prodotti prima di effettuare un acquisto è la navigazione da mobile, con il 52,8% dei consumatori che si collega a un browser dal proprio device mobile; di questi quasi il 20% ricerca direttamente entrando in un’app. In confronto, a collegarsi da desktop o laptop è il 48,3% degli utenti, mentre solo un 27,5% si reca direttamente in negozio per ricercare il prodotto che vuole acquistare. A riferirlo è l’ultimo report di SessionM, che aggiunge inoltre come un 63% di chi si informa su smartphone nell’ultimo mese ha fatto almeno un acquisto in questa modalità. Tra questi, il 33% ha fatto da un minimo di un acquisto a un massimo di tre, mentre un buon 30% ne ha fatti anche più di quattro. “La grande novità di questi tempi è la supremazia del mobile”, come precisa Patrick Reynolds, vice presidente marketing di SessionM. “La crescita del rapporto diretto tra brand e cliente tramite dispositivo mobile è mozzafiato, tanto che il 10% dei nostri intervistati (5300 persone) ha affermato di avere più di 10 branded app”, conclude Reynolds. La forza delle push notification La ricerca ha inoltre messo in evidenza come ci sia una fetta crescente di utenti interessata alle push notification da parte dei brand, con una buona metà che invece ha affermato la volontà di ricevere messaggi dai propri brand preferiti. Varia però la frequenza attraverso la quale gli utenti possono tollerare le push notification: il 34,1% è disposto a ricevere un messaggio al mese o meno, mentre solo il 13,8% vorrebbe riceverne di più, circa uno a settimana. Questo metodo si sta dimostrando efficace nei processi di vendita: il 30% di coloro che hanno effettuato acquisti da mobile nell’ultimo trimestre sono stati “invogliati” da una notifica inviatagli dai brand. Messaggi personalizzati I consumatori vanno sempre più alla ricerca di messaggi personalizzati, tanto che SessionM ha scoperto che oltre il 17% degli utenti è disposto ad aprire un messaggio pubblicitario nel caso in cui ritenga il contenuto rilevante ai fini di una ricerca per l’acquisto di un prodotto; un 12,2%, invece, è disposto a farlo quando la comunicazione arriva da una company in cui il consumer si riconosce. Via DailyOnline
Andamento positivo per gli investimenti pubblicitari: stando ai dati Nielsen, nel primo trimestre 2016, la raccolta cresce del +2,3%, ossia di oltre 35 milioni di euro. Se, però, si considera anche la stima della raccolta sulla porzione di Web attualmente non monitorata (principalmente search e social), la percentuale passa dal +2,3 al +3,8%. “La pubblicità cresce del 3,8%: tre volte il Pil, a dimostrazione della fiducia che le aziende nutrono verso il Paese”, commenta il presidente di Utenti pubblicità associati (Upa) Lorenzo Sassoli de Bianchi. “Upa conferma la previsione di chiusura a fine anno al di sopra del 3%”. Soddisfatto anche Alberto Dal Sasso, Tam e Ais Managing Director di Nielsen: “L’andamento della pubblicità è più positivo del trend macroecomico del Paese. Sulla base delle stime flash Istat sul primo trimestre recentemente diffuse, infatti, la nostra economia ha beneficiato di una crescita dello 0,3%, un incremento flebile ma continuo e, soprattutto, trainato dalla domanda interna, cioè la componente che più interessa a quelle aziende che investono in comunicazione per sostenere i consumi”. BENE LA TV, MALE LA STAMPA. Più nel dettaglio, a marzo 2016 cresce la Tv, che segna un +3,1%. Se si considera l‘intero trimestre la percentuale sale al +5,7%. Quanto alla radio, il +1,6% registrato a marzo permette al comparto di chiudere il trimestre a +1,7%. Male invece i quotidiani: a marzo la raccolta cala -9,6% e così il periodo gennaio/marzo si consolida a -4,4%. Non va meglio ai periodici: -4,3% a marzo e -4,5% sul trimestre. Discorso a parte invece per internet: il calo registrato a marzo (-1,5%) non incide sul trimestre che segna un incremento del +0,8%. Se si integra il dato con le stime desk di Nielsen sull’intero mondo del Web advertising (aggiungendo principalmente search e social), il trimestre chiude a +7,8% (marzo a +9,2%). I SETTORI MERCEOLOGICI. Quanto invece ai settori merceologici, ben 16 registrano un segno più. Tra questi, spiccano gli elettrodomestici (+25,3%) e il cambio di passo delle telecomunicazioni e distribuzioni. Questi ultimi due settori tornano a crescere registrando rispettivamente +33,5% e +25,5%. Male invece la finanza che scende del -22,2%. Via Business People
Scoppia la passione per il dipendente testimonial. Un tempo le imprese puntavano solo su star, grandi attori e volti noti dello show business per promuovere il proprio marchio e i propri prodotti. Poi è arrivata la moda dell’imprenditore testimonial: da Giovanni Rana a Ennio Doris fino alla «parola di Francesco Amadori», ultimo approdo del modello dell’industriale “ faccio tutto io”. Ora tante grandi imprese italiane sembrano essersi innamorate di un nuovo filone creativo, che mette al centro, appunto, i lavoratori e i collaboratori dell’azienda, eleggendoli quali nuovi ambasciatori del brand. Decathlon ha dato il via a fine del 2015 alla campagna “Lofaccioperché”, in cui a rivestire il ruolo di testimonial sono 29 dipendenti provenienti da 20 diverse sedi della catena, selezionati in quanto esperti e appassionati di quelle discipline sportive che si ritrovano all’interno dei reparti di abbigliamento e attrezzature dell’insegna. Ma non mancano i precedenti illustri. Qualche anno fa Gabriele Salvatores aveva girato per McDonald’s uno spot incentrato proprio sul lavoro: per la sua realizzazione erano stati selezionati i dipendenti della catena con un casting realizzato all’interno dei ristoranti. Poltronesofà ha lanciato la campagna “Artigiano di qualità”, in cui i fornitori dell’azienda hanno preso il posto di Sabrina Ferilli. La scelta di accostare un personaggio popolare ai propri dipendenti è stata presa anche dal marketing di Intesa Sanpaolo: nella campagna “Le Storie Impossibili”, Claudio Bisio dialoga e scherza con i dipendenti della banca e più di recente con i clienti (imprenditori). Altre aziende, come Barilla e Conad, hanno invece puntato sì sulla figura del dipendente, facendola però interpretare da attori noti al grande pubblico. PARLARE ALL’INTERNO «L’evoluzione della creatività pubblicitaria rappresenta come sempre lo specchio di quello che sta accadendo all’interno delle aziende», commenta Maria Carmela Ostillio, professoressa di Marketing della Sda Bocconi. «Le imprese, soprattutto le multinazionali, sono sempre più impegnate a fidelizzare dipendenti e collaboratori, a porsi sul mercato come l’azienda migliore dove andare a lavorare». Le risorse umane sono non a caso sempre più attente al cosiddetto employer branding, ovvero alla reputazione che una società si è guadagnata agli occhi dell’opinione pubblica come datore di lavoro. «Attrarre i talenti presenti sul mercato, e non farseli rubare una volta che si è conquistata la loro fiducia e li si è fatti crescere al proprio interno, è un tema oggi che l’impresa non può ignorare». Puntare sul dipendente-testimonial può rappresentare così l’arma giusta per aumentare la credibilità dell’azienda e rafforzarne così l’identità. «Se quello che si comunica corrisponde alla realtà, l’artigiano o l’impiegato della banca possono invogliare in uno spot i telespettatori ad aspirare a essere come loro, a far parte di quel mondo che funziona così bene. E, dunque, a credere in quel marchio». «In ambito creativo, come spesso capita, quando si dà il la a un filone, in tanti poi finiscono per imitarlo», commenta invece Renato Fiocca, professore ordinario di Marketing della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, nonché direttore di Centrimark, Centro di ricerche di marketing. «A mio giudizio, quelle aziende che decidono di affidare le sorti della propria comunicazione ai dipendenti, lo fanno soprattutto perché incuriosite da una moda piuttosto che per ragioni strategiche ben definite. Forse questa scelta può rappresentare un buon metodo per coniugare l’esigenza di comunicazione interna alla necessità dell’impresa di promuoversi all’esterno. PORTARE VALORE Secondo Stefano Rosselli, direttore creativo esecutivo di Leagas Delaney e art director della campagna Poltronesofà, oggi le aziende tendono invece a porsi nei confronti dei consumatori in modo più sincero e autentico. «Internet ha di certo influito molto su questo tipo di approccio. Penso soprattutto alla natura “one-to-one” dei social media. Puntare sul dipendente testimonial è un’ottima scelta per portare valore all’azienda, un modo di raccontarsi e di creare vicinanza, anche ideologica, tra le persone che stanno parlando e quelle che ascoltano». Poltronesofà, nel momento in cui ha deciso di cambiare la sua strategia di comunicazione, ha puntato proprio su quegli elementi valoriali sino ad allora non presi in considerazione nelle sue campagne. «Il vecchio format aveva il grosso limite di non lavorare in termini qualitativi per l’azienda, ma solo promozionali», aggiunge Marco d’Alfonso, direttore creativo associato e copy di Leagas Delaney, raccontando la strategia messa in atto dall’agenzia per la realizzazione della campagna pubblicitaria dell’azienda lombarda. «Quando li abbiamo conosciuti, e abbiamo incontrato le persone, gli artigiani che ci lavorano, ci siamo subito innamorati della passione che hanno per il loro lavoro, e abbiamo capito che quello era l’aspetto su cui puntare. Quello che più di ogni altro poteva aggiungere valore alla filosofia aziendale. Poltronesofà è un chiaro esempio di made in Italy di cui siamo noi stessi orgogliosi». Questo nuovo filone creativo, come spesso accade, non è un fenomeno solo italiano. «La differenza però la fanno sempre la schiettezza, la naturalezza e la sincerità con le quali si racconta un’azienda. Ci sono celebri campagne statunitensi che hanno sfruttato un approccio simile, forse non riuscendo a emanciparsi da una sorta di orgoglio propagandistico e da un senso di appartenenza che spesso è poco credibile», aggiunge Stefano Rosselli. Il nuovo filone ha trovato linfa anche nell’affermazione del digital e in una comunicazione sempre più bidirezionale. NUOVA INTERATTIVITÀ Nel 2014 McDonald’s Canada ha lanciato l’operazione “Our Food. Your Questions” e ha invitato i consumatori a pubblicare sui social domande sulla catena, sugli ingredienti e sulla provenienza dei piatti dei suoi menù. A rispondere sono stati propri i lavoratori in una serie di video poi pubblicati su un sito dedicato. Alla luce del successo ottenuto in rete, alcuni filmati sono stati quindi utilizzati dalla catena per la sua comunicazione consumer. Ci sono poi campagne dove a interpretare il lavoratore è un personaggio famoso, come Antonio Banderas nelle vesti di mugnaio per Mulino Bianco o come, dall’estate del 2015, Pierfrancesco Favino nei panni di Marcello, l’autista del camion incaricato di consegnare la pasta Barilla (il format si chiama “In viaggio verso di voi”, l’agenzia è Jwt e la regia è di Gabriele Salvatores). «Chi lavora da Giovanni Rana ha la stessa passione del Signor Giovanni», recita il claim di una delle ultime campagne del celebre pastificio veneto. In scena i veri dipendenti, insieme a colleghi, parenti e amici, raccontano se stessi, la loro vita e il luogo di lavoro. La campagna Rana è quella che meglio mette in scena l’evoluzione della creatività pubblicitaria italiana degli ultimi anni: l’imprenditore testimonial, tra i nostri industriali più popolari proprio per le sue apparizioni negli spot, si fa da parte e, pur non abbandonando il set, lascia al centro della campagna i dipendenti, quasi a voler rappresentare il passaggio del testimone da un’era a un’altra. CAMBIO DELLA GUARDIA «Negli spot del passato era Giovanni Rana ad andare a casa dei consumatori, a sincerarsi della bontà del suo prodotto. Ora è il Pastificio a fare il padrone di casa, a ricambiare la visita e a ospitare nella sua sede i consumatori. Chi meglio, dunque, di chi tutti i giorni contribuisce con il proprio lavoro al successo dell’azienda può fare gli onori di casa?», spiega Francesco Bozza, Executive Creative Director di Leo Burnett Italia, l’agenzia che ha ideato il format dopo essersi imposta nella gara indetta dall’azienda. L’idea è appunto di raccontare la passione, la competenza e la continua ricerca dell’eccellenza che c’è dietro a ogni singolo tortellino Rana attraverso la voce di chi quei prodotti li produce ogni giorno. La campagna nasce dunque per rispondere alla necessità dell’azienda di evolvere la sua comunicazione pur mantenendo un legame con il precedente format. «L’obiettivo è raccontare anche lo spirito di apertura verso l’esterno e la politica di attenzione ai propri dipendenti, così come d’altronde al territorio, che da sempre caratterizza Rana». Il format può funzionare, sottolinea il creativo pubblicitario, «solo se racconta una storia vera, descrive una realtà che esiste». L’imprenditore testimonial, a ogni modo, lascia la scena con fatica. Francesco Amadori da quest’anno non compare più fisicamente negli spot dell’azienda. ma la sua presenza continua a farsi sentire grazie al celebre e confermato claim «Parola di Francesco Amadori», non più recitato però dal patron. Secondo un’indagine di marketing promossa lo scorso anno da Found!, condotta su 100 esperti di pubblicità e comunicazione italiani e internazionali, proprio l’impiego di titolari d’azienda come testimonial può risultare vincente perché si tratta di uomini di carriera, dal grande carisma. Secondo gli addetti a lavori, gli imprenditori sono i testimonial ideali per raggiungere gli obiettivi prefissati perché attingono a un universo ideologico largamente condiviso, quello del mondo del lavoro, e perché sanno trasmettere maggiore fiducia mettendosi in gioco in prima persona per presentare il frutto delle loro fatiche. Verrebbe da aggiungere che, oggi, gli interpreti di questi valori, o almeno di una parte di essi, stanno diventando sempre di più i lavoratori. Il solo imprenditore non è più sufficiente. Via Business People
Il mercato delle app regge (e anche bene) l’urto della crisi economica. Stando infatti all’analisi di Idc, nel 2015 gli utenti hanno scaricato 156 miliardi di applicazioni che, a loro volta, hanno generato ricavi per 34 miliardi di dollari. Proventi dalle inserzioni pubblicitarie escluse. Il settore gode dunque di buona salute, soprattutto se si considera il contesto di sofferenza: le vendite degli smartphone sono calate così come i download. Quanto al futuro, la stima di Idc è di 210 miliardi di download nel 2020, per un giro di affari pari a 57 miliardi di dollari. RALLENTA LA CRESCITA. L’unico segnale di sofferenza lo si trova nel ritmo della crescita del comparto: per le installazioni non si parla più di una crescita annua a doppia cifra. La stima è del +6,3% annuo da qui al 2020. Allo stesso modo rallenta anche il ritmo dei ricavi diretti, che cresceranno del +10,6% annuo. In particolare, quello che determinerà in futuro la riuscita delle app sarà la loro efficienza: secondo Idc, nei prossimi anni il 47% degli utenti concederà soltanto tre secondi al download di una app. Superato questo range temporale, l’utente chiuderà l’applicazione per procedere nella navigazione o cercare altro. Inoltre il 32% non tornerà più su una app che non funziona al primo utilizzo. LE INSERZIONI PUBBLICITARIE. Per quanto riguarda invece le inserzioni pubblicitarie, i due investitori principali sono il social network Facebook e il motore di ricerca Google, come conferma John Jackson, research VP di Idc: «Facebook e Google continuano a dominare il mercato della pubblicità mobile grazie agli effetti di scala dei loro network. La mossa di Facebook di incorporare news e altri interessi nella sua gamma di attività probabilmente sposterà il traffico e i volumi installati da altre app». Via Business People
Il posto giusto dove conquistare nuovi clienti è la Rete: i consumatori di tutto il mondo, infatti, sono sempre più connessi. A dimostrarlo è lo studio Connected Consumer Index, promosso da Gfk, che ha stilato la classifica degli utenti più connessi: se il commercio naviga in Rete, conoscere le preferenze dei propri utenti può rappresentare una via preziosa per individuare nuovi business e trovare il modo giusto per promuovere quelli esistenti. LA CLASSIFICA. L’indice mette in evidenza il numero di connessi, in termini assoluti e secondo i dispositivi più diffusi (non solo computer e smartphone, ma anche consolle e Smart TV, passando per le case intelligenti e le auto connesse). I paesi coinvolti sono 78, distribuiti in 8 regioni; a vincere è stato Hong Kong, seguito dal Nord America e dagli Emirati Arabi; se le prime due posizioni non destano particolare sorpresa, è da rilevare la “scalata” degli Emirati, che dall’ottavo posto del 2015 balzano al terzo. L’Italia si colloca al 19° posto in classifica, perdendo una posizione rispetto all’anno precedente: i dati raccolti da Gfk sanciscono la predilezione degli italiani per gli smartphone, che restano i dispositivi più utilizzati per navigare in Rete, anche se si nota una crescita nell’utilizzo degli ultimi ritrovati tecnologici, primi fra tutti i gadget indossabili. CONSUMATORI IN RETE. Secondo Kevin Walsh, direttore del settore Trends & Forecasting di GfK, l’indagine dimostra come Internet stia assumendo un ruolo sempre più importante nella vita dei consumatori di tutto il mondo: si nota un aumento della connettività generalizzato, che coinvolge in particolare il Medio Oriente, l’Africa e l’Asia Pacifica, dove si registrano i picchi di crescita più significativi. Merito senza dubbio degli smartphone, primo e principale strumento utilizzato dai consumatori, attirati dal basso costo di questo tipo di dispositivo e alla facilità d’uso; un trend, questo, che è destinato a dominare nei prossimi anni. I mercati più sviluppati (europeo e nordamericano in primis), invece, hanno dimostrato maggiore attenzione verso i device più innovativi, come le auto connesse e la tecnologia wearable; lenta ma costante la crescita registrata nell’ambito delle smart home. Via Business People
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