Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Di Eli (del 16/12/2005 @ 19:22:42, in Marketing, linkato 3487 volte)
Le immagini sono state dichiaratamente ritoccate al computer, però l’effetto è molto interessante. Che possano essere di ispirazione per qualcuno?
Via Avertising/Design Goodness
Prendo ampio spunto da una newsletter di Peppers & Rogers che mi è stata recapitata qualche giorno fa per trattare questo argomento. Recentemente l’articolo pubblicato da Gianluigi sul marketing one to one ha destato molto interesse, e mi sembra quindi stimolante affrontare nuovamente il tema della fidelizzazione da un altro punto di vista.L’intervento dei due guru del marketing one to one parte dall’analisi del rapporto tra fedeltà dei clienti e redditività dell’azienda, analizzanto per verificare il grado di correlazione tra le due variabili.L’utilizzo di programmi tesi a migliorare la fedeltà è molto comune in vari settori, tra i quali spiccano quello della grande distribuzione e dei trasporti aerei. Nonostante gli sforzi di molte aziende tuttavia l’efficacia di questa operazione è spesso limitata, e gli utenti non si sentono eccessivamente legati ad un operatore in particolare solo per il fatto di partecipare ad una raccolta punti.Anche nel settore del credito la situazione non è molto migliore. Un’analisi condotta presso 16.000 clienti di banche dalla BAI Research ha dimostrato che oltre il 70% degli intervistati non è interessato ad avere rapporti più stretti con la propria banca, anche se il 90% degli istituti ha affermato di ricorrere a programmi più o meno ambiziosi di fidelizzazione.Tornando però all’analisi del rapporto tra fedeltà e redditività il 2005 Walker Loyalty Report, una ricerca di mercato che ha analizzato oltre 18.000 diversi brand ha dimostrato che le aziende leader nel loro settore per gli aspetti legati alla fidelizzazione dei clienti mediamente si garantiscono margini operativi migliori del 13% rispetto ai concorrenti meno blasonati, con un impatto positivo anche sul valore delle azioni quando quotate.La rivista Brandweek Magazine in collaborazione con Brand Keys, pubblica ogni anno i propri awards, attraverso i quali premia le 50 aziende che più si sono distinte nei programmi di fidelizzazione. La classifica è redatta intervistando un panel di 16.000 consumatori, e analizzando attitudine all’acquisto, comportamento e valutazione delle esperienze più recenti.Incrociando la top ten di questa classifica con un’analisi della situazione finanziaria di queste aziende appare plausibile una precisa correlazione anche se, ovviamente, la fedeltà alla marca non è l’unico driver del successo.Il numero uno della classifica, un certo Google, nel terzo trimestre ha realizzato ricavi per oltre 1,578 miliardi di dollari, segnando un incremento del 96% rispetto a quanto avvenuto nello stesso periodo dell’anno precedente.Anche le altre aziende della top ten oltre ad essere brand molto forti e apprezzati mostrano una situazione finanziaria particolarmente positiva, basta dare un’occhiata alla lista per far sorgere il sospetto che clienti fedeli aiutino e di molto a mantenere solida l’azienda.2. Avis3. Yahoo!4. Treo5. Samsung6. Blackberry7. Verizon Long Distance8. Canon Color Printers9. Miller Genuine Draft10. Marriot Hotels
La scomparsa del 12 ha scatenato una vera e propria guerra tra i vari operatori di directory telefoniche, che lottano spalla a spalla a colpi di spot e offerte speciali per affermarsi in un mercato ricco ma estremamente competitivo.Una delle aziende del settore che ha nei mesi scorsi più discutere è stata “Il Numero Italia”, sia per la martellante campagna basata sulle imprese dei due ballerini-gemelli 892 892 che per l’utilizzo di messaggi promozionali e colori che a detta di molti inducevano il consumatore a credere che si trattasse di un servizio sostitutivo della Telecom invece che di una società terza.Un altro aspetto molto discusso, ma che riguarda tutti gli operatori di questo mercato, è quello dei costi di accesso ai servizi offerti, che sono spesso esorbitanti, tanto che una chiamata con messa in contatto diretta da parte dell’operatore (quando cioè non solo viene fornito il numero di telefono ma anche inoltrata la chiamata) può arrivare a costare anche una decina di Euro.Se aggiungiamo che le offerte di alcuni operatori sono talvolta volutamente poco trasparenti e difficilmente paragonabili tra di loro abbiamo tracciato il quadro di un moderno Far West, pieno di indiani pronti a fare lo scalpo all’incauto consumatore-esploratore.Una novità positiva, almeno per quanto riguarda la chiarezza, e che molto probabilmente sarà progressivamente adottata anche dagli altri operatori, proviene da “Il Numero Italia”, che prima in Italia ha voluto introdurre una tariffa flat da1,8 Euro compresa l’eventuale chiamata urbana o interurbana verso il numero richiesto. La scelta, a detta dell’Amministratore Delegato Giacomo D’Amato, deriva dal venire incontro alle esigenze di molti consumatori, resi ansiosi dal costo degli scatti e dall’impossibilità di sapere preventivamente il costo complessivo della telefonata.Voci ufficiose fanno comunque sapere che l’Authority per le Comunicazioni ha in programma di regolamentare anche questo mercato, stabilendo un prezzo massimo di 30 centesimi per lo scatto alla risposta e di 1 Euro al minuto per il tempo del collegamento.Nel frattempo, per lanciare la nuova tariffa, è cambiato anche lo stile di comunicazione dell’azienda. Nei nuovi spot televisivi infatti assistiamo ad una processione in un paesino del sud, dove il tradizionale santo è stato rimpiazzato dalla nuova offerta, considerata provvidenziale e miracolosa. Riusciranno i due ballerini biondi a fare irruzione anche in questo scenario più tradizionale?L’introduzione di una tariffa flat rappresenta una piccola rivoluzione per questo mercato e sarà sicuramente apprezzata da molti utenti, che potranno finalmente utilizzare il servizio sapendo chiaramente quanto andranno a spendere. Trattandosi di un’offerta molto concorrenziale non dovremo aspettare molto perché anche altri player si allineino, con le loro tariffe, in modo da non finire fuori mercato.Questo si tradurrà inevitabilmente in una contrazione degli ampi margini finora guadagnati sulle telefonate, ma la progressiva sfiducia dei consumatori unita al probabile intervento dell’Authority stanno rendendo necessaria una riorganizzazione di mercato e servizi per un settore che si preannuncia comunque profittevole e quindi meritevole di ulteriori battaglie, a colpi sia di offerte speciali che di campagne promozionali.
Nel variegato mondo del marketing una delle distinzioni più consolidate è quella tra B2C (Business to Consumer) e B2B (Business to Business). Nel primo caso il marketing e la comunicazione sono prevalentemente rivolti ad un pubblico di consumatori, nel secondo invece l’interlocutore principale è un’altra azienda, con tutte le differenze che ne conseguono in termini di modalità di comunicazione, obiettivi e strategie.Il marketing che si concentra sulle aziende è tradizionalmente considerato il fratello minore e meno brillante rispetto a quello che ha come obiettivo il consumatore. Diverse sono infatti le finalità, l’organizzazione e spesso anche i mezzi a disposizione del marketing industriale, che si rivolge nella maggio parte dei casi ad un interlocutore tecnicamente preparato e più interessato alle funzionalità dei prodotti che al fascino del brand o alle suggestioni che questo è in grado di offrire.Queste considerazioni sono però generiche e non si adattano sempre ad una realtà a volte poco esplorata dove molte aziende industriali investono e molto nella percezione del proprio brand e, pur vendendo materie prime o semilavorati, cercano di affermarsi non solo nei confronti dei clienti diretti (quindi altre aziende) ma di suscitare interesse anche nel consumatore che utilizza i prodotti finiti.Un tipico caso di realtà industriale che dimostra una profonda sensibilità di marketing è la BASF. Il colosso chimico tedesco, presente in numerosissimi settori, da tempo ha lanciato una campagna di comunicazione multicanale con il claim“Contributo invisibile. Successo evidente.”, tesa a sottolineare come molti dei prodotti di quotidiano utilizzo siano composti almeno in parte grazie al contributo di BASF.Per celebrare i 75 anni dall’entrata in produzione del polistirene (una resina plastica), l’azienda ha lanciato un gioco on-line, nel quale il visitatore, nei panni di un personaggio denominato Mr. 75 PS (il nome non è il massimo, ma si riferisce al prodotto), doveva aggirarsi tra gli scaffali di un supermercato virtuale e, guardando i diversi tipi di prodotti confezionati, mettere nel carrello solo quelli con l’imballo in polistirene (operazione non eccessivamente complicata per gli addetti ai lavori). Al gioco hanno partecipato oltre 1.380 giocatori di 40 Paesi diversi, per un’iniziativa che ha dato ulteriore visibilità al marchio e dimostrato che l’azienda continua ad investire in tema di comunicazione e ha una certa sensibilità sociali: i 740.000 punti accumulati dai giocatori sono stati trasformati in 37.000 euro che saranno devoluti al un progetto umanitario SOS Children’s Village in Africa.Questa iniziativa di BASF mostra come si possa essere originali e creativi anche in un contesto industriale, unendo alla promozione dei propri prodotti la capacità di divertire e stupire il visitatore abbinando il tutto a un’iniziativa umanitaria che, oltre ad essere apprezzabile di per sé stessa, contribuisce a dare ulteriore visibilità al brand.
Bob Dylan negli anni '70 cantava : The times they are a-changing - i tempi che stanno cambiando, esibendosi in un espressione di puro pleonasmo. Mai verità più assoluta e certa fu pronunciata. Infatti CAMBIARE è nello stato naturale delle cose , del mondo, degli uomini. Tutto scorre, è in divenire: Panta Rei, tutto è un flusso in continua trasformazione sosteneva Eraclito già 500 anni A.C. E il cambiamento coinvolge anche usi, costumi, abitudini, stili di vita e di comportamento con l'evolversi della società, soprattutto della attuale società, cosiddetta della informazione, della comunicazione, dell'immagine. Di pari passo dovrebbero cambiare o meglio innovarsi sia le policy industriali sia le strategie aziendali. Esattamente un anno fa la rivista internazionale di management Business Week salutava il 2004 con una copertina che dava il benvenuto alla "innovation economy". E in effetti il 2005 può essere battezzato come l'anno dell'innovazione. Ma perché innovare? Di certo per stare al passo con le mutazioni dei tempi. Di sicuro non perché è la panacea di tutti i mali, come ostenta ed acclama a gran voce , in puro esercizio di stile, tutta la classe dirigente italiana: dagli economisti agli scienziati ed particolar modo dai politici agli industriali. Gli uni con la tipica impostazione propagandistica che lascia spazio a parole e non ai fatti, gli altri (gli industriali) in funzione apotropaica, per scacciare chissà quali spiriti maligni pervadessero le loro imprese, o come soluzione sommaria a problemi ben più radicati e differenziati, con la ipocrisia di chi non vede la trave nel proprio occhio. I mali nelle aziende e di conseguenza nella economia italiana ci sono, gli spiriti maligni, no!. "Medice cura te ipsum". Il vecchio adagio con cui i nostri padri latini invitavano chi consigliava una cura (appunto il medico) ad adottarla lui per primo, sembra oggi particolarmente appropriata per la nostra classe imprenditoriale e manageriale. Pronta (Luca di Montezemolo in testa) a mettere sul banco degli imputati, per le difficoltà attuali, come al solito, il Governo, di qualunque schieramento esso sia, e un non meglio precisato Sistema Paese. Meno pronta a dare il buon esempio e a rimboccarsi le maniche ( e non nel senso di mettersi più comodo, senza giacca, in ufficio). Ma in Italia innovare fa paura perché non si è mai certi del risultato. Innovare responsabilizza. Assumersi responsabilità non esiste nel dizionario e nelle pratiche quotidiane di molti (non tutti per fortuna) dirigenti nazionali. Li fa tremare per timore di perdere la poltrona acquisita. Invece non si accorgono di perdere una opportunità. Provare per primi una tecnologia, un cambiamento di strategia, di tattica , un prodotto, o un servizio, è come tuffarsi nel vuoto senza rete. Il massimo di concessione alla sperimentazione è fare una area test. Un timido tentativo a costi ridottissimi, per limitare eventuali danni. Una piccola azione mirata e localizzata per altro quasi mai significativa e sicura in proiezione macro. Meglio aspettare che altri, prima di loro, innovino e poi eventualmente copiare. Cavalcare l'onda di un successo, di una moda, di una tendenza, non dà alea. La strada non è in salita, ardua e faticosa, ma in piano, più facilitata. Non tengono conto , questi manager, della prima delle 22 leggi immutabili del marketing che attesta, con la autorevolezza acquisita dalla esperienza ormai storica: "meglio arrivare sul mercato per primi che essere i primi". L'imitazione di iniziative ed il plagio di idee altrui è pratica abitudinaria per i tanti manager o imprenditori che non amano prendere decisioni e non hanno la consapevolezza di dover rispondere degli effetti di azioni proprie. Totò in un suo proverbiale e umoristico paradosso affermava: " A inventare son buoni tutti, è copiare che è difficile". A fargli da contraltare l'illuminante pensiero di Alessandro Morandotti che, nelle sue 'Minime' asseriva: "Imitare è più faticoso che creare".. Investire in creatività comporta sforzi mentali, economici, strutturali. L'innovazione si nutre di tempo, che spesso, nella frenesia contemporanea sembra mancare. Innovare per davvero, è oggi un imperativo categorico per le aziende che desiderano fronteggiare le avversità economiche contingentali e proiettarsi verso un futuro più roseo implementando nuovi business e sviluppando maggiori profitti. Innovare rappresneta una sfida. Innovare è un modo di reagire alla crisi, alla stagnazione, alla inerzia, al passato, al desueto. Innovare è attivare la creatività e perseguire lo sviluppo. Non è semplice. Costa ingegno, fatica, impegno, volontà, perspicacia, dispiego di risorse, ed un approccio mentale positivo e proattivo, nonché di fiducia in se stessi e nel futuro. Ma costa e tanto anche in denaro. Le spese da sostenere per la ricerca e la scoperta sono vissuti non come investimenti ma come puri costi. La carenza di risorse economiche per le piccole e medie imprese e la ritrosia agli investimenti della grandi aziende sono la ragione principale forse della mancanza di innovazione. Innovare significa mettersi in gioco e rischiare. Fatti salvi i soliti noti nei settori moda, auto di lusso, design, arredamento e utomazione, per i quali la creatività e l'innovazione rappresentano la mission stessa aziendale, sono un must imprescindile per competere e segno di qualità ed eccellenza, il resto del panorama produttivo e commerciale nazionale è un arido deserto in fatto di evoluzione e cambiamento. Come sempre la solita dicotomia all'italiana: un made in Italy a due velocità tra nicchie vincenti e potenzialità ancora da esprimere. In Italia ci esaltiamo immediatamente per l'ultima novità tecnologica, seguiamo in massa celermente la moda del momento, per poi tornare, con la stessa rapidità alle nostre quotidiane, rassicuranti, e confortevoli abitudini e tradizioni, ben radicate. Un sistema adottabile da molti manager in particolar modo di marketing (vendite e commerciali) o di comunicazione potrebbe essere quello di tornare a muoversi in prima persona, a battere le strade per stare vicino ai clienti perché il contatto fisico è sempre un atout in più. Per conoscerli meglio, apprendere e comprendere. La conoscenza è potere. L'augurio è che l'innovazione, se pur labile ed ancora latente, nelle tematiche e nelle pratiche di marketing e di comunicazione, nella sperimentazione di tecniche e strategie all'avanguardia, non convenzionali e rivoluzinarie non sia un breve viaggio turistico per esplorare l'ennesima moda manageriale, ma l'effettiva partenza di un lungo percorso della conoscenza impostato sul dinamismo e sull'evoluzione. Per intraprendere fiduciosi la strada dell'innovazione che spinge la continua generazione di nuovi prodotti e servizi per i mercati attuali e per quelli che oggi non ci sono ancora palesi , ma che vivacizzeranno l'economia che verrà. Comunque, per ora, la logica conclusione di tutto ciò è: Tu , politico, scienziato, industriale, chiamale se vuoi innovazioni, io manager, intanto, ci penso!Buone innovazioni.Danilo Arlenghi
Il marketing nella sua storia ha conosciuto diverse fasi, prima come semplice strumento di "spinta" della produzione industriale verso i consumatori e poi gradualmente come metodologia d'analisi ed ascolto del mercato.
Le nuove tecnologie oggi consentono una sempre maggiore interazione con il consumatore, anche in tempo reale, un consumatore che nel frattempo si è fatto sempre più esigente, informato ed anche "infedele" alla marca.
Il marketing one-to-one dunque rappresenta una nuova concezione della disciplina, che ne modifica il punto di partenza tradizionale: lo scopo dell'impresa infatti non è più quello di soddisfare un solo bisogno del più ampio numero di clienti possibile ma il maggior numero di bisogni di uno stesso cliente.
Per fare questo l'impresa deve, in primo luogo, apprendere il maggior numero d'informazioni possibile sul suo cliente ma soprattutto deve essere in grado di ricordarle e di poterle usare di volta in volta per migliorare e personalizzare il servizio.
Facciamo un esempio: un cliente si abbona ad una rivista virtuale, e inizia a riceverla regolarmente: se la rivista riesce a monitorare gli argomenti che interessano maggiormente l'utente con il secondo invio potrà fornirgli una versione personalizzata un po' più vicino alle sue esigenze.
Dal monitoraggio di questo secondo invio si potranno precisare ancora un po' meglio i gusti e le preferenze del cliente e così via, fino a raggiungere un livello considerevole di rispondenza alle necessità del lettore, anzi di quel preciso lettore.
A questo punto potrebbero essere passati alcuni mesi: se una rivista concorrente proponesse un analogo servizio con un prezzo identico o anche un po' più modesto il lettore sarebbe disposto a spendere altri tot mesi per ricreare tutto il processo d'apprendimento?
Probabilmente no, e in questo modo l'azienda che produce la prima rivista si è guadagnata la fedeltà del suo consumatore.
Sapendo tante cose di quest'ipotetico lettore inoltre la rivista potrebbe vendergli altri prodotti coerenti con gli interessi, o vendere spazi pubblicitari sapendo con esattezza chi sarà la persona cui giungeranno.
In sostanza una volta acquisito un consumatore l'impresa one-to-one cercherà di soddisfare il maggior numero dei suoi bisogni, capitalizzando sempre di più le risorse di conoscenza e d'interazione consolidate nel tempo.
Questo paradigma non vale solo per le imprese on-line ma anche per le brick and mortar tradizionali, prendiamo ad esempio una catena di alberghi di lusso: il loro business si concentra sulla soddisfazione massima delle esigenze di chi vi pernotta.
Ora se il fatto che un cliente preferisca un cuscino più duro o una certa bibita nel frigobar è registrato in un data-base condiviso da tutti gli altri hotel della catena esso troverà già realizzata la sua esigenza in qualsiasi altra sua visita in un albergo affiliato, in qualsiasi parte del mondo.
Difficilmente questo cliente passerà senza particolari motivi alla concorrenza.
Infine fare marketing one to one è vantaggioso anche nell’invio di comunicazioni e mailing, in quanto sia l'azienda che i clienti ne hanno vantaggi.
LINKS UTILI
Siti di riferimento sul marketing one to one
www.1to1.com
Il parere dei più piccoli influenza in maniera sostanziale le scelte dei genitori nel momento in cui la famiglia decide di cambiare macchina.Questo aspetto deve essere ben chiaro a qualche esperto di marketing tailandese, che ha convinto la BMW a consentire il download di 16 modellini di macchina (ovviamente BMW) direttamente dal sito. Al piccolo futuro consumatore non rimane quindi che ritagliare la sagoma e preferita e iniziare la collezione.Bella azione di promozione del brand, chissà se funziona anche a livello subliminale, per cui al compimento del diciottesimo anno di età questi baby visitatori si troveranno come trasportati in qualche concessionario per una prova su strada.
Spesso la definizione di “vendita” è stata ricondotta alla pura e semplice percezione che di essa si è avuta nel tempo (e.g. piazzare i prodotti, l’insieme delle tecniche per indurre all’acquisto, convincere della bontà di un prodotto e così via) e meno all’aspetto “emozionale” insito nel suo dinamismo.Risulta particolarmente interessante, a tal proposito, un articolo apparso sul mensile americano “Industrial Distribution” dal titolo “The emotional side of selling”(Reilly, T., Industrial Distribution, July 01, 2004). La lettura di questo breve scritto induce ad una riflessione: della vendita si possono fornire svariate definizioni, più o meno tecniche, più o meno teoriche, tuttavia “l’aspetto emozionale, passionale” della vendita è quello che dovrebbe motivare i sempre e comunque i professionisti coinvolti.E’ facile concordare con l’autore dell’articolo citato quando afferma che “la vendita non è una scienza esatta come la chimica o la biologia, essa è per una parte scienza, per una parte arte, per una parte fortuna e per una grossa parte emozione”.Se da un lato è da ritenersi auspicabile una maggiore attenzione da parte delle aziende alla valutazione delle “behavioural performance” intese come l’insieme dei risultati derivanti dai comportamenti pro-attivi (inputs: e.g. qualità personali, attività, strategia di vendita) del venditore e che consentono una vendita efficace (outputs). (cfr. Oliver, R.,L., Anderson, E., “An Empirical Test of the Consequences of Behavior-and Outcome-Based Sales Control Systems, Journal of Marketing, Volume 58, No. 4, Oct. 1994, pp. 53-67) dall’altro è altrettanto importante considerare che tali attitudini comportano un coinvolgimento emotivo: l’orgoglio per i risultati, la delusione per i mancati obiettivi, la frustrazione, l’emulazione e così via. Il bagaglio “emozionale” dell’attività di vendita gioca quindi un ruolo importante.Tuttavia la sola “passione” e l’entusiasmo non sono sufficienti a consentire una buona attività di vendita ovvero una vendita efficace.“La vendita è un’attività umana che richiede una conoscenza esperienziale oltre che teorica”, afferma M. Chiesura nel suo libro “Il venditore Knowledge worker” (Chiesura, M., “Il venditore knowledge worker”, seconda edizione, Franco Angeli Ed., Milano, 2002, p. 9)L’esperienza maturata su campo, la conoscenza delle tecniche, la capacità di comprendere i bisogni dei clienti, l’orientamento alla loro soddisfazione, la capacità di fornire soluzioni e consulenza ai clienti, sono alcuni dei fattori caratterizzanti una buona “vendita”. Ma basta questo a garantire che essa si “perfezioni” esattamente tutte le volte che un’organizzazione preposta a farlo si ponga tale obiettivo in termini numerici? Ovvero è sufficiente affinché “in un dato contesto economico, in un certo scenario competitivo, un dato prodotto o servizio passino da un soggetto ad un altro dietro controvalore monetario, traendo entrambi soddisfazione e benefici economici da tale passaggio?”Se la risposta è positiva si potrebbe dunque giungere alla conclusione che “la vendita” sia l’insieme delle attività inserite in un contesto emotivamente e costantemente coinvolgente per il venditore, volte a:- identificare compratori qualificati che vogliano acquistare determinati beni o servizi attraverso un processo di determinazione dei bisogni e delle esigenze dei clienti - trovare un accordo nella proposta che soddisfi tale esigenze in maniera profittevole per entrambe le parti- instaurare un rapporto di fiducia su basi solide e durature con i clienti aiutandoli a trovare soluzioni, - intessere e mantenere relazioni di lunga durata basate su tale rapporto di fiducia.Antonia SantopietroBusiness World
L'imperativo categorico per le imprese del terzo millennio è comunicare sempre e bene. Meglio se in modo innovativo ed efficace per seguire ed assecondare le evoluzioni dello scenario sociale e commerciale: mutano i consumatori, i loro bisogni ed i loro desideri, le loro abitudini d'acquisto, gli stili di vita, i prodotti ed i servizi stessi, i punti vendita, le logistiche della distribuzione,etc... e di conseguenza i metodi di approccio, i contenuti e le tecniche di comunicazione e di marketing. Una risposta positiva , proattiva e funzionale a questi cambiamenti sono gli eventi. L'evento è assurto oggi a mezzo vero e proprio di comunicazione e principe tra gli strumenti del marketing moderno. L'evento ha registrato, soprattutto nell'ultimo quinquiennio, una tendenza iperbolica (all'insù). E' un reale boom che tocca ogni sua declinazione: eventi comunicazionali, eventi commerciali, eventi promozionali. Ne sono testimone io in quanto attore protagonista di questo settore. Mi occupo di eventi da circa trent'anni e sebbene nel passato (anche recente) abbia cavalcato onde positive, mai come in questo periodo ho visto un trend così elevato e destinato a perdurare nel futuro. Ma una certificazione ufficiale ed una testimonianza ben più autorevole della mia ci vengono offerte dal Primo Monitor sul Mercato degli Eventi in Italia, presentato Giovedì scorso, e realizzato dall'Istituto di Ricerche Astra , per conto di ADC ( Agenzia della Comunicazioe editore della rivista specializzata e20). Salvatore Sagone editore della rivista conferma: " Ci troviamo di fronte a un mercato in grande crescita, difficilmente riscontrabile non solo presso gli altri comparti della comunicazione, ma presso gli altri mercati di beni e servizi." e continua " Superato il limite di una distinzione tra above e below the line, la comunicazione contemporanea parla di contaminazione, fusione, di strumenti e mezzi, ma sopratutto di 'esperienza'. L'evento è sicuramente il mezzo che meglio risponde a tale evoluzione. Nella sua tridimensionalità, infatti, coerentemente unisce messaggi, a spazi e luoghi, in una logica interattiva". Gli fa eco il Prof. Enrico Finzi responsabile dell'indagine effettuata su un campione di 302 manager: "Nell'ultimo anno ben il 39% degli intervistati ha incrementato del 40% il proprio impegno sul fronte degli eventi di comunicazione, mercato che oggi vale 960 milioni di euro, circa il 55% del totale degli impieghi in Relazioni Pubbliche. Certamente un dato sorprendente, reso ancora più forte dalle stime del suo divenire, che parlano di una crescita nell'ordine del 30% nei prossimi due anni, raggiungendo i 1.250 milioni di euro". In sintesi, il mercato degli eventi è in crescita per tre significativi motivi: 1°)per l'ingresso di nuovi players ( sia grandi aziende, sia società medio-piccole grazie all'accessibilità economica ed al ritorno immediato), 2°) perché gli utilizzatori esistenti investono di più, 3°) perché chi fa eventi incrementa la loro quantità e quantità articolandoli nelle diverse categorie. Ma perchè 'fare ' eventi? Semplice, essi rappresentano: - una valida alternativa ai mezzi tradizionali, che segnano una certa 'stanchezza' soprattutto nell'advertising classico - una funzionalità al business dal momento poiche ad essi corrispondono risultati concreti - una occasione per trasferire valori, benefit, promesse e comunicare la mission ed il management aziendale - una opportunità di conoscere de visu i propri clienti, acquirenti o consumatori creando un contatto diretto prodromo di successive relazioni - un mezzo per lasciare in chi vi partecipa una traccia profonda, ovvero un indelebile ricordo o una forte emozione - una possibilità di far vivere il brand 'in diretta' - un collettore di pubblici differenti, in una unica occasione, per trasmettere messaggi mirati - una modalità per contattare nicchie e segmenti di mercato altrimenti difficili da raggiungere - un momento per acquisire lustro istituzionale e migliorare l'immagine di un prodotto con i valori espressi dall’evento stesso - un contenitore efficiente e pratico per realizzare contemporaneamente azioni di P.R, iniziative promozionali e di merchandising, sondaggi e test quali-quantitativi - un modo innovativo di sovvertire le regole stantie del marketing e del commercio obsoleto: ossia, portare il prodotto dal consumatore e non viceversa L'evento è infatti un mezzo ed al tempo stesso uno strumento duttile, malleabile, poliedrico, interattivo, empatico, funzionale, locale e non invasivo. Se di qualità genera simpatia, divertimento, stupore, memorabilità ed amicizia sia con il brand sia con l'azienda nel suo insieme. Si profila perciò all'orizzonte una nuova figura professionale: l'event manager, sempre più utilizzato nelle imprese e nelle agenzie, perchè utile e strategico. Dunque se ne sentirà sempre più parlare e lo si avrà sempre più come interlocutore privilegiato. I giovani , che per altro , sembrano fiutare da soli il trend ascensionale degli eventi , affollando come non mai i corsi universitari ed i master post laurea del settore, nonchè richiedendo stage o posti di lavoro specifici alle società, sono ampliamente avvertiti. Osservato e catalizzato quanto sopra, orbene, è lecita, attuale, utile, funzionale, concreta, etc,la domanda: 'Dove vai (caro manager) se l'evento non lo fai ?'
Danilo Arlenghi
Segnalo questo interessante articolo di Roberto Venturini, che analizza i rapporti tra internet e ciclo di acquisto.Io credo che molte aziende continuino a sottovalutare ( a non capire) quanto sia pesante Internet come fattore influenzante il funzionamento del ciclo d'acquisto (per chi volesse approfondire, linko questo mio articolo sul tema).Sempre più consumatori si documentano in Rete prima di prendere una decisione d'acquisto (o prima di iniziare il rituale giro di negozi). Anche se solo una minoranza ricorre all'ecommerce, molti potenziali acquirenti arrivano sul Punto Vendita con decisioni praticamente già prese - se non addirittura con una stampata della pagina web relativa all'articolo che hanno deciso (in Rete) di acquistare.Utenti più formati e che pongono il negozio di fronte alla necessità di interrogarsi su come evolvere per il futuro.Utenti che arrivano in negozio con le idee chiare, e che spesso fanno a meno della funzione consulenziale del personale di vendita; clienti quindi meno influenzabili e orientabili verso quei prodotti che il negozio potrebbe avere maggiore interesse a vendere.D'altra parte, se il negozio si trasformasse in un luogo in cui si va a "ritirare" fisicamente un prodotto la cui decisione d'acquisto è stata presa altrove, la stessa natura del negozio cambierebbe; riducendo la necessità di avere certi livelli qualitativi e quantitativi di staff in grado di servire il pubblico, potendosi limitare alla presenza di operatori il cui scopo principale è di “consegnare” al consumatore il prodotto che chiede.continua sul sito di Roberto
Tag: internet, web, commercio, e-commerce
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