Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Hulu, il servizio internet statunitense di video on demand, si rivela uno dei canali più prolifici e adatti per la pubblicità. Secondo i dati raccolti da comScore, nel mese di giugno Hulu è stato il canale video con il numero più alto di annunci visionati dagli utenti.
Il sito ha generato 566 milioni di clic su filmati promozionali, più del doppio dei contatti generati dai siti Microsoft (222 milioni).
La pubblicità video, lo scorso mese, ha raggiunto il 46,1% della popolazione statunitense, con una media di un filmato al giorno per ciascun cittadino. Hulu ha contribuito da par suo, raggiungendo con i propri video il 7,8% della popolazione d’Oltreoceano.
Via Quo Media
In questi giorni ho letto parecchie news interessanti, che mi hanno ispirato questo breve post, che vuole guardare un po’ al futuro.
Un primo argomento di interesse è legato al tema del cloud computing, di cui ho parlato qualche tempo fa: un esempio abbastanza eclatante è dato dall’annuncio di Microsoft che mette in rete una parte del suo gioiello Office, per competere con Google Docs.
immagine tratta da http://www.sis.pitt.edu/
Gli ambienti collaborativi online sono ormai sempre più numerosi, nella mia personale esperienza tra software saas e servizi come social bookmarks, strumenti di video conferenza, Google Docs/Calendar etc. non noto quasi nessuna differenza tra un pc e l’altro su cui posso trovarmi a lavorare.
Dal punto di vista macroeconomico su questa tendenza influiscono molto i fenomeni descritti da Chris Anderson in “Gratis”: banda sempre più larga e storage sempre più economico.
A questo punto, stando anche ai pareri di diversi analisti, con l’avvento definitivo dello standard LTE il mondo del Cloud sarà realmente accessibile anche dai cellulari, e qui arriviamo al secondo tema: lo sviluppo del mobile e dei dispositivi sempre connessi.
Immaginatevi di avere tutti i vostri servizi e software pronti ad essere fruiti in qualsiasi momento dal vostro cellulare: non sarebbe niente male no?
Che cosa ci blocca? Secondo me, a parte la tecnologia di trasmissione dati, i limiti risiedono ancora nella frammentazione dei vari sistemi operativi, cui si collegano diversi limiti di standard che in paesi più evoluti, come il Giappone, non si verificano (si pensi ai QR code).
Inoltre nel nostro paese si fa molta comunicazione alle promozioni tariffarie ma poco si lavora sull’informazione agli utenti, che ancora conoscono solo una minima parte delle opportunità offerte dal loro dispositivo mobile (anche se 10 milioni di utenti a gennaio si sono collegati al web in mobilità).
Voi che cosa ne pensate? Tra quanto saremo pienamente fra le nuvole, anche con il cellulare?
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
Ci sono elementi molto positivi nella relazione al Parlamento del presidente dell'Autorità per le comunicazioni, Corrado Calabrò. Restano alcune rimozioni o sottovalutazioni che riguardano le cause dei fenomeni oggetto dell'analisi della relazione annuale. Cominciamo dall'analisi inconfutabile sui ritardi dell'Italia: siamo ai primi posti in Europa a livello di prezzi dei servizi e della concorrenza nella telefonia, ma siamo ben sotto la media Ue per: diffusione della banda larga, numero delle famiglie connesse a Internet, diffusione degli acquisti on line.
Siamo il fanalino di coda nel commercio e nei servizi elettronici. Molteplici fattori influiscono sulla domanda: Calabrò ne elenca diversi, tra cui la scarsa sostituibilità tra televisore e Internet, la diffusione stentata di Internet nelle fasce di età over 50, la paura di truffe telematiche e così via. Tutto vero. Uno dei problemi-chiave, però, è quello dei contenuti che dovrebbero attivare la crescita del Web, della tv mobile e quindi della domanda di banda larga. Contenuti spesso disponibili solo a caro prezzo, con relativa crescita della pirateria.
Capitolo media: dove, cioè, si producono i contenuti per le reti e le piattaforme, a parte quelli realizzati direttamente dagli utenti. Calabrò rileva come l'ascolto digitale su tutte le piattaforme (terrestre, satellite, cavo) ha superato quello della tv analogica. La digitalizzazione può essere completata nel 2011, aggiunge Calabrò, che preferisce non tener conto della richiesta di rinvio avanzata dalle principali associazioni delle tv locali nel Nord Italia. Il processo può rallentare ma la transizione è obbligata. Strano, piuttosto, non rimarcare alcuni effetti del modello italiano nelle sei regioni già digitali, soprattutto nel Lazio e in Campania, ma anche in Sardegna, con il drastico calo di ascolto delle principali emittenti locali.
A livello di risorse, «non vi è stato lo spostamento dalla tv tradizionale a Internet rispetto ad altri paesi». Non si spiega perchè questo avvenga in Italia. Rai e Mediaset, entrambe strettamente collegate al sistema politico, «conservano quote di ascolti ancora assai rilevanti sulle quali l'avvento della pay tv sta incidendo lentamente». Il problema è la concentrazione delle risorse (economiche, di diritti di trasmissione, di reti distributive integrate verticalmente). Senza un'analisi di questo fenomeno, a che serve la giusta reprimenda alle tv locali sui monoscopi o sui programmi ripetuti, che ci sorbiamo noi cittadini delle "felici" regioni digitali?
L'approvazione del Piano delle frequenza andava fatta. Fa bene Calabrò a rivendicarlo, segnalando che esso consente, tra l'altro, di liberare nove canali tv da destinare alla banda larga, come richiede l'Europa, altrimenti «la rete mobile rischia il collasso». Giusto e importante che questo sia riaffermato nella relazione, anche se le tv locali, che si vedono assegnare i canali dal 61 al 69 dal Piano Agcom preparino ricorsi e controricorsi sull'intera impalcatura del Piano stesso, con incognite sui tempi della sua attuazione. Possibile non ipotizzare misure asimmetriche a favore degli operatori più deboli e dei nuovi entranti nel sistema tv?
I problemi di fondo nell'industria dei contenuti sono due: la concentrazione, che riduce la concorrenza a scapito degli editori minori, dei produttori indipendenti e dei proprietari degli eventi. E la carenza di pluralismo scaturita da questo assetto. «L'accesso senza discriminazioni ai mezzi d'informazione delle forze politiche e sociali va tutelato, specialmente in un sistema concentrato come quello italiano» afferma Calabrò. Ha ancora una volta ragione. Evita di aggiungere i dati rilevati per conto di Agcom sul pluralismo politico nei Tg e nei programmi extra-Tg. Che dimostrano un pluralismo ridotto ai minimi termini. Bene, infine, il richiamo di Calabrò a svincolare la governance della Rai da dai partiti: sperando che, come accade da un ventennio, non resti lettera morta.
di Marco Mele su ILSOLE24ORE.COM
Sul social media marketing ormai si discute ovunque in rete, almeno fra tutti coloro che sono addetti ai lavori.
Sono molto meno convinto invece che questo dibattito arrivi alle orecchie delle piccole e medie imprese, che sono impegnate nel lavoro di tutti i giorni e non possono disporre di un reparto marketing strutturato (condizione per altro non sufficiente per una strategia sul web sociale).
Come discusso in un post precedente temo poi che gli esperti di settore, già raramente in contatto con questo target, non parlino una lingua concreta e comprensibile all’imprenditore qualora le due parti si confrontino.
Ma le pmi dovrebbero fare social media marketing? E se lo possono permettere?
Sul fatto di doverlo fare direi proprio di sì: il mercato online offre grandi opportunità e limita notevolmente le differenze tra grandi e piccoli, dato che “gli iperlink sovvertono le gerarchie” (Cluetrain Manifesto). Inoltre il non esserci non equivale a non subire critiche, che anzi in caso di assenza non si è pronti ad affrontare, con gravi danni alla propria immagine.
Ecco dunque qualche consiglio, che traggo da una mia presentazione di pochi giorni fa:
a) ascoltate tanto, con tool dedicati o anche con strumenti più semplici e gratuiti
b) scegliete uno o due tipi di social media e coltivate la relazione, senza voler essere ovunque
c) non delegate questo lavoro agli stagisti, è un aspetto strategico
d) fatevi consigliare dagli esperti ma non delegate a loro il lavoro, dovete essere voi i protagonisti.
Il social media marketing di fatto è un lavoro di pazienza, attenzione e strategia, dove la principale risorsa economica è il tempo, non il denaro cash.
Per questo può essere alla portata di chi fa il proprio lavoro con passione e competenza, in prima linea, e forse diventa perfino più facile metterci la propria faccia quando non si è nascosti dentro una direzione marketing numerosa.
Parliamo infatti di rapporti personali e di umanizzazione dell’entità azienda, che diventa persona, e l’imprenditore italiano in questo potrebbe essere davvero protagonista, con la sua storia e le sue passioni.
Certo, ci vuole tempo, confidenza con il mezzo e qualche buon consiglio ma credo sia un investimento che valga la pena di intraprendere. In fondo non si tratta di esserci o non esserci, ma di vivere da protagonisti il social web invece che subirlo, sfruttando la sua forza a proprio favore (in questo senso leggetevi il capitolo 2 di “L’onda anomala”).
Voi che ne dite
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
Concordano nell’importanza del canale, e lo monitorano da vicino, ma raramente decidono di sfruttarne tutte le potenzialità. E dunque sì ad e-mail promozionali, limitato l’uso dei social network.
È ciò che emerge da una ricerca commissionata da Webtrends e condotta in cinque Paesi, Italia inclusa.
Il 79% delle imprese analizza il traffico Internet, ma solo il 30% agisce di conseguenza, ovvero utilizza i dati rilevati per intraprendere azioni concrete. È quanto emerge da un’indagine effettuata nel 2008 da WebTrends, società specializzata in web analytics e marketing intelligence, in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Svezia e Australia su un campione di 300 aziende di diversi settori (50 in Italia) con oltre 250 dipendenti.
La precedente indagine del 2006 (che però non comprendeva l’Italia) rifletteva la fiducia degli intervistati (i responsabili marketing delle aziende) in un’economia in crescita, dove alcune debolezze a livello di analisi e azione da parte delle aziende erano bilanciate da buoni risultati di business. Ora lo studio ha evidenziato un clima decisamente meno positivo.
Il che non significa fuga dal web, anzi. Nel 2008, il 17% dell’investimento marketing globale è stato destinato al marketing online (è il 16% in Italia, e sale al 20% in Regno Unito e Australia mentre all’ultimo posto per investimenti c’è la Francia, con il 12%).
Le aziende che hanno investito di più sono quelle specializzate in media e marketing (17,6%), seguite dal settore pubblico e dei servizi (entrambe al 17%) e dalle imprese che operano nel campo dell’ospitalità e del tempo libero (14%). Inoltre, il budget destinato al marketing online è cresciuto per il 30% delle aziende intervistate ed è rimasto invariato per il 43%.
Numeri importanti, se si considera che nel 2006 la maggior parte delle aziende di Regno Unito, Francia e Germania (42%) aveva investito nel marketing online meno del 10% del budget di marketing complessivo. E il 27% degli intervistati considera l’Internet marketing come uno strumento utile per vincere le sfide poste dall’attuale crisi economica.
In aumento sembra piuttosto l’esigenza di migliorare la redditività degli investimenti online, in modo da assumere decisioni più informate e incrementare le vendite (un’esigenza sentita dal 65% degli intervistati).
La paura corre sulla banda larga? Detto fatto, il 79% delle imprese interpellate cattura e monitora tutti gli aspetti del traffico sui siti web, ma solo il 50% monitora i dati dei clienti generati da Internet.
La cultura dell’osservazione insomma sembra essere più diffusa rispetto a quella dell’apprendimento, e sono ancora poche le aziende che adottano misure concrete sulla base di tali analisi.
Solo il 42% infatti modifica spesso i contenuti basandosi sull’analisi del comportamento degli utenti e appena il 30% modifica il sito in base all’analisi del traffico. Gli strumenti di web analytics insomma sono ancora poco utilizzati o non sfruttati al massimo del loro potenziale (in Italia, solo il 20% delle aziende intervistate dichiara di utilizzarli sempre). Spesso manca una strategia precisa per il loro utilizzo, e le aziende si affidano ancora a software rudimentali con un basso livello di automazione.
Forse si investono poche risorse perché l’investimento online è percepito come più rischioso rispetto a quello tradizionale, a causa di una più difficile previsione dei risultati e di più elevate possibilità di fallimento. È così per il 47% degli intervistati (54% in Italia), mentre solo il 25% (12% in Italia) è del parere che i rischi siano inferiori.
Altro problema rilevato dagli esperti di marketing interpellati è la complessità di integrare il lavoro di marketing online e offline in modo che tali attività siano l’una il complemento dell’altra, anziché ostacolarsi a vicenda. Le principali difficoltà riguardano i cambiamenti dei processi di business (53%) e la gestione della risposta e della domanda dei clienti (38%).
Pochi investono nel web 2.0 L’evoluzione vissuta dal marketing online negli ultimi anni è in gran parte dovuta all’avvento dei social media. Eppure gli strumenti più utilizzati dalle aziende appartengono ancora alla “vecchia guardia” di internet: e-mail marketing, pubblicità online, web analytics e SEO (search engine marketing) la fanno tuttora da padrone, mentre il ricorso ai social media è sporadico. I dati indicano che blog, marketing virale, podcast e Twitter, sebbene sempre più utilizzati dai consumatori, non sono ancora stati presi in considerazione dalle aziende come strumenti di comunicazione o comunque sono sfruttati al minimo delle loro potenzialità.
Via Marketing Journal
Una percentuale che farebbe riflettere persino Marshall Mcluhan, il massmediologo divenuto celebre per l'espressione "Il medium è il messaggio", con cui indicò che i contenuti sono secondari rispetto al mezzo attraverso cui sono veicolati. Chissà cosa direbbe o profetizzerebbe ora lo studioso canadese dinanzi ai dati diffusi da Pew Internet & American Life Project secondo cui la percentuale degli statunitensi adulti (dai 18 anni in su) che guardano la tv via Internet o scaricano video dalla rete ha raggiunto una quota del 52%. Sale al 69% se tra gli adulti si considerano solo quelli che navigano.
Si osserva la tv dal pc in particolare per vedere commedie (si è passati dal 31% nel 2007 al 50% attuale), video educational (dal 22 al 38%), film o spettacoli televisivi (dal 16 al 32%), video politici (dal 15% al 30%).
Come mai? Questa impennata dei pc-teleascoltatori è dovuta - si apprende leggendo l'indagine dell'istituto di ricerche statunintense - alla crescita della diffusione della banda larga e, in particolare, dal forte appeal che i social network - come Facebook e Twitter - e la videocommunity YouTube esercitano nei confronti degli utenti del web. Molti video e filmati, infatti, sono veicolati attraverso queste agorà elettroniche.
Sette su 10 guardano video. Ma quanti sono quelli che, dall'altra sponda del web, caricano video online? Secondo Pew Internet & American Life Project attualmente la quota di uploaders di video si attesta al 14% dei naviganti adulti americani, quasi il doppio rispetto a due anni fa (8%).
di Vito Lops su ILSOLE24ORE.COM
Le connessioni alla banda larga su rete fissa sono diffuse nelle case di oltre 10 milioni di famiglie e si registra una crescita significativa del numero degli internauti: a febbraio 2010 si sono connessi al web (a casa o al lavoro su linea fissa) oltre 33 milioni (+14,2%) di italiani.
E’ quanto emerso dal Rapporto e-Content 2010, curato dall’Ufficio studi di Confindustria servizi innovativi e tecnologici. A febbraio 2010, gli utenti attivi online hanno sfiorato i 23 milioni (+13%). Internet viene usato quotidianamente da una media di 11,8 milioni di persone (+17%). Il web-surfer quotidiano tipo ha un’età compresa tra i 25 e i 54 anni (68% delle persone attive nel giorno medio), anche se negli ultimi mesi sono cresciuti del 28% i navigatori over 55, con punte del 65% per gli over 74. Nel Mezzogiorno si registra un certo ritardo rispetto al resto dello Stivale: la percentuale di utenti attivi quotidianamente connessi al Sud è appena del 18,4% sul totale della popolazione dell’area, contro il 25% del Nord-Ovest e il 225 del Nord-Est e del Centro.
Via Quo Media
Qualche giorno fa i media hanno dato grande spazio al Quit Facebook Day, nel quale le persone avrebbero dovuto lasciare in massa il più grande e famoso social network del mondo per protestare contro le sue politiche privacy.
E’ stato un flop, con poco più di 30.000 cancellazioni su 400 milioni (!), mentre Zuckerberg si affrettava a modificare le policy del suo gigante.
La vicenda è comunque interessante perché testimonia ancora una volta la confusione che regna sui temi privacy sul web: ho sentito dai telegiornali nazionali frasi del tipo “i social network rivelano dati sensibili, come ad esempio l’appartenenza politica”. Avete mai visto un social network che chiede come dato obbligatorio la dichiarazione di voto o che ti costringe a caricare le foto della tua ultima sbornia?
Chiariamoci subito, il problema della tutela dei dati personali è reale, e ogni sito che ne detenga deve renderci facile e trasparente la loro gestione, condivisione e cancellazione.
Detto questo però la nostra responsabilità personale resta cruciale, dobbiamo capire che ciò che carichiamo online è di fatto di dominio pubblico, soprattutto se non impariamo a distinguere tra messaggi privati tra amici e pubblicazioni su bacheche visibili a tutti.
Mi sembra dunque urgente e fondamentale una campagna di educazione degli utenti, tema di cui ho già parlato a proposito del Safer Internet Day. In più, se usiamo il web per lavoro, dobbiamo essere attenti e intelligenti nel creare una nostra identità online.
Io purtroppo vedo ancora tanta ignoranza, gonfiata dagli strafalcioni dei media, e voi che cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
Protagonista del più grande disastro ecologico della storia americana, la British Petroleum (BP) sembra interessata a ripulire più la propria immagine che la marea nera provocata dal pozzo nel Golfo del Messico. La multinazionale petrolifera ha infatti acquistato su Google e Yahoo! diverse parole chiave per influenzare le ricerche degli utenti relative alla catastrofe ambientale. In particolare, gli sforzi profusi dalla BP (a suon di dollari) sui motori di ricerca hanno l’obiettivo di “dirottare” i navigatori su una pagina del proprio sito internet che tenta di fornire un’immagine positiva e responsabile del colosso degli idrocarburi.
Del resto, escludendo i risultati a pagamento, il 95% dei risultati delle ricerche fornisce notizie decisamente negative sulla BP; ad esempio, ricercando la frase “BP oil spill” su Google si ottiene una lunga lista di link a pagine web che sottolineano il cinismo della società, fra cui alcuni filmati su YouTube sull’impatto della marea nera sull’ambiente e l’ecosistema.
La preoccupazione dei vertici della compagnia pertrolifera riguardo ai motori di ricerca è giustificata dal fatto che sono moltissimi i navigatori che, colpiti dalle dimensioni del disastro, cercano costantemente sul web notizie in tempo reale, report e filmati sulle dimensioni della marea nera e sui tentativi di contenerla. Ovviamente, gli utenti non sono obbligati a cliccare sui risultati a pagamento, opportunamente evidenziati da Google e Yahoo!, tuttavia sono in molti a pensare che BP stia cercando in tutti i modi di “dirottare” altrove l’attenzione di quanti cercano informazioni sulla tragedia del Golfo del Messico. D’altra parte, l’acquisto di chiavi di ricerca è una degli investimenti di marketing in grado di generare i ritorni più veloci: logico, quindi, che BP abbia scelto questa strada per cercare di arginare i danni alla propria immagine in piena emergenza.
Via Marketing Journal
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