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\\ : Storico : Marketing (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Max Da Via' (del 01/04/2019 @ 13:24:22, in Marketing, linkato 2291 volte)


uso degli influencer per le attività di marketing sta crescendo enormemente, ma non sempre esse vengono dichiarate esplicitamente nei post. In Buzzoole abbiamo svolto una ricerca per capire quanto sono stati usati nel 2018 gli hashtag della trasparenza, consigliati dalla Digital Chart dello IAP.

Analizzando le conversazioni in lingua inglese su Instagram contenenti il solo hashtag #AD si scopre che sono state oltre 2,6 milioni, provenienti da oltre 364.000 account, per un totale di 2,9 miliardi di interazioni

post influencer marketing 2018

Invece i post in lingua italiana contenenti gli hashtag della trasparenza (#Ad, #Adv, #sponsorizzato, #sponsored, #inserzioneapagamento, #prodottofornitoda, #pubblicità, #advertising) nel 2018 sono stati 190.000 (+235% da gennaio a dicembre), prodotti da circa 42.000 account e con oltre 200 milioni di interazioni. Il 66% dei post proviene da Instagram, il 27% da Twitter e il 7% da Facebook (un dato sottostimato dato che il social network non permette di effettuare rilevazioni puntuali, per motivi di privacy).

Il dato impressionante è che circa il 99% delle interazioni si è sviluppato su Instagram. Segno che questa piattaforma è divenuto il luogo più attraente per compiere attività di Influencer Marketing.

hashtag ad per fonte

L’industria più attenta alla trasparenza è quella del fashion (abbigliamento e calzature, anche sportive) con il 29% dei post, segue il beauty (cosmetica e profumi) con il 20,8%, gli accessori (borse, gioielli) con il 13,4% e il food/drink con il 13,2%.

influencer marketing settori trasparenti 2018

Insomma si intravedono segnali di miglioramento anche se il lavoro da fare è ancora molto.

Impossibile disegnare precisamente il peso delle azioni sommerse, ma ci sono ancora tante aziende ed influencer che preferiscono nascondere queste attività di marketing pensando che in questo modo il messaggio risulti più genuino. 
Io credo, invece, che la credibilità e l’efficacia di questa leva passi dalla costruzione di un rapporto trasparente con i propri pubblici.

Via Vincos blog
 

I principali obiettivi che guidano l’articolazione di una strategia di omnichannel customer experience per le aziende italiane sono ad oggi ancora principalmente di breve periodo e legati al miglioramento della customer acquisition e/o all’incremento delle vendite, entrambi segnalati dal 33% delle aziende analizzate, oltre che il miglioramento dell’engagement (per il 27% del campione).

Sono solo un terzo quelle che oggi personalizzano i contenuti in funzione dello specifico individuo, mentre circa il 44% dichiara di non farlo e il restante 23% del campione sta attualmente lavorando per favorire queste logiche di personalizzazione.

Le strategie di omnicanalità richiedono il coinvolgimento di più funzioni aziendali, ma solo in una realtà su cinque vi è un elevato grado di commitment e sintonia tra tutte.

Queste sono solo alcune delle evidenze emerse dalla seconda edizione dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience, promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano.

La ricerca si è basata su oltre 100 interviste lato domanda e offerta, una survey condotta su un campione di grandi e medio-grandi aziende italiane appartenenti ai principali settori e tre momenti plenari di confronto e discussione che hanno coinvolto complessivamente oltre 150 aziende della domanda.

Consumatori: cambiamenti in atto

A spingere le aziende verso l’adozione di strategie di omnichannel customer experience sono i cambiamenti in atto nei comportamenti dei consumatori nel processo d’acquisto.

Nel 2018, gli individui che più marcatamente hanno messo in atto tali trasformazioni hanno raggiunto quota 35,5 milioni – in forte aumento (+3,8 milioni vs. 2017) per la prima volta dal 2012 – a dimostrazione del fatto che l’utilizzo di più punti di contatto digitali nel processo di relazione con l’azienda è in continua crescita.

Inoltre, è in corso una progressiva convergenza del ruolo degli spazi di comunicazione e di vendita: si riduce sempre più il gap tra il fenomeno dello showrooming (ricerca di informazioni in punto vendita e acquisto online) e dell’infocommerce (ricerca di informazioni online e acquisto in punto vendita), e tra gli eShopper si diffondono percorsi di acquisto che vedono un impiego sinergico, integrato e ibrido di touchpoint online e offline, utilizzati nella ricerca di informazioni e nel momento dell’acquisto.

«Alla luce di tali evoluzioni nei comportamenti dei consumatori, risulta necessario per le imprese saper progettare e veicolare le proprie strategie di relazione, cogliendo non solo la parte razionale, ma anche quella istintiva ed emotiva dei propri clienti», afferma Giuliano Noci, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience. «Questo si traduce nella capacità di saper disegnare journey sempre più personalizzati e progettare experience di marca che siano integrate sui diversi touchpoint, sia fisici sia digitali. Purtroppo i dati dimostrano come le realtà aziendali che hanno dedicato un significativo effort sia allo sviluppo della dimensione strategico-organizzativa, sia di quella legata a dati e tecnologie rappresentino solo il 5% del totale».

Strategia e organizzazione aziendale in ottica omnichannel

L’organizzazione aziendale rimane un grosso freno al pieno sviluppo di strategie omnicanale. Solo nel 20% delle realtà considerate tutte le business unit interessate hanno un elevato grado di commitment.

image: https://www.engage.it/wp-content/uploads/2018/11/Strategia-vision-omnichannel-Polimi.jpg

Strategia-vision-omnichannel-Polimi

Nella maggior parte dei casi, le aziende dichiarano un disallineamento nel commitment delle diverse funzioni coinvolte (77%), dovuto a due ragioni differenti: per il 56% sussiste una diversa percezione dei benefici e per il 21% dei casi un disallineamento negli obiettivi specifici di ciascuna funzione.

«Il raggiungimento di un’integrazione sinergica dei diversi punti di contatto attivati dipende strettamente dalla struttura organizzativa dell’azienda. Inoltre, più l’organizzazione è priva di silos organizzativi e profondamente integrata, più l’impresa sarà in grado di cogliere in modo tempestivo le esigenze del cliente, condividere tali informazioni internamente e introdurre le opportune azioni di risposta in tempo reale», dichiara Nicola Spiller, Direttore dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience.

«Analizzando la situazione italiana emerge che solo per l’8% delle aziende tutte le figure dell’organizzazione partecipano alla gestione dell’omnichannel customer experience, che è nativa e pervasiva all’interno dell’azienda. Nella maggior parte dei casi (44%) esistono figure coinvolte occasionalmente o al bisogno nella gestione dell’omnichannel customer experience, senza una formalizzazione del loro specifico ruolo e per il 41% sono presenti figure coinvolte in modo continuativo e con ruoli dedicati», ha continuato il Direttore.

Dati e Tecnologia

Va inoltre evidenziato che, secondo la ricerca, la quasi totalità delle aziende raccoglie e immagazzina i dati di anagrafica cliente (95% dei casi analizzati) e le informazioni di contatto del cliente (95%).

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Dati-Omnichannel-PoliMi

«Il 90% delle imprese analizzate dichiara di utilizzare alcuni dei dati raccolti per costruire i segmenti funzionali alla progettazione ed erogazione di iniziative di marketing e comunicazione ai già clienti», dichiara Marta Valsecchi, Direttore dell’Osservatorio Omnichannel Customer Experience. «Eppure i dati utilizzati sono ancora soprattutto quelli più basici e tradizionalmente raccolti (come anagrafica cliente e storico dei prodotti acquistati). Inoltre solo poco più di un terzo degli intervistati personalizza i contenuti delle attività di marketing e comunicazione in funzione dello specifico individuo, mentre circa il 44% dichiara di non farlo e il restante 23% sta attualmente lavorando per favorire queste logiche di personalizzazione».

E ancora meno utilizzano tecnologie adeguate per utilizzare i dati per interagire con nuovi utenti: solo il 28% ha una DMP di riferimento (il 9% delle aziende intervistate si è dotato di una DMP proprietaria; il 19% si affida invece alla DMP di terzi) e solo il 25% usa strumenti di Analytics evoluti (leggi di più su Programmatic Italia).

Le startup impegnate nell’omnichannel customer experience

Nel corso della ricerca sono state analizzate anche le principali startup italiane ed estere operanti in ambito omnichannel customer experience – 530 realtà operanti in tutte le fasi del processo – finanziate da investitori, formali e informali, negli ultimi due anni.

Tra queste giovani realtà, quelle che si occupano di analisi e gestione integrata sui diversi touchpoint del contenuto (26%) o di collezione e integrazione dati (20%) rappresentano numericamente quasi la metà dell’ecosistema di settore.

Il 19% gestisce trasversalmente l’intero processo di omnichannel customer experience management, supportando l’azienda sia nelle fasi di collezione e integrazione dei dati e di generazione degli insight, sia nella comunicazione integrata sui diversi touchpoint.

Sempre con il 19% di diffusione figurano le startup incentrate sulla gestione di un unico touchpoint, ossia quelle realtà che supportano l’azienda nell’automazione e nella personalizzazione dei messaggi su uno specifico canale.

Segue la categoria delle startup focalizzate sulla fase di data activation e, in particolare, sulla Marketing Automation (11%). Si tratta di soluzioni che ricevono in input i dati integrati sul consumatore e li utilizzano per rendere più rilevanti ed efficaci le azioni verso i clienti.

Infine, è stata identificata una categoria residuale (5%) in cui sono state raccolte tutte le startup che non rientrano nei cluster precedenti, come quelle di Salesforce Management o quelle relative survey di feedback, quiz o sondaggi da veicolare ai consumatori.


Via Engage
 
Di Max Da Via' (del 21/11/2018 @ 07:54:33, in Marketing, linkato 1859 volte)

Il Funnel del marketing è una schematizzazione del percorso del consumatore dal primo contatto con l’azienda fino alla fase post vendita. Per anni è stato rappresentato da un imbuto suddiviso in diverse fasi, prima individuate dall’acronimo AIDA (Awareness, Interest, Desire, Action), poi AIDAS (Awareness, Interest, Desire, Action, Satisfaction) per tener conto anche del momento post-vendita. 
Questa esemplificazione oltre a rappresentare il naturale assottigliamento dei soggetti raggiunti durante il percorso, permette di forzare i marketer a progettare azioni differenziate a seconda della fase e quindi dell’obiettivo della stessa.

Il modello AIDAS

Awareness: comprende le tattiche che hanno come obiettivo la semplice conoscenza del brand  
Interest: riguarda le azioni per catturare l’interesse più concretamente
Desire: è la fase in cui si prova ad accendere  il desiderio d’acquisto
Action: qui si cerca di trasformare il desiderio in acquisto
Satisfaction: infine si punta alla completa soddisfazione del cliente in modo da indurlo a parlare positivamente della sua esperienza e, magari, a ripetere l’acquisto

Le 5A di Kotler

Philip Kotler nel suo Marketing 4.0, considerando gli effetti che la rete esercita sul processo decisionale di acquisto, preferisce parlare di 5 A ossia Aware, Appeal, Ask, Act, Advocate. Se ben eseguita, ogni singola fase risponderà ad un bisogno specifico del potenziale cliente.

Aware: conosco il brand
Appeal: mi piace questo brand
Ask: valuto le alternative, chiedendo consigli e consultando recensioni
Act: decido di comprare il prodotto/servizio
Advocate: ne parlo e lo consiglio perché soddisfatto

Il volano del marketing

Recentement Hubspot, azienda che produce software di supporto al marketing, ha teorizzato il Flywheel o “Volano del marketing”. L’idea è di porre enfasi sulla circolarità del processo, nel quale l’efficacia di ogni fase sprigiona energia per il successo delle successive.
Attract:  l’obiettivo iniziale è sempre di attirare l’attenzione del potenziale cliente con contenuti utili (informazioni, approfondimenti, consigli) e senza pensare alla vendita
Engage: a questo punto è il momento di entrare in contatto con il pubblico interessato, ma secondi i suoi modi, luoghi e tempi. Intrattenendolo e rispondendo alle sue curiosità, ma anche rendendo semplice la ricerca delle informazioni e l’acquisto
Delight: è la fase nella quale puntare alla massima soddisfazione del cliente durante e dopo la vendita (ad esempio semplificando l’accesso al supporto). Se ben eseguita porterà a fidelizzare il cliente e a trasformarlo in promotore del brand.

flywheel volano del marketing

Ognuno di questi momenti, siccome risponde ad obiettivi specifici, dovrà essere legato a metriche diverse. Nella prima fase può aver senso tener d’occhio le visiti al sito web o il tasso di crescita dei follower sui social media. Nella seconda si potranno considerare le interazioni generate, il numero di messaggi ricevuti dai potenziali clienti, le conversioni. Nella terza si dovrà considerare il grado di soddisfazione, le recensioni, le menzioni positive.

Il mio consiglio è di scegliere uno di questi modelli e provare ad utilizzarlo nel vostro business. Per ogni fase individuate l’obiettivo, le azioni per raggiungerlo e le metriche per misurarne l’efficacia. Vi posso assicurare che si tratta di un ottimo esercizio per iniziare a concepire l’attività di marketing non come monolitica, ma fatta di fasi e micro-momenti.

Via Vincos blog
 
Di Max Da Via' (del 14/11/2018 @ 07:42:22, in Marketing, linkato 1400 volte)

Qual è il divario tra le aspettative dei consumatori nel nostro Paese ed esperienza offerta dai brand?Risponde l'analisi Authenticity Gap Italia di Omnicom Pr Group realizzata su 9 settori produttivi e 81 marchi.

Le priorità degli italiani
Dal report emerge che il consumatore esperto italiano focalizza le proprie aspettative in primis su Customer Care (al primo posto con media di priorità di 1,8 su 9), seguito da Innovazione (secondo posto con 2,5 su 9) e Prodotti e servizi a maggior valore (2,9). Appena fuori dal podio il Rispetto dell’ambiente (3,4) e in quinta posizione l’impegno dell’azienda a Fare la cosa giusta (5,2). Meno prioritari nelle aspettative degli italiani, ma comunque rilevanti, i fattori legati a: Contributo alla comunità in cui si opera (6,5 su 9), Cura dei dipendenti (7,1), Performance finanziarie e operative (7,2), Comunicare in modo più frequente e credibile (8,1).

Dove c'è il gap più alto
E proprio sul punto più importante, ovvero il Customer care (-30,7%), le aspettative sono maggiormente disattese. Seguono Rispetto dell’ambiente (-21,4%), Innovazione (-21,1%) e Prodotti e servizi a maggior valore (-16,1%). Nota positiva: Tutti gli altri fattori considerati non presentano gap in negativo tra aspettative ed esperienze e in alcuni casi l’esperienza va oltre alle aspettative.

I settori più e meno virtuosi
In questo momento i settori che registrano il miglior rapporto tra aspettative vs esperienze risultano essere Automotive, Fashion e Technology mentre Energy & Utilities e Farmaceutico quelli con più aree di miglioramento specialmente in considerazione della grande percentuale degli intervistati che non sa decifrare in che direzione si siano mossi questi comparti negli ultimi 6-12 mesi (verso quindi un’offerta migliore o peggiore). Nel mezzo il food, che per oltre il 43% degli intervistati va in direzione positiva.

La ricerca del fattore sociale
Il 75% degli intervistati in Italia vuole che le aziende vadano oltre agli obblighi normativi e si impegnino attivamente per risolvere problemi a sfondo sociale. Inoltre, il 72% si aspetta che le multinazionali guidino lo scambio di idee, prodotti e cultura anche in caso di politiche isolazioniste promosse dai Governi.

Via Mark Up
 
Di Max Da Via' (del 07/11/2018 @ 07:41:28, in Marketing, linkato 1435 volte)
Si chiama "addressable tv", ed è un tipo di pubblicità mirata sui cui le aziende statunitensi hanno investito 2,25 miliardi di dollari solo quest'anno, con un incremento del 79% rispetto allo scorso anno, con la prospettiva di diventare un terzo della pubblicità totale nelle trasmissioni audiovisive entro il 2022.

A rendere particolarmente allettanti gli spot della "tivù indirizzabile" per le imprese, è il fatto che questi non sono trasmessi in modo uguale per tutti come avviene tradizionalmente, ma vengono visualizzati dai telespettatori in modo personalizzato in base alla loro segmentazione (come l'ubicazione geografica, fasce d'età, sesso, etc.), ma anche ai loro gusti ed abitudini di consumo. 

In Europa i televisori HbbTv (Hybrid broadcast broadband TV) che sono abilitati a ricevere questa tipologia di pubblicità sono già 44 milioni, di cui quattro milioni solo in Italia, ed alcune emittenti operanti anche nel nostro paese hanno già iniziato ad avvalersene, ma in un suo articolo pubblicato sul sito di Federprivacy, il presidente della principale associazione italiana dei professionisti della protezione dei dati solleva non poche perplessità:

"Con le moderne smart tv, un quarantenne dirigente d'azienda può vedere uno spot che gli propone una costosa berlina full optional, mentre nello stesso momento un suo coetaneo operaio sintonizzato sulla stessa emittente può invece visualizzare una pubblicità su un'utilitaria economica, magari da pagare a rate - spiega Bernardi - Le tecnologie basate sugli algoritmi e l'analisi dei comportamenti degli utenti utilizzate per la pubblicità su misura in televisione aprono criticità su vari fronti riguardanti i diritti fondamentali dell'individuo, con potenziali rischi di discriminazione e condizionamento delle opinioni personali, e non per ultimo sul rispetto della normativa sulla privacy." 

In base al Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati personali, quando l'utente viene profilato per potergli proporre spot pubblicitari su misura in base all'analisi del suo comportamento, dei suoi gusti e delle sue abitudini di consumo, deve esserne infatti informato preventivamente in modo trasparente ed essere in grado di esprimere in modo consapevole il suo consenso, con il diritto di revocarlo in qualsiasi momento con la stessa facilità con cui lo ha manifestato, sapendo quindi come fare e a chi rivolgersi, e nel caso reputi tale trattamento troppo invasivo, deve anche potervisi opporre.

Anche se il fenomeno della "addressable tv" sembra destinato a vedere presto una larga diffusione anche in Europa ed in Italia, è quindi necessario rispettare le regole del GDPR, anche perché le sanzioniper chi non rispetta la privacy degli utenti possono arrivare fino a 20 milioni di euro o fino al 4% del fatturato annuo globale dei trasgressori.

Via Mediakey
 
Di Max Da Via' (del 05/11/2018 @ 09:50:20, in Marketing, linkato 1652 volte)

Quanto è utilizzato l'influencer marketing dalle aziende in Italia e con quale livello di soddisfazione? Quanto si è speso e si spenderà in futuro?
Risponde il primo Osservatorio sull’influencer marketing promosso da Ied Milano ed Akqa.

Metodologia. I dati sono frutto di una survey condotta tra luglio e settembre su professionisti dei comparti marketing e prodotto, digital pr e social media, e sul top management di aziende di vario settore attive in maggioranza a livello nazionale, con una predominanza di pmi (45% degli intervistati) e multinazionali (39%) nonché una certa presenza di consulenti (8%) e start-up (7%).

Chi investe di più
Dall’indagine emerge che il 64% degli intervistati ha fatto ricorso nell’ultimo anno ad operazioni di influencer marketing, per il 62% in modo continuativo e attivando quindi le quattro leve essenziali di questo tipo di attività – scouting, strategia, ideazione creativa, reportistica e analisi – per il restante 38% in modo discontinuo e occasionale. Nello specifico, le realtà che maggiormente hanno strutturato attività continuative sono le start-up (il 70% ha risposto in maniera affermativa); ad aver fatto ricorso invece ad attività one shot sono invece per lo più le pmi (45%). Le multinazionali, infine, mostrano di aver investito di più nel trend in termini quantitativi.

Spesa e proiezioni future
Parlando degli investimenti, dai dati emerge che il 21% di chi ha attivato operazioni di influencer marketing ha speso più di 50 mila euro nell’ultimo anno mentre solo il 5% ha speso 0 euro, ossia ha condotto operazioni di questo tipo senza investire risorse economiche. Il 36% ha investito da 1.000 a 10mila euro, il 39% da 10 a 50 mila. Ad aver allocato budget più consistenti sono – come è prevedibile – le multinazionali (30%), mentre ad essersi “arrangiate” a costo zero sono per lo più start-up (10%), che risultano essere però anche le più rappresentative (60%) nella fascia di spesa da 1.000 a 10 mila euro. Positiva la proiezione sugli anni successivi, che testimonia un buon Roi sulle operazioni: il 65% di chi ha già investito in influencer marketing lo scorso anno dichiara di aver aumentato il budget per il 2018 e il 79% di questi prevede un incremento ulteriore per il 2019.

Grado di soddisfazione
Il 24% degli intervistati non si ritiene soddisfatto del lavoro svolto con gli influencer. Le prevalenti motivazioni dichiarate sono i problemi di misurazione de risultati/Kpi (per il 28%), la mancanza di pianificazione/strategia sul lungo periodo (26%), la mancanza di fiducia nell’influencer marketing (21%), la scarsa professionalità/disponibilità dell’influencer (11%), la scelta errata dell’influecer problemi (9%). Rispetto ai criteri di valutazione dell’adeguatezza dell’influencer spiccano, invece, l’affinità con il brand (35%) e l’allineamento all’audience target (19%), a cui seguono l’analisi quali/quantitativa dei contenuti (13%) e l’influencer score (7%).

Le ragioni del mancato utilizzo
Se il 36% degli intervistati dichiara di non aver mai attivato iniziative di influencer marketing, l’indagine analizza anche i motivi di questa scelta. Dalle risposte del campione emerge che le ragioni prevalenti sono - nell’ordine – la diffidenza verso questo tipo di attività, la mancanza di necessità, la mancanza di strategia, i limiti di budget, il core business b2b (con un target difficilmente raggiungibile attraverso influencer che parlano al grande pubblico), la difficoltà nell’individuare un partner giusto. Se la percentuale di chi non si è rivolto all’influecer marketing non è indifferente, le proiezioni per il futuro sono però positive. Il 29% dei non utilizzatori tra gli intervistati dichiara infatti di voler iniziare a utilizzarlo prossimamente.

A chi ci si rivolge
Dai dati della survey emergono anche importanti evidenze sul ruolo delle agenzie in questo tipo di operazioni. Il 60% degli intervistati che hanno fatto ricorso all’influencer marketing si è rivolto per l’ideazione e la conduzione dei progetti ad agenzie specializzate (36%) e agenzie social (29%), mentre un restante 14% si è rivolto direttamente a network di influencer. I dettagli mostrano come il valore percepito nell’affidarsi a professionisti esterni sia molto alto per quanto riguarda la fase di scoutingdegli influencer più idonei per una campagna, attività al primo posto per preferenza tra i servizi richiesti alle realtà specializzate (38% dei rispondenti). Seguono, nell’ordine, la reportistica e analisi (26%), la strategia 20%, l’ideazione creative (16%).

Via Mark Up
 
La Customer Experience (CX) è una delle buzzword che ha caratterizzato il 2017 e il 2018 non sarà da meno.

Le esperienze rivestono ormai un’importanza a tratti maggiore rispetto all’offerta aziendale proposta. Anche per via della loro capacità non solo di attrarre le persone all’interno del mondo di marca, ma soprattutto proprio per l’abilità di trattenerle in esso. Ed è una certezza che la customer retentionsia di gran lunga più conveniente rispetto alla customer acquisition.

L’attuale arena competitiva è guidata da organizzazioni e marchi che riescono a organizzare le esperienze migliori garantendosi la testa (e il cuore) delle persone, evitando così il circolo vizioso della guerra dei prezzi.

In sintesi, la competizione sul piano delle esperienze è sempre più accesa.

Per tutte le ragioni elencate finora, brand e organizzazioni devono passare da uno stato di product-mindset e dalla relativa visione prodotto/servizio-centrica (product space) a un nuovo experience space.

LEGGI ANCHE: Customer Experience Design: il libro per progettare esperienze di marca memorabili sui media digitali

Uno dei nuovi fronti dell’innovazione organizzativa consiste nell’espandere tali spazi esperienziali.

Come ogni parola chiave di business diffusa a macchia d’olio, il rischio che la stessa venga approcciata in modo scorretto è alto. Questo post si pone l’obiettivo di diventare una guida per chiunque abbia necessità di approcciarsi alla progettazione e gestione di CX di rottura.

Cosa è la Customer Experience?

Di esperienze, negli ultimi tempi, si fa un gran parlare. A volte, anche in modo esagerato ed eccessivo.

·         L’atto di andare al ristorante e godere del servizio di una buona cucina si chiama ora food experience (magari, accompagnata da un buon bicchiere di vino? Ecco la wine experience!)

·         Il piacere di fare un bel viaggio rientra all’interno di una travel experiencesoddisfacente, la guida di una vettura performante arricchita da alcuni servizi aggiuntivi di prestigio offerti dal concessionario diventa subito driving experience

L’elenco potrebbe continuare all’infinito: ci sono anche i casi della catena di alberghi internazionale Radisson Blu, che propone ai propri ospiti l’organizzazione di experience meetings e di MSC Cruises, compagnia di crociera che ha lanciato insieme a Technogym una nuova wellness experienceproprio “per rispondere alla crescente domanda di turismo wellness”.

Infine, le etichette di alcuni shampoo o di altri detergenti proposti sugli scaffali dei supermercati comunicano all’acquirente la presenza di seta o miele. Si tratta di caratteristiche spesso del tutto inutili dal punto di vista funzionale, ma che aggiungono valore da una prospettiva edonistica.

 

Cosa si intende davvero per Customer Experience?

La Customer Experience è l’insieme integrato e perfettamente coeso di tutte le esperienze che i clienti di un’azienda o una marca vivono nelle interazioni con queste, attraverso i punti di contatto (touch point) digitali e non solo.

Il focus di questo articolo, come già accennato, è sulla CX veicolata e gestita attraverso i media digitali. Per avere impatto, le Customer Experience più efficaci dovranno diventare sempre di più parte integrante della modalità con cui un business si definisce e compete, mentre l’esperienza dovrà consolidarsi in experience philosophy ed essere istituzionalizzata all’interno delle organizzazioni.

Customer Experience e Modelli di Business

Dopo avere analizzato brevemente alcuni dettagli caratteristici dell’Economia dell’Esperienza, consideriamo i cambiamenti che il paradigma esperienziale ha portato all’interno delle aziende, incidendo su orientamenti strategici e definizione dei modelli di business.

A tal fine, introduciamo il concetto di platfirm, neologismo che nasce coerentemente con le più recenti evoluzioni sul tema e l’applicazione del platform thinking. A questo link trovi un paper che spiega il termine più in profondità.

Il termine “platfirm” si sviluppa dalla fusione tra “platform” e “firm” e indica la prospettiva che vede le organizzazioni non attraverso le classiche metafore della biologia (organismo) o della meccanica (meccanismo), ma con la metafora della “piattaforma”, concetto derivato dalle tecnologie digitali.

Il concetto di piattaforma è sempre più impiegato come lente per interpretare la disruption digitale. Così, anche il pensiero di management ha cominciato a guardare alle organizzazioni come piattaforme.

Le società digitali nascono come piattaforme (Facebook, Ebay, Google, Uber, Aibnb) ma anche Nike, ad esempio, si sta strutturando come rete di piattaforme di interazione per la co-creazione intensiva di valore, beneficiando di scalabilità rapida, dell’effetto di rete, dell’apertura agli attori e community dell’ecosistema (non solo consumatori, ma community di developer, acceleratori di soluzioni, etc.).

Anche i luoghi fisici (si pensi agli store di Apple), vengono pensati come piattaforme per il social learning, il coinvolgimento e le attività di supporto al cliente. In una prospettiva platform-oriented, il mantra dell’essere “customer-centric” risulta fuorviante. Le organizzazioni viste come piattaforme devono essere in grado di abilitare e mobilitare attori diversi (umani e non, individuali quanto collettivi) per ottenere benefici e vantaggi quali:

·         accelerare la creazione di opportunità e crescita;

·         ridurre il rischio e i costi operativi;

·         ottimizzare l’investimento in capitali e risorse;

·         scalare rapidamente processi di apprendimento e conoscenza.

Uno degli aspetti più rilevanti è che la piattaforma abilita interazioni fra produttori e consumatori di valore esterni all’impresa – come i casi di Airbnb e Uber fanno facilmente comprendere. Ciò rappresenta una netta discontinuità rispetto ai modelli economici tradizionali, attivando percorsi non lineari di valorizzazione di cui possono beneficiare, in forme diverse, sia coloro che entrano nella piattaforma con fini co-produttivi, sia coloro che vi entrano per utilizzarne i servizi.

 

Le implicazioni strategiche e organizzative portate dalla trasformazione di molti business in platfirm è forte e dirompente. Il modello è utile per comprendere l’evoluzione aziendale anche dal punto di vista dell’Economia dell’Esperienza. Come citato da Brian Solis nella sua ultima opera “X, When Experience Meets Design”: “Coca-Cola e Nike non stanno creando solo esperienze individuali: esse stanno generando spazi comuni dove consumatori e marche condividono esperienze dense di significato. Quando l’esperienza è al centro del modo in cui i prodotti sono fatti e venduti sul mercato, vengono stimolate le relazioni con i clienti e la fidelizzazione alla marca“.

LEGGI ANCHE: L’audience non è più l’obiettivo ma il vero asset di chi fa Content Marketing

Alla base di tali experience platfirm risiede infatti la piattaforma esperienziale, ben descritta nel libro classico di Mauro Ferraresi e Bernd Schmitt “Marketing Experienziale. Come Sviluppare l’Esperienza di Consumo” e il cui obiettivo è proprio quello di articolare al meglio il posizionamento di un’azienda, una marca e/o un prodotto.

Utilizzando gli stimoli provenienti dal mondo esperienziale delle persone e dalle attività di benchmarking esperienziale, essa si compone di tre principali componenti:

·         Posizionamento esperienziale: descrive ciò che la marca o l’azienda rappresentano. Dovrebbe essere al contempo concreto e intrigante, al fine di trasmettere subito la propria utilità pratica lasciando al contempo spazio per sviluppi innovativi.

·         Promessa di valore esperienziale (PVE). Specifica nel dettaglio il valore che il posizionamento esperienziale ha per il cliente. Funge così da standard sotto il quale l’organizzazione non può posizionarsi se vuole continuare a deliziare le persone.

·         Tema dell’implementazione. Manifestazione della piattaforma esperienziale, capace di riassumere lo stile e i contenuti dei messaggi principali usati dall’azienda o dal brand in tutte le declinazioni dell’esperienza verso il pubblico.

In quanto dimensione principale della platfirm, la piattaforma esperienziale diventa fondamento per il disegno dell’esperienza di marca complessiva e per le dinamiche di relazione e interfaccia con il cliente.

 

Ma qual è il ruolo delle esperienze per le platfirm?

Diverse analisi di marketing esperienziale e marketing tribale propongono una visione delle organizzazioni in quanto attori nell’Economia dell’Esperienza, non più solo come entità organizzatrici di esperienze, ma invece in quanto realtà proponenti artefatti e contesti che conducono alle esperienze, e che possono essere adeguatamente utilizzati dai consumatori per co-creare le proprie.

Il ruolo delle aziende e dei brand è diventato quello di fornire l’ambiente e il contesto adeguato a fare emergere la giusta esperienza, cioè quella desiderata dalle persone.

Alcune realtà possono addirittura essere definite come dei veri business experience-based: aziende del calibro di Apple, Siemens e Disney, che hanno fatto dell’esperienza una leva di forte differenziazione. Anche Vodafone, colosso internazionale delle telecomunicazioni, ha avviato da tempo un percorso che – pur rimanendo aderente alle idiosincrasie organizzative – presenta forti connotati di platfirm: dal ridisegno e trasformazione degli asset digitali in “luoghi” di incontro definiti dall’interazione tra specifiche categorie di utenti, alla capacità di fare vivere a utenti diversi esperienze totalmente personalizzate attraverso analitiche avanzate e sulla base di dati raccolti online e nel punto vendita.

LEGGI ANCHE: Personalizzano la customer experience con l’AI e aumentano i ricavi del 15%. Il caso Luisa Via Roma

CX Management: 10 variabili progettuali

Compresa l’entità delle esperienze e il loro impatto nella (ri)progettazione dei business e delle strategie aziendali, vediamo 10 variabili che giudico strategiche per progettare e governare Customer Experience rilevanti.

1.       Customer-centricity: è necessario entrare nella testa delle persone andando oltre l’analisi delle ricerche di mercato o il gut feeling. Tecniche come l’etnografia (digitale o meno), l’ascolto delle conversazioni in rete e gli incontri periodici con i clienti permettono di avere ben saldo il polso della situazione, fornendo anche consigli e spunti preziosi per il business.

2.       Rilevanza e autenticità: la rilevanza si sposa spesso con l’autenticità, una dimensione fondamentale quando si tratta il tema delle esperienze, tanto che un imperativo per le organizzazioni diventa quello di imparare a comprendere, a gestire e a perfezionare l’espressione dell’autenticità – ovvero, l’allineamento dell’esperienza proposta con l’immagine personale delle persone. È possibile affermare che la stessa autenticità sia il vero motore della rilevanza, e la gestione dell’autenticità dell’esperienza è una variabile di management strategica. Nonché una delle principali leve di fidelizzazione delle persone al progetto aziendale o di marca.

3.       Effetto WOW: molto spesso non c’è magia senza sorpresa e stupore, sentimenti ricercati direttamente dagli individui. Ma attenzione: a seconda delle sue connotazioni positive o negative, un elemento di novità può provocare stress oppure emozioni virtuose.
È fondamentale che l’esperienza generata sia stata progettata in modo da stimolare queste ultime.

4.       Stimoli positivi: soprattutto nel caso in cui le esperienze fruite dalle persone sono nuove, è fondamentale fornire loro stimoli e rinforzi positivi per convincere gli stessi individui a continuare. Altrimenti, in mancanza di feedback il rischio è che essi abbandonino l’esperienza, ne risultino insoddisfatti o – ancora peggio – condividano con la propria rete di contatti eventuali criticità riscontrate.

5.       Memorabilia: spillette, magneti, tazze, bandiere, cartoline. Ma anche coperte, asciugamani, cappellini e molto altro ancora: quando viviamo un’esperienza bella e soddisfacente, spesso siamo disposti a pagare per portare con noi qualcosa di questa che ci permetterà di ricordarla e riviverla per molto tempo. Tale prassi ha permesso a moltissimi brand – da Disney a Hard Rock International, da Virgin alla città di New York – di moltiplicare il fatturato attraverso pratiche di merchandising, trasformando al contempo le persone in potenti media capaci di diffonderne il logo.
In tale direzione, i media online sviluppano ulteriormente la tendenza in due principali direzioni 1) offrendo ulteriori canali di vendita e distribuzione dei memorabilia – per esempio, attraverso marketplace o e-commerce e 2) generano memorabilia completamente nuovi come e-card e altri souvenir digitali.

6.       CX totale: se l’esperienza in sé è fondamentale, i memorabilia descritti al punto sopra sottolineano l’importanza della più ampia gestione e ottimizzazione anche delle fasi successive al momento di erogazione della CX. È la stessa esperienza che lo richiede, in quanto gli effetti sulle persone partecipanti non si esauriscono certo durante la sua fruizione.
Nuove sensazioni, nuove necessità e/o nuovi stimoli possono emergere anche nelle fasi successive, e la vicinanza dell’azienda agli individui permette da un lato di cogliere nuove e interessanti opportunità, dall’altro di arginare sul nascere e con un approccio proattivo eventuali criticità.

7.       Portafoglio di esperienze: progettata la prima esperienza e nel rispetto della brand consistency, prendici gusto

8.       Esperienze condivise: life is for sharing, citavano le comunicazioni di T-Mobilenel 2009 in una campagna ben riuscita firmata dall’agenzia Saatchi&Saatchi. E in effetti, la capacità – o meglio la necessità – di condividere messaggi, comunicazioni, emozioni (in una parola, esperienze) è diventata da allora un punto centrale della nostra quotidianità.
Nell’era dei consumatori inter-connessi attraverso le nuove tecnologie di mobilità, il disegno della customer experience deve tenere in considerazione la facilità e immediatezza di condivisione, determinando lo sviluppo di shared experience. Il punto è critico, considerando che la capacità di stimolare la condivisione con altri utenti delle emozioni e delle sensazioni provate dà vita a processi di confronto sociale che alimentano il valore di marca.

9.       Evoluzione esperienziale: se da un lato progettare esperienze ha un costo per le aziende, d’altra parte tale sforzo costituisce un investimento (economico, cognitivo, di risorse umane coinvolte, ecc.) ancora maggiore. Questo per via del grande numero di variabili progettuali necessarie e della loro forte taratura sulle specificità del singolo individuo. Attraverso soprattutto i media digitali, la specialità e l’unicità dell’esperienza sono garantite da un’erogazione personalizzata secondo l’accesso e il profilo dell’utente, il suo grado di coinvolgimento, i tratti personali più caratteristici.
È facile immaginare come per le aziende la continua creazione di esperienze contestualizzate, personalizzate sulle specificità delle singole persone si riveli già nel medio termine uno sforzo difficile da gestire. La sfida diventa allora comprendere da un lato in che modo ottimizzare il trade-off. In tale direzione, media e strumenti digitali offrono ancora un’elevata scalabilità da cui trarre vantaggio. D’altra parte, le organizzazioni di qualunque tipologia e dimensione hanno ormai l’imperativo di conoscere in modo chiaro la distinzione tra varietà – ovvero la pratica (spesso inefficace e inefficiente) di aumentare l’ampiezza dell’offerta sul mercato nel tentativo di incontrare il favore di qualche consumatore – e personalizzazione, consistente nella capacità di rispondere a desideri e bisogni delle persone.

10.   Integrazione: le aziende non sono tutte uguali, ma differiscono per tanti fattori tra cui storia, dimensione, settore, tipo di offerta, localizzazione della sede e delle eventuali filiali, raggio geografico di azione, vision, mission. Sta alla singola organizzazione comprendere come integrare al meglio le altre dimensioni sopra elencate per diventare experience stager efficaci – cioè perfettamente allineate alle necessità e alle caratterisctiche dei propri consumatori attuali e potenziali.

Conclusioni: l’impatto economico della Customer Experience (e le sfide all’orizzonte)

Alcuni risultati ottenuti da uno studio del 2014 di Harvard Business Review Analytic Services in collaborazione con il SAS Institute su un campione di 403 executives dal titolo “Lessons From the Leading Edge of Customer Experience Management” sono indicativi.

Se infatti il 45% dei rispondenti vede la CX come una priorità strategica, la stessa percentuale (!) ha difficoltà a collegare gli investimenti sostenuti per disegnarla, implementarla e ottimizzarla con i ritorni su tale investimento in termini di business – principalmente a causa della difficile integrazione tra i sistemi aziendali, della complessità generata dall’omni-canalità e dalle strutture organizzative non sempre capaci di internalizzare e incanalare correttamente gli insight.

La variabile determinante, allora, non è tanto se progettare Customer Experience, ma invece come progettarle.


Via Ninja Marketing
 
Di Max Da Via' (del 21/12/2017 @ 07:30:07, in Marketing, linkato 1660 volte)
  1. Internet parallele come monopòli: Amazon, Booking, Airbnb, Whatsapp, Facebook, Netflix. Le persone ahimè sono pigre, scelgono pochi strumenti, e usano sempre gli stessi per eseguire la maggior parte delle loro attività. L’importante (per la digital strategy) è saperlo, e sfruttare la pigrizia.
  2. Mobile: la app mania è finalmente finita. Non siete diventati ricchi a botte di un euro a download. La app della vostra azienda se la sono scaricata solo gli sviluppatori. È il momento di pensare al mobile come a un layer permanente, non come a un canale, o peggio a uno strumento. Cosa siete disposti a dare per entrare nei loro smartphone?
  3. Social: ehi, vi ho già detto che il piano editoriale è morto? E che Facebook sfrutterà sempre di più il proprio monopolio? E che non ci potete fare niente se non gioire e pagare (bene) e/o distinguersi dagli altri?
  4. Programmatic: chi sarà il primo a fare la domanda “quanto costa rispetto a quanto rende“? Chi ci guadagna nel mezzo? E poi: tre cookie profilanti non faranno spiccare un banner, che è un formato fuori dagli occhi (figurati dal cell, figurati dal cuore) dei millennial (e non solo), soprattutto in mancanza del punto 6.
  5. Creatività digitale: ancora adesso partiamo dal concept. Brainstorming intersecano ciò vogliamo comunicare, sinonimi e contrari, e ardite metafore e poi la battuta. Chi è di solito assente al tavolo? Il micro-segmento di persone a cui vogliamo dire qualcosa, la loro ricompensa per starci a sentire. Il concept creativo monolito (la “big idea”) per tutti ha ancora senso nell’era digitale (vedi il punto 6)? O forse meglio un algoritmo che faccia 5000 variazioni diverse per coprire 5000 microsegmenti?
  6. Rilevanza: la pubblicità digitale, nonostante tutte le tracce che lasciamo in rete, viene concepita come ai tempi della TV, un messaggio uguale per tutti, e che in più interrompe senza niente in cambio. Quindi, non è davvero rilevante per nessuno. E questo provoca il punto 10.
  7. Stories: le stories sono ormai un linguaggio autonomo. Instagram ha in mano il futuro dei social, che sarà verticale, creativo e pop. Sarà più spontaneo ed effimero. Chi ci perde, oltre a Snapchat? I fotografi influencer patinati di Instagram, forse?
  8. Content: sempre più contenuti, sempre più affollamento. È il dilemma del prigioniero: sarebbe meglio per tutti che se ne facessero meno e migliori, “ma se poi io ne faccio meno e lui di più, io perdo e lui vince”. Così perdiamo tutti, e amen.
  9. Influencer: se servono per aumentare awareness, reputation e vendite, perché non misuriamo nessuno dei tre? Semplice: perché con i fondi di magazzino del budget digital si fa prima a cacciare mille euro a post di Instagram e sperare che succeda qualcosa. Finché dura.
  10. Adblock ed editori: ci sono molti motivi perché le persone bloccano i banner, e nessuno di questi è la cattiveria verso gli editori. Il motivo è il punto 6. E gli editori continuano a vendere i dati dei propri utenti per pochi euro a CPM che non salveranno il settore. Iniziassero a vendere prodotti per cui (una minoranza) di persone sono disposte a spendere sarebbe una internet migliore per tutti.
Via [mini]marketing
 
Di Max Da Via' (del 02/11/2017 @ 07:29:02, in Marketing, linkato 1544 volte)

Dopo anni di acquisti in contrazione, gli italiani sotto gli “anta” tornano a spendere di più per i prodotti di largo consumo. A confermarlo è una recente indagine Nielsen che evidenzia anche come l'approccio dei Millennials alla spesa non si basi affatto sulla routine.

Le famiglie giovani – quelle con figli sotto i 17 anni, ma non tutti superiori ai 10 anni – fanno registrare un aumento della spesa media del +2,5%. I single e le coppie under 35 senza figli diminuiscono invece il valore della singola spesa (-0,7%) compiendo atti d’acquisto sempre più frequenti (+2,1%).

Entrambi i trend confermano il crescente impatto che gli acquisti alimentari hanno sull’andamento del settore fmcg. La riscoperta del cibo salutista, infatti, sta trainando il largo consumo ed è diventata un vero e proprio investimento: il benessere è una nuova forma di sicurezza.

Il trend relativo ai Millennials senza figli è interessante anche per un altro motivo. I ventenni e neo-trentenni effettuano la loro spesa tra le due e le tre volte a settimana, visitando punti di vendita differenti e, sempre più spesso, specializzati. È evidente che la scelta dei momenti e dei luoghi in cui acquistare i prodotti di largo consumo stia diventando – per citare Bauman – liquida.

I Millennials acquistano di più online, al tempo stesso si recano più frequentemente nei piccoli negozi di alimentari, nei discount, negli specialisti drug e partecipano ai Gruppi di Acquisto Solidale nella propria zona. Sono propensi ad attivare fonti d’acquisto diverse, a seconda del bisogno del momento e della “convenience”.

Come dicevamo, quindi, niente routine: la scelta del punto vendita dipende da un mix fattori, tra i quali la prossimità, la convenienza economica e la qualità/innovazione dei prodotti offerti.

Via Mark Up
 
Di Max Da Via' (del 18/10/2017 @ 07:13:37, in Marketing, linkato 1514 volte)

Circa un anno fa, capitai per caso sui Navigli di Milano verso le 7 di sera. Era un giorno centrale della settimana, e per questo mi aspettavo, al contrario delle resse del weekend, un tranquillo viavai di persone alla ricerca di un locale dove fare aperitivo. Invece no. Una grossa folla intasava un Naviglio Grande sorprendentemente addobbato di rosso, e si concentrava in una arteria da dove proveniva una forte musica. Curioso, andai a controllare: un noto marchio di alcolici aveva brandizzato tutta la via, aveva organizzato un concerto la cui band suonava affacciata dai balconi del primo piano, e scontava pesantemente i drink che contenessero un ingrediente da lui prodotto. Di questa serata ne sentii parlare per un bel po’.

Le esperienze sono un grande stimolo per la memoria, ma non solo. Permettere a una persona di emozionarsi, divertirsi, o stupirsi attraverso un coinvolgimento vero, diretto, personale, e genera una profondità di contatto che è difficile instaurare attraverso uno schermo. Per questo motivo, molti brand stanno aumentando i loro sforzi sul campo del marketing delle esperienze. “È sempre più difficile avere successo attraverso l’advertising tradizionale. Nella confusione attraverso cui dobbiamo esprimerci, l’attention spam dell’utente è calato – ora è par a 6 secondi – e quindi come si fa a superare questi ostacoli e ispirare i consumatori?”, commenta il cmo di Mastercard, Raja Rajamannar.

 

Cosa si aspettano i brand

Nel mondo ideale, un brand offre un’esperienza per fare in modo che i partecipanti si divertano, parlino dell’evento sui social, lascino al marchio i propri contatti e abbiano una propensione d’acquisto più alta verso i propri prodotti. “Quello che l’advertising tradizionale fa in settimane, noi lo facciamo in un momento. L’experiential è un modo veloce ed efficace per generare brand awareness attraverso una connessione one-to-one con i consumatori. Coinvolge tutti e cinque i senso, stimolando emozioni che formano ricordi che rmangono, e che è stato dimostrato essere importanti per creare brand loyalty”, spiega Bryan Icenhower, president di IMG Live, agenzia esperienziale di WME | IMG. Stando a un report dello scorso maggio, condotto da Freeman e SSI, un cmo su tre allocherà tra il 21 e il 50% del suo budget su brand experience marketing nel periodo che va tra i prossimi 3 ai prossimi 5 anni.

“Molti marketer sono d’accordo nel dire che l’esperienza di brand generi loyalty. Abbiamo scoperto che circa il 60% dei cmo valuta la brand experience per la sua abilità di creare relazioni dirette con le audience chiave. Nove rispondenti su dieci sono convinti che la brand experience consegni una forte interazione face-to-face e un engagement più avvincente. Due terzi degli intervistati, poi, crede che questo mezzo sia molto efficace per raggiungere gli obiettivi di business”, commenta Chris Cavanaugh, cmo di Freeman.

 

Come misurano le campagne experiential

Ogni brand ha le sue metriche di riferimento. Mastercard e American Express, per esempio, hanno accesso a un gran numero di dati sui clienti, che gli permettono di essere più precisi nelle misurazioni. Ma la industry è generalmente d’accordo sul fatto che misurare le esperienze sia diventato molto più facile, e di conseguenza l’organizzazione di eventi sia più attraente. I brand dicono di essere passati, nel segmento di dati e misurazione, da un approccio passivo (sperando che un’esperienza sia così impressonante da postarla sui social) ad un approccio attivo (che include data points e tracking come una parte dell’esperienza, o l’integrazoine di sforzi social per fare in modo che le persone utilizzino hashtag e condividano la propria posizione), per garantirsi il possesso degli analitics che possano giustificare le spese sostenute per l’iniziativa.

Ma i marchi riescono a determinare con grande decisione anche le metriche che ritengono important, sebbene la misurazione dell’experiential rimanga una materia piuttosto nuova. “Non ci sono standard dettati dalla industry per questo tipo di marketing. Attualmente vediamo il gap di mercato come un’enorme opportunità e continueremo a investire in strategia, stetistiche e tecnologie per costruire modelli che possano adattarsi a clienti appartenenti a industry diverse. L’intera disciplina dell’experiencial funzionerebbe meglio se fosse regolata da una metodologia universalmente accettata, e speriamo di poter essere prima linea a richiederla”, dice Icenhower.

 

Metriche leggere o metriche pesanti?

Nonostante le discussioni sulle misurazioni, alcuni marketer sono convinti che per capire se un’evento abbia funzionato basti guardare la folla per farsi un’idea sull’effetto che l’esperienza ha creato, e quindi del riflesso di questo sul brand. “Il dato sta diventando un elemento centrale, e per il marketing esperienziale è molto bello avere sempre più informazioni. Ma un’esperienza ha anche un carattere emotivo, e questo è intangibile. A volte la miglior ricerca è guardare le persone in faccia e vedere come si stanno vivendo il momento. È un metodo corroborato per capire se sta funzionando”, dichiara Deb Curtis, vp of global partnerships and experiential marketing for American Express.

“È molto difficile avere una grande conversione alla vendita se non viene nessuno all’evento”, commenta Curmi, convinto che le metriche leggere (ovvero la risposta a domande come, cquanto sono contente le persone che partecipano? Vanno via con il sorriso? Ne parlano con i loro amici in modo positivo?) siano tanto importanti quanto le metriche pesanti (i veri e propri dati).

Rajamannar aggiunge: “Il marketing non è ancora una scienza esatta. Non è possibile quantificare tutto al 100%. Se si fa sorridere una persona è già qualcosa”.

 

Land Rover

Micheal Curmi, brand experience director di Jaguar Land Rover per il nord America, ha dichiarato che sia Land Rover sia Jaguar stanno lavorando sull’aumento degli sforzi experiential per quest’anno. “Parte di questa scelta è dovuta a dati migliori e alle migliori capacità di provare il valore delle esperienze rispetto al passato”. Nella fase organizzativa, va studiato un elemento social che renda tracciabile la reach dell’evento sulle piattaforme, che si va ad aggiungere al pubblico presente di persona, a quelli che hanno chiesto il contatto di un rivenditore o che hanno acquistato un veicolo. Una delle ultime iniziative di Jaguar ha sfruttato la VR per ricreare un inseguimento ad alta velocità in cui il protagonista è il consumatore. Questo tipo di interazioni rende gli utenti più propensi a condividere l’esperienza.

“L’experiential è l’unico modo per avere un’interazione fisica con il prodotto, offerta direttamente dalla compagnia, ed è anche uno dei pochi luoghi per avere un dialogo aperto con i consumatori. Quello che facciamo, è principalmente inviare messagg agli utenti e, durante gli eventi, parlare con loro, capire cosa ritengono più importante e avere conversazioni fatte di botta e risposta”, conclude Curmi.

 

M&M

Nello scorso maggio, M&M ha lanciato il suo nuovo prodotto al gusto caramello attraverso una campagna di experiential marketing, a Times Square (NY), che utilizzasse l’augmented reality. M&M’S ARcade, questo il nome dell’iniziativa, ha trasformato le decine di cartelloni presenti in zona in un’atmosfera da videogioco arcade, nel momento in cui le billboard venivano inquadrate dallo smartphone. L’hashtag a supporto, #UnsquareCaramel, è stato utilizzato più di 2200 volte su Twitter, totalizzando oltre 6 milioni di impression. In generale, l’iniziativa ha generato 466 milioni di impression fino a oggi.

“La condivisibilità attorno al marketing esperienziali è cambiata. I social hanno cambiato tutto perchè per avere successo è necessario creare contenuti con cui la gente interagisca. Senza alcun social ad amplificarne la portata, l’experiential avrebbe poco senso per noi”, spiega Andy Pharoah, vp degli affari corporate e delle iniziative strategiche di Mars, company parente di M&M.

Via 360com
 
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