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  mymarketing.it: l'isola nell'oceano del marketing... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Altri Autori (del 25/08/2014 @ 07:10:41, in Mobile, linkato 1332 volte)

Facebook, infatti, è di gran lunga l’applicazione superiore, con 115,4 milioni di visitatori unici nel mese di giugno ma è Google nel complesso l’azienda che vanta il maggior numero di app nelle posizioni top della classifica: con YouTube, Google Play, Google Search, Google Maps e Gmail presenti nelle prime 10 posizioni della classifica. Bene anche Pandora (mentre la rivale Spotify non è nella top 25), al quinto posto, mentre Microsoft è rappresentata solo da Skype al numero 22.

Non ci sono giochi in top 25 ma non è un errore: secondo Andrew Lipsman di ComScore afferma che molti giochi hanno un grande pubblico, ma si “fermano” a 10 milioni di visitatori unici, probabilmente perché i giochi tendono ad avere un picco in popolarità e poi a decrescere mentre app come Facebook e Google tendono a restare stabili. Netflix è l’applicazione top tra quelle che richiedono un abbonamento.

La ricerca fa anche il punto sul mercato delle app in America verificando che il tempo totale trascorso in Usa sui media digitali è salito del 24% nell’ultimo anno, guidato da un aumento nell’uso delle app mobile, che è aumentato del 52%. Il desktop registra una minima crescita dell’1%. Le applicazioni guidano la stragrande maggioranza delle attività di consumo dei media su dispositivi mobili: gli smartphone registrano una leggera più alta percentuale di attività sulle app: 88% rispetto all’82% su tablet.

Per quanto riguarda le abitudini d’uso legate alle app, più di un terzo di tutti i possessori di smartphone scaricano almeno una app al mese. Gli americani dimostrano anche di avere difficoltà a staccarsi dai loro device con la stragrande maggioranza dei consumatori che usano applicazioni sul smartphone e tablet quasi ogni giorno. Più della metà (57 %) degli utenti di smartphone accede alle sue app ogni singolo giorno del mese, mentre solo il 26% degli utenti di tablet fa la stessa cosa. Il 79% degli utenti di smartphone accede alle app almeno 26 giorni al mese, contro il 52% dei possessori di tablet.

Sul fronte piattaforme Android si classifica come il sistema operativo top per smartphone con 83,8 milioni  di utenti, circa 16,4 milioni di più dell’iOS di Apple ma, a causa dell’ecosistema frammentato di Android quanto a produttori di apparecchiature originali (OEM), è la casa di Cupertino a rimane il più grande produttore di apparecchiature originali (OEM).  Da un punto di vista demografico il 43%  degli utenti di iPhone sono di età compresa tra 18-34  rispetto al 39% degli utenti di telefoni Android. Inoltre, il 57% dei  gli utenti iPad sono sotto di 45 anni rispetto al 53% degli utenti di tablet Android.

La maggioranza delle app consultate rientrano nella categoria dei social network, ai giochi e al mondo della musica che, insieme, coprono quasi la metà del tempo totale speso sulle app mobili. Tale “peso” evidenzia che i dispositivi mobili sono più pesantemente utilizzati per l’intrattenimento e la comunicazione delle loro controparti desktop. Una curiosità: gli utenti iPhone spendono una quota maggiore del loro tempo sul consumo dei media, con Notizie Generali, radio, foto, Social Networking e Meteo mentre gli utenti Android spendono una quota maggiore del loro tempo nella ricerca e-mail.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 26/08/2014 @ 07:06:42, in Strategie, linkato 1615 volte)

Nell’era digitale la nostra navigazione on line è lo specchio dei nostri gusti e delle nostre opinioni, compresi gli orientamenti politici, religiosi e sessuali: il tutto, come noto, ad uso e abuso degli utilizzatori silenziosi di questi dati a scopo pubblictario, come Facebook, Google etc. Adesso però la tecnologia sta cominciando a rivendicare il controllo di qualcosa di più profondo: la nostra personalità e le nostre emozioni.

Così, per esempio, in Gran Bretagna alcune startup tecnologiche sono già andate lontano nello sviluppare applicazioni che leggono i nostri stati d’animo e le nostre tendenze, per poi interpretare questi dati e rielaborarli in un logaritmo che consente loro di conoscerci meglio: come persone in generale, ma più in specifico come consumatori, come candidati per un posto di lavoro e così via.

Siamo nel mondo dello “psytech”, quello in cui la psicologia sposa la tecnologia del big data. La startup londinese VisualDna, per esempio, ha sviluppato dei test psicometrici: bisogna scegliere tra una serie di immagini per far emergere qualcosa di più, in positivo, sulla nostra vera personalità. Il modello di VisualDna parte da quelli che in psicologia vengono chiamati i Big Five (apertura mentale, coscienziosità, estroversione, amicalità e stabilità emotiva) associati ad altri indicatori specifici per i diversi clienti. «Capire il comportamento e le potenzialità delle persone attraverso un logaritmo è ciò che fa girare Internet. Quello delle ricerche di mercato è un business da 40 miliardi di dollari. Al momento però l’ecosistema digitale è sbilanciato a svantaggio dei consumatori che vengono studiati di soppiatto. Noi pensiamo che ci sia molto più valore nell’arrivare alle informazioni attraverso la porta principale: è una scelta consenziente dei nostri utenti fare i test visivi, digitalizzare i propri dati per assumerne il controllo ed ottenerne benefici», spiega Alex Willcock, fondatore e amministratore delegato di VisualDna.
VEDI ANCHE:
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Cosa dicono di noi i nostri “like”

Lo Psycometric Centre dell’Università di Cambridge rivela com’è facile individuare e definire, attraverso i social network, non solo 
la nostra personalità ma anche quella dei nostri amici

Se ci conoscessimo più a fondo, potremmo ad esempio sapere quali sono i prodotti, i luoghi, i servizi i film e le letture che fanno per noi, evitandoci gli acquisti sbagliati; ma ci sono casi in cui farci conoscere dagli altri per quel che veramente siamo potrebbe cambiarci la vita, soprattutto se stiamo cercando un lavoro o vogliamo ottenere un prestito bancario. Attraverso i test di credit-risk, infatti, persone escluse da un mutuo possono ribaltare il giudizio negativo dell’agenzia di credito ed avere l’opportunità di crearsi il proprio business. «Nel settore del rischio creditizio abbiamo già 100 mila profili. Rispetto ai test tradizionali usati dalle banche, la nostra metodologia ha ottenuto un incremento del 50 per cento nei crediti concessi a persone che prima non avevano alcuna possibilità di accesso al prestito, con una diminuzione del 23 per cento del tasso di default», afferma Jacob Wright, Head of Strategy della startup. A VisualDna stimano che nel mondo ci siano 2,5 miliardi di persone che sono escluse del credito. La loro missione è aiutare ad uscire dalla povertà 30 milioni di persone nei prossimi tre anni. Per questo la loro tabella di marcia è serrata: il prossimo anno opereranno in Brasile, nel 2016 sarà la volta di India, Africa, Filippine e Indonesia.

Non che VisualDna sia senza scopo di lucro, s’intende: la startup che ha 500 clienti (tra cui Mastercard ed Experia) in un anno ha duplicato i fatturati, raggiunto 160 dipendenti ed è passata dai due ai sei Paesi nei quali è attualmente operativa: Polonia, Gran Bretagna, Russia, Sudafrica, Repubblica Ceca e Turchia. Prossimo obiettivo: Amazon. «Una percentuale considerevole delle loro vendite dipende dalle raccomandazioni fatte sulla base dei prodotti che gli utenti hanno comprato. Se Amazon potesse invece conoscere chi siamo, con il nostro consenso, potrebbe farci raccomandazioni molto più efficaci, sarebbe un vantaggio per i consumtori», dice Alex Willcock. «Vorremmo lavorare più da vicino con i servizi finanziari per favorire un miglior rapporto con i loro clienti», anticipa Jacob: «Pensiamo anche che ci sia un grosso potenziale nel settore dell’istruzione e della salute. Gli studi dimostrano che a diverse personalità corrispondono diverse tecniche di insegnamento o di allenamento fisico. Abbiamo una partnership con un’azienda di tecnologie da indossare: potremo aiutare le persone a perdere peso ed essere più in forma».

Nell’universo dello psytech c’è anche il cosiddetto “affective computing”, una nuova tecnologia che cattura le nostre emozioni, guardandoci in faccia. Crowd Emotion, una startup di Londra è riuscita a mettere insieme vent’anni di ricerche neuroscientifiche in una web application che dà agli utenti la possibilità di decifrare le emozioni espresse dal volto semplicemente attraverso un browser e una webcam. Viene descritta come la prima tecnologia cloud per codificare le espressioni facciali, e a crearla sono stati due italiani: lo psicologo Giancarlo Mirmillo e il responsabile della piattaforma tecnologica Diego Caravana. Il sistema non si basa sul riconoscimento facciale (con buona pace della nostra riservatezza) ma sulla codifica dei pattern delle emozioni espresse dal nostro volto. Siamo tutti un numero, anche se con un cuore: «All’utente viene inviato un link con la richiesta di poter attivare la webcam (rigorosamente su consenso ) la quale riprenderà le sue emozioni durante la proiezione di un video. Il tutto diventa un file, un flusso di dati che poi noi analizziamo per estrarre insight utili alla comprensione dell’efficacia di un certo prodotto», spiega Diego Caravana.

Il software è già usato in Gran Bretagna dalla Bbc per misurare la risposta emotiva degli spettatori ai suoi programmi, mentre in Italia è in corso uno studio sull’efficacia degli spot di Pubblicità Progresso. «Il nostro approccio è unico perché possiamo andare oltre le sei emozioni di base (felicità, sorpresa, rabbia, disgusto, paura e tristezza) e capirne anche di molto complesse perché siamo in grado di elaborare non solo messaggi facciali ma anche vocali», sostiene Giancarlo Mirmillo.

In ultima analisi la tecnologia di CrowdEmotion è in grado di aiutarci a predire il nostro comportamento: se la persona davanti a noi tenterà il suicidio, se il nostro partner ci ama davvero o se il tizio alla frontiera è un trafficante di droga. «È una rivoluzione poter individuare le nostre emozioni attraverso la tecnologia e usarla per far comunicare le persone, anche quelle scarsamente autonome che non possono esprimersi verbalmente», afferma Caravani. «L’idea», dice da Londra il Ceo di CrowdEmotion Matt Celuszak, «è quella di usare la web application per collegare espressioni a stati d’animo, bisogni e possibili azioni da prendere. Si può utilizzare ovunque ci sia una telecamera, un registratore vocale o un sensore di movimenti per rilevare casi di depressione, quando un autista è stanco, se una pubblicità è efficace o, nel settore della sicurezza si potrebbero individuare possibili comportamenti criminali».

Per i due ideatori italiani in futuro questa tecnologia potrà dare un tocco di umanità anche a macchine come i frigoriferi, personalizzati magari sulle nostre emozioni, o rubinetti che regolano l’acqua per le persone che soffrono di Alzheimer. Importanti sviluppi potrebbero aversi nel campo della salute mentale e dell’educazione, con sistemi in grado di valutare i livelli di stress e fornire suggerimenti a chi ha problemi di apprendimento, aumentando l’autostima. «Sono progetti interessantissimi che stiamo sviluppando insieme a vari istituti», dice Mirmillo.

L’innovazione è aperta a chiunque: Crowdemotion ha appena condiviso la sua Api ( l’interfaccia di programmazione) permettendo ai clienti un’integrazione abbastanza semplice di questa funzionalità sulle loro applicazioni. Tra dieci mesi, poi, CrowdEmotion arriverà anche sui cellulari.

Via L'Espresso

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Di Altri Autori (del 27/08/2014 @ 07:30:11, in Aziende, linkato 1631 volte)

Ancora tempo di shopping in casa Amazon che si aggiudica Twitch, la piattaforma di video streaming dedicata ai videogiochi, per 970 milioni di dollari e soffia l’affare a Google, da tempo interessata a chiudere l’affare senza però alcun successo. Sembra quindi che l’idea di Jeff Bezos di trasformare Amazon in un fornitore di contenuti, andando ben oltre la vendita online, si stia affermando e con acquisti di alto livello.

Questo è infatti il più grande affare nella storia di Amazon da 20 anni a questa parte e aiuterà la società americana di e-commerce a gareggiare con Apple e Google nel mondo del gioco online, che rappresenta oltre il 75% di tutte le vendite di app mobili.

Twitch è una piattaforma online che consente la condivisione delle proprie fasi di gioco da parte dei gamer: uno strumento per la divulgazione da una parte, un “luogo” di condivisione dall’altra, il tutto all’interno di un sistema di socializzazione incentrato sul mondo del gaming. Dalla fondazione del gruppo nel 2011 la crescita è stata esponenziale al pari al suo successo.

Così recita il comunicato ufficiale: “Amazon annuncia di aver trovato un accordo per l’acquisizione di Twitch Interactive, piattaforma video per il gaming. Nel mese di luglio, oltre 55 milioni di visitatori unici hanno visto più di 15 miliardi di minuti di contenuto su Twitch prodotti da oltre 1 milione di broadcaster, inclusi gamer individuali, giocatori, editori, sviluppatori”.  Ad aprile il Wall Street Journal aveva collocato Twirch al quarto posto per volume di traffico negli Stati Uniti, dopo Netflix, Google e Apple.

“Abbiamo scelto Amazon perché crede nella nostra comunità, condivide i nostri valori e la visione a lungo termine – ha spiegato in un post Emmet Shear, il CEO di Twitch – e ci aiuterà ad arrivare più rapidamente ai nostri obiettivi. Grazie ad Amazon saremo in grado di darvi il miglior Twitch di sempre”.

Bezos nel comunicato ufficiale spiega come entrambe le compagnie siano “ossessionate dalla soddisfazione dei clienti e capaci di pensare in maniera diversa. Non vediamo l’ora di imparare da loro e aiutarli a crescere rapidamente per dare nuovi servizi alla comunità mondiale dei gamers”.

Fino a pochi mesi fa Google era la candidata più affidabile per la chiusura dell’operazione, anche grazie alla presenza di Youtube di cui Twitch sembra essere la spalla ideale, ma, secondo Forbes, le normative antitrust hanno ostacolato l’accordo per evitare una eccessiva concentrazione di potere nel mercato dei video online.

Al momento le conseguenze di tale operazione non sono ancora chiare. Shear assicura che la piattaforma di streaming conserverà la sua indipendenza ma l’integrazione con il sistema Amazon è la via più sicura: sarà possibile, infatti, acquistare i giochi ai quali si sta facendo da spettatori, il tutto in pochi click.  Inoltre i servizi offerti da Twitch allargheranno ulteriormente il pubblico dei gamers, ora più che mai tentato dalle potenzialità dei videogiochi in streaming a prezzi contenuti.

Insomma un’acquisizione che può sembrare di nicchia ma che promette novità interessanti dall’incontro tra videogiochi e streaming.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 28/08/2014 @ 07:49:09, in Mercati, linkato 1583 volte)

Secondo una recente ricerca di mercato nell’ultimo anno sarebbe letteralmente impazzata la mania dei dispositivi indossabili facendo segnare un’incremento delle vendite del 684 percento!

La ricerca è stata effettuata da Canalys che ha divulgato i dati nel proprio sito web ufficiale dichiarando che in questi numeri non sono compresi gli Smartwatch.

I leader indiscussi di questo mercato sono Fitbit e Jawbone che tra l’altro sono anche rispettivamente il primo ed il secondo produttore al mondo di dispositivi indossabili.

La ricerca rivela che Nike ha perso molto del terreno guadagnato negli anni passati in questo mercato mentre al contrario Garmin con la sua gamma Vivo Fit sta riuscendo ad ottenere dei buoni numeri di vendita nei mercati principali.

Nella prima metà del 2013 sono stati piazzati (venduti) meno di 800 mila dispositivi indossabili mentre nello stesso periodo del 2014 si è sfiorata quota 4,5 milioni di pezzi venduti!

Per quanto riguarda gli Smartwatch invece abbiamo assistito anche qui ad una crescita molto importante anche se ovviamente il costo di questi prodotti è più alto.

Samsung è l’attuale leader di questo mercato grazie anche alla vasta gamma di dispositivi lanciati (Samsung Gear Live, Samsung Gear Fit, Samsung Gear 2, Samsung Gear 2 Neo e Samsung Galaxy Gear) mentre a seguire troviamo Pebble, un’azienda nata su Kickstarter che ha riscosso il successo che si meritava.

Nella prima parte del 2014 sono stati piazzati 2 milioni di Smartwatch, cifra destinata a salire nella seconda metà grazie all’arrivo di nuovi interessanti prodotti come Motorola Moto 360 o LG R Watch.

Via PianetaCellulare

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Di Altri Autori (del 29/08/2014 @ 07:56:52, in eCommerce, linkato 2594 volte)

Fare comodamente shopping online e ritirare personalmente le merci acquistate evitando costi aggiuntivi di consegna, ritardi e forzate attese domestiche. E’ quanto permettono di fare i servizi click & collect che i più grandi retailer di mezzo mondo stanno mettendo a disposizione dei loro clienti. Un passo solo apparentemente indietro nelle dinamiche tipiche dell’e-commerce che vedeva proprio nella consegna direttamente a casa, uno dei vantaggi principali. Il click & collect piace agli utenti e anche ai venditori per i quali esso rappresenta non solo un ulteriore modo per soddisfare il cliente, ma anche un modo per portare gli appassionati dell’e-commerce a recarsi fisicamente in un negozio. Con tutti i vantaggi, e le possibilità di ulteriori compere che questo gesto porta con sé.

I numeri
clickI numeri del fenomeno danno conto di una realtà che sta confermando ciò che molti hanno sempre sostenuto, ovvero che l’e- commerce si integra e non sostituisce l’esperienza di acquisto; è uno dei canali utili e come tale può trovare spazio nelle più ampie strategie di business dei brand. Secondo recenti dati di Planet Retail in Inghilterra, uno dei mercati più avanzati sul tema, il numero di acquirenti del click & collect è destinato a più che raddoppiare entro il 2017. Attualmente il 35% degli acquirenti online del Regno Unito compra on line e ritira da sé, rispetto al 13% degli Stati Uniti e del 5% in Germania. Entro i prossimi tre anni, Planet Retail prevede che questa cifra passerà addirittura al 76% in UK.

“Due dei più grandi ostacoli all’acquisto on-line sono i costi di consegna e i tempi di consegna spesso scomodi; questo fa del click&collect un servizio sempre più attraente sia per i clienti che per i rivenditori. La sua realizzazione è destinata a essere il prossimo grande campo di battaglia nella vendita al dettaglio” spiega Natalie Berg di Planet Retail. Ma i rivenditori devono fare di più. I dati del mercato UK rivelano che solo due terzi dei 50 migliori rivenditori nazionali offrono il servizio e ancora meno, solo il 14%, offre più di una opzione di raccolta (cioè raccolta in store, magazzini di terzi, etc…). “I retailer devono prepararsi a questo massiccio spostamento nel comportamento di acquisto e devono già ora pensare anche oltre i tradizionali punti di raccolta. Stazioni ferroviarie e scuole potrebbero essere i punti di raccolta del futuro. I rivenditori devono essere pronti a stringere rapporti anche con partner non convenzionali per perseguire un miglior servizio al cliente.“

Se il Regno Unito è di gran lunga il mercato più avanzato sul click & collect anche la Francia sta cercando di capitalizzare questo trend anche se in ritardo rispetto all’interesse mostrato dal Regno Unito, con rivenditori quali Carrefour, Auchan, Leclerc, Leroy Merlin, Galeries Lafayette, e Oxylane per citare i più rappresentativi. Anche i retailer tedeschi stanno offrendo servizi di questo tipo in alcuni segmenti specifici di vendita al dettaglio, come l’elettronica di consumo (Saturn) mentre Italia e Spagna, dove l’adozione di modelli di business al dettaglio omni-channel è ancora marginale, sono in ritardo rispetto ai paesi europei di cui sopra, e solo i più grandi rivenditori, come Zara, El Corte Inglés e OVS, offrono servizi di click&collect.

I retailer
argos collection pointTali servizi non sono tutti uguali: se è vero che il principio “ispiratore” è il medesimo, è pur vero che a seconda della categoria “merceologica” dei vari retailer e dei rispettivi modelli di business, il click&collect assume volti differenti.
Tra i primi ad aver accettato la sfida del click&collect vi sono eBay e Argos che in UK hanno prima sperimentato e, grazie al successo dell’iniziativa, ampliato la loro partnership: i clienti di eBay possono ritirare le merci acquistate sul sito in alcuni punti vendita “fisici” di Argos. Un fatto a suo modo storico visto che è stata la prima volta in Inghilterra che un colosso dell’online ha stretto accordi con un potenziale competitor “tradizionale”.  Dopo la sperimentazione dai 150 punti di ritiro iniziali si è passati a 650, poco meno della totalità del “palco” store di Argos che sono in totale 730.  Sia eBay che Argos hanno guadagnato da questa collaborazione, in termini di immagine, di fiducia del cliente e, ovviamente, di business.

Ancora diversa l’esperienza di click&collect offerta ai consumatori inglesi da Westfield London, famoso negozio di abbigliamento. All’inizio di quest’anno ha lanciato un suo servizio di ritiro merci in collaborazione con il corriere Collect+ predisponendo una zona apposita nel negozio fisico. Qui i clienti possono prelevare gli abiti ordinati online, provarli in cabine ad hoc e finalizzare il ritiro oppure restituire la merce esercitando in loco il diritto di recesso. Il direttore marketing  di Westfield, UK & Europe Myf Ryan ha spiegato: “Con la crescente popolarità del click & collect abbiamo l’opportunità di rispondere alle esigenze dei clienti e in ultima analisi, contribuire a fornire un’esperienza senza soluzione di continuità per i clienti che acquistano on-line e in-store. L’azione rientra in una più ampia strategia per fornire soluzioni digitali che migliorano le esperienze di acquisto dei clienti e aiuta a far crescere anche le vendite per i nostri rivenditori.”

E Asda, a Londra, offre una sua versione del click & collect ancora più originale con i punti di ritiro piazzati… presso alcune stazioni della metro, ovvero East Finchley, Harrow, Wealdstone, High Barnet, Highgate, Stanmore e Epping. Mark Ibbotson, direttore di Asda ha spiegato “Con questo nuovo servizio di click & collect, se i clienti non possono venire da noi, è Asda che va incontro alle esigenze del cliente e la metropolitana londinese ci permette di fare un grande passo in avanti sfruttando le piattaforme di scambio che sono le stazioni”.  Senza contare che Asda in questo modo ha ampliato le possibilitò di contatto e di azione con gli utenti anche in zone di Londra dove registravano da anni un basso numero di clienti.

Solo pochi esempi e retailer che hanno deciso di abbracciare la filosofia del click & collect a cui si aggiungono Tesco, M&S, H&M, Burberry, Halfords, e Asos. Aziende che con questo servizio hanno reso la Gran Bretagna pioniere assoluto in Europa e non solo.

Quello che emerge da questo panorama, sottolinea IDC che ha analizzato il fenomeno, è che i rivenditori stanno cercando di superare la crisi anche attraverso una maggiore attenzione alle reali esigenze dei clienti. Clienti che chiedono sempre più un’ esperienza di acquisto integrata tra mondo online e offline, e coinvolgente al di là appunto del canale digitale o analogico utilizzato per stabilire il “contatto”. E in futuro una strategia di questo tipo sarà sempre più cruciale per la sopravvivenza e la crescita di chi vorrà fare business. E la distinzione tra commercio “online e offline” non avrà quasi più motivo di esistere.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 01/09/2014 @ 07:42:25, in Mercati, linkato 2524 volte)

Jianlin Wang, classe 1954, uno degli uomini più ricchi della Cina, oggi non ha dubbi: fare affari in Gran Bretagna è molto più facile che trattare con gli americani. Ed è per questa ragione che Wang, proprietario del gruppo finanziario e immobiliare Dalian Wanda, già da diversi mesi ha deciso di metter mano al portafoglio per investire nel Regno Unito la “modica” cifra di 3 miliardi di sterline (quasi 3,8 miliardi di euro).
I soldi finiranno in progetti imprenditoriali di vario tipo, che faranno seguito all’acquisizione del gruppo Sunseeker International, noto produttore britannico di yacht finito nell’orbita del tycoon cinese già nel 2013. Le operazioni del gruppo Dalian Wanda sono però soltanto un piccolo spaccato di quello che sta accadendo da tempo a Londra e dintorni. Oggi, infatti, la Gran Bretagna sta scalzando gli Stati Uniti nel ruolo di destinazione preferita degli investimenti esteri cinesi.

Questo, almeno, è quello che ha scritto il noto magazine economico Forbes, quando ha raccontato un’altra operazione stellare avvenuta di recente sul suolo londinese. Si tratta dell’acquisto da parte del gruppo assicurativo China Life Insurance di una mega-torre da un miliardo di euro, nel centro direzionale di Canary Wharf.
DA LONDRA A DUBLINO, VIA AMSTERDAM E MADRID
I cinesi, insomma, hanno fatto rotta con decisione verso il Regno di Sua Maestà. A ben guardare, tuttavia, c’è poco da stupirsi nel vedere i nuovi tycoon della Repubblica Popolare sbarcare sulle sponde della Manica. La Gran Bretagna, infatti, è da almeno un trentennio la meta preferita in Europa (e non solo) degli investimenti diretti esteri, da qualunque parte arrivino.
Poco importa se si tratta di operazioni messe in cantiere dai fondi sovrani o dai nuovi ricchi dell’Estremo Oriente oppure da qualche multinazionale con dimensioni planetarie. Chiunque metta mano al portafoglio, a Londra trova difficilmente le porte sbarrate. A dirlo sono anche i dati pubblicati dalla società di consulenza e revisione internazionale Ernst&Young che, nel 2013, ha calcolato la presenza nel Regno Unito di ben 799 progetti di investimento da parte di operatori esteri, che hanno generato oltre 27 mila nuovi posti di lavoro.
Si tratta di una cifra superiore ai dati che si registrano in Paesi con un’economia più grande o con dimensioni simili a quella del Regno Unito. È il caso della Germania (che ha attirato 701 progetti) e della Francia (471 progetti). Per non parlare dell’Italia che, nella classifica di Ernst&Young non compare neppure, relegata probabilmente sotto la voce “altre nazioni”.
La Gran Bretagna, però, non è l’unico Paese del Vecchio Continente ad avere la calamita per gli investimenti diretti esteri. Assieme al Regno Unito, per esempio, ci sono altre realtà che hanno un pil ben più modesto del nostro ma che, quando si tratta di attirare i capitali, distanziano la Peni sola in maniera evidente. Si prenda per esempio la Spagna: nel 2013, secondo Ernst&Young, ha attirato oltre 220 progetti di investimento da parte di soggetti stranieri.
Secondo l’Unctad (la Conferenza della Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), lo scorso anno la Spagna si è piazzata addirittura prima in Europa per il valore assoluto degli investimenti diretti esteri, che hanno raggiunto i 39 miliardi di euro, contro i 37 miliardi del Regno Unito. Performance di tutto rispetto, in rapporto alle dimensioni geografiche ed economiche dell’intero Paese, sono state messe a segno però anche dall’Irlanda (36 miliardi di investimenti diretti esteri) e dall’Olanda (24 miliardi).

A SCELTA DI MARCHIONNE
Ecco allora che sorge spontaneo un interrogativo: cosa hanno di speciale tutti questi Paesi per attirare così tanti investimenti da parte delle multinazionali? Forse una risposta fulminea potrebbe darla Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles (Fca Group), il nuovo gruppo nato dalla fusione tra la casa automobilistica torinese e la statunitense Chrysler.
Quando si è trattato di scegliere dove mettere il quartier generale della neonata multinazionale, Marchionne e gli Agnelli non ci hanno pensato due volte: hanno scelto di andare via dall’Italia e di spostare la sede operativa ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. La ragione? Semplice: in Gran Bretagna, c’è una tassazione sui dividendi più vantaggiosa che altrove, mentre in Olanda ci sono particolari regole societarie che assegnano un peso più rilevante nell’assemblea agli azionisti di maggioranza relativa delle aziende quotate. Di conseguenza, con meno del 30% del capitale, nei Paesi Bassi gli Agnelli potranno controllare meglio Fca Group di quanto non farebbero in Italia.
È tuttavia un po’ riduttivo di spiegare l’appeal dell’Olanda e della Gran Bretagna verso gli investitori esteri con semplici ragioni fiscali o legali, come quelle che hanno spinto Marchionne a voltare le spalle a Torino. In realtà, la vicenda di Fca Group è soltanto un episodio, che descrive però molto bene l’atteggiamento di fondo che certi Paesi hanno nei confronti delle multinazionali. In Olanda e Gran Bretagna, ma anche in Svizzera, in Irlanda e ultimamente pure in Spagna, le porte sono quasi sempre aperte a chiunque voglia andare a investire. Niente pregiudizi o preconcetti, dunque, anche se le operazioni messe in cantiere sono poi molto “soft”, cioè si limitano all’apertura di qualche ufficio come nel caso di Fca Group (che nella sede di Londra avrà appena una cinquantina di dipendenti).

FISCO PIÙ LEGGERO
Ben vengano gli stranieri, dunque. È il motto che accomuna i Paesi capaci di attirare maggiormente gli investimenti delle multinazionali, i quali hanno però declinato questo imperativo con modalità differenti, a seconda delle proprie vocazioni.
La Gran Bretagna, per esempio, ha sfruttato soprattutto i vantaggi competitivi che gli derivano dall’avere un mercato finanziario gigantesco come quello di Londra. La Spagna, che negli ultimi anni ha attraversato una crisi profonda, sta invece puntando molto sulla flessibilità e sulla produttività del lavoro. Il merito (o la causa che dir si voglia) è di una discussa riforma dei contratti di assunzione attuata dal governo del popolare Mariano Rajoy, il quale ha reso più semplici i licenziamenti e tenuto fortemente sotto pressione il costo del lavoro, per ridare fiato agli investimenti esteri nell’industria manifatturiera.
Olanda, Irlanda e Svizzera, invece, hanno fatto leva sul fattore fiscale, tenendo volutamente bassa la tassazione sul lavoro e sui profitti d’impresa. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata ai dati sulla competitività dei Paesi pubblicati ogni anno dalla Banca Mondiale, nel report Doing Business in a more trasparente world. Secondo la Banca Mondiale, mentre in Italia la pressione del fisco e dei contributi sulle retribuzioni supera ampiamente il 40%, in Olanda e Svizzera è inferiore alla metà, cioè attorno al 18%, mentre in Irlanda è addirittura di poco superiore al 12%.
I-tempi-della-burocrazia-in-Italia
La burocrazia in Italia (fonte Banca Mondiale)

TUTTI A DUBLINO
Proprio dall’Irlanda, arriva l’esempio più significativo su come la leva fiscale riesca a fare da calamita per gli investimenti esteri. Anche nei periodi più bui della crisi economica, quando il bilancio dello Stato era ormai in pezzi, il governo di Dublino si è infatti guardato bene dall’alzare la tassazione sui profitti societari, tenendola ferma al 12,5%, il livello più basso in Europa e tra i meno elevati al mondo. Inoltre, il fisco irlandese concede generosi crediti di imposta agli investimenti in ricerca e sviluppo e ha creato parecchie agevolazioni per le start up: le aziende di nuova costituzione con un reddito inferiore a 40 mila euro, infatti, per tre anni non pagano imposte sui profitti né sui capital gains.
I risultati di queste politiche di apertura agli investimenti esteri sono sotto gli occhi di tutti. Dublino, infatti, viene tuttora considerata dalle multinazionali una sorta di paradiso degli affari, nonostante la crisi degli ultimi anni. In Irlanda, per esempio, hanno una propria sede ben nove delle prime dieci aziende farmaceutiche mondiali, otto dei maggiori gruppi internazionali del settore tecnologico e circa la metà delle banche presenti in tutto il pianeta. Senza dimenticare, infine, le regine di internet come Facebook, Google e Yahoo! che proprio in Irlanda hanno stabilito i loro quartier generali europei.


Oltre a pagare poche tasse, le multinazionali che vanno a Dublino riescono anche a versarle assai velocemente, senza doversi confrontare con una burocrazia strozzante e vessatoria. A testimoniarlo, ancora una volta, sono i dati della Banca Mondiale: secondo il report Doing Business, infatti, per portare a termine gli adempimenti fiscali le aziende irlandesi impiegano mediamente 80 ore di tempo all’anno, contro le 269 ore che ci vogliono in Italia. Su questo fronte, il nostro Paese viene battuto sonoramente anche dalla Svizzera (63 ore di tempo all’anno) dalla Gran Bretagna (110 ore), dall’Olanda (123 ore) e dalla Spagna (167 ore). Quando decidono se investire o meno in una determinata area geografica, di sicuro le multinazionali guardano anche questi dati.

E L'ITALIA?
Essere dei tipi molto pazienti. In provincia di Perugia, infatti, il gruppo scandinavo aspetta da anni di costruire un nuovo grande punto vendita che darebbe lavoro a centinaia di persone ma, per adesso, tutto resta in stand by: dalle amministrazioni locali, impegnate in discussioni-fiume sull’opportunità di dare il via libera a questa operazione, le autorizzazioni a costruire non sono mai arrivate, né arriveranno in tempi brevi.
In provincia di Pisa è andata invece un po’ meglio: nel marzo scorso, a pochi chilometri dalla città della torre pendente, la multinazionale svedese è riuscita finalmente ad aprire il suo secondo punto vendita in Toscana, dopo aver atteso però la bellezza di nove anni. Certo, inaugurare un megastore non è un gioco da ragazzi.

Tuttavia, come ha detto una volta il patron del gruppo Esselunga Bernardo Caprotti, nel nostro Paese sembra quasi più facile metter su una centrale nucleare che non avviare un supermercato. Sarà per questo motivo, probabilmente, che certe multinazionali straniere si guardano bene dal venire a investire in Italia. Quello di Ikea, infatti, non è l’unico caso di aziende estere che hanno dovuto fare a cazzotti con i tempi biblici della burocrazia made in Italy.
Molti ricorderanno per esempio il caso del gruppo British Gas, intenzionato a costruire un impianto di rigassificazione a Brindisi, ma che, nel 2012, ha deciso di gettare la spugna. Il motivo? L’ostruzionismo delle autorità locali, ostili al progetto, che hanno costretto l’azienda ad attendere ben 11 anni per sapere se poteva davvero costruire o no quel benedetto rigassificatore, dopo che British Gas aveva speso comunque più di 100 milioni di euro per programmare l’investimento.

ULTIMI IN EUROPA
Non c’è dunque da stupirsi se le iniziative straniere nel nostro Paese sono ridotte da anni al lumicino, almeno in rapporto alle dimensioni della nostra economia.
Tra il 2008 e il 2013, per esempio, i flussi netti di investimenti esteri in Italia si sono fermati ad appena 12 miliardi di euro, pari allo 0,6% del pil, contro i 66 miliardi della Gran Bretagna, i 37 miliardi della Spagna e i 25 miliardi della Germania. Persino la Svizzera, che è un Paese ricco ma piccolino, ci batte alla grande, con un flusso netto di investimenti stranieri pari a 14 miliardi di euro tra il 2008 e il 2013.
Senza dimenticare, poi, un particolare tutt’altro che trascurabile: quando scendono a Sud delle Alpi, le multinazionali estere vengono soprattutto per vendere i prodotti che fabbricano altrove e non certo per costruire nuovi insediamenti produttivi. Certo, dare la colpa soltanto all’ostruzionismo degli enti locali è forse una spiegazione un po’ troppo sbrigativa. Sta di fatto, però, che la presenza di una burocrazia e di uno Stato ingombranti è vista spesso dalle multinazionali come uno dei motivi per cui non conviene mettere piede in una determinata area geografica.
A rivelarlo è anche un’indagine sulla competitività in Europa condotta dalla nota società di consulenza e revisione Ernst&Young (European attractiveness survey 2014). Tra i motivi per cui vale la pena insediarsi in un Paese, gli investitori internazionali mettono proprio al primo posto la stabilità e la trasparenza della politica, delle leggi e dei regolamenti, cose che in Italia restano purtroppo nel libro dei sogni. Dall’indagine di Ernst&Young, tuttavia, emergono altri fattori strategici che spingono le multinazionali e gli investitori esteri a scegliere determinate destinazioni, piuttosto che altre.
Tra questi fattori, per esempio, c’è l’efficienza del sistema dei trasporti, il costo e la flessibilità del lavoro, la qualità delle telecomunicazioni, il livello di tassazione sui profitti delle aziende e il potenziale aumento della produttività per l’impresa, derivante dall’apertura di un nuovo sito sul territorio.
Si tratta purtroppo di qualità che all’Italia mancano, del tutto o in parte. Nella Penisola, per esempio, consumare un megawattora di elettricità costa alle aziende una media di 184 euro, contro i 152 euro della Spagna, i 149 della Germania, i 130 della Gran Bretagna e i 100 euro circa della Francia. Come si può pensare, dunque, di essere produttivi con un prezzo dell’energia così elevato? La musica non cambia, però, se si prendono in esame altri aspetti del Sistema-Italia, a cominciare dal suo arzigogolato regime fiscale.

Secondo un’analisi effettuata tempo fa dagli investitori esteri di Confindustria (l’associazione di categoria delle aziende straniere presenti nel nostro paese), nella Penisola c’è un tax rate, cioè una pressione tributaria e contributiva sui profitti d’impresa, superiore al 69% contro il 37% della Gran Bretagna e il 30% della Svizzera.
Per non parlare, poi, di ciò che avviene quando le imprese devono entrare nelle aule di un tribunale. Secondo le statistiche, la durata media di un contenzioso civile nel nostro Paese è di ben 493 giorni, circa il doppio rispetto ai tempi che si registrano in Germania, Francia e Spagna e quasi il quadruplo rispetto alla vicinissima ed efficientissima Federazione Elvetica, dove le controversie si risolvono in poco più di quattro mesi. Infine, a completare il quadro, si possono aggiungere anche i dati sulla produttività del lavoro. Per ogni ora trascorsa in fabbrica o in ufficio, infatti, un lavoratore italiano genera circa 58 euro di pil, con un gap tra il 4 e il 20% rispetto ai principali Paesi europei.
WHY NOT ITALY? In una nazione con i numeri sopra evidenziati, sostengono alcuni osservatori, soltanto un fesso potrebbe mettersi a fare business. Eppure, secondo diversi studiosi, l’Italia mantiene ancora alcuni vantaggi competitivi che potrebbero imprimere una inversione di tendenza al declino strutturale degli investimenti esteri. A individuare questi punti di forza, che andrebbero stimolati con un po’ di riforme, è stato un gruppo di personalità costituito da manager di fondi di private equity, docenti universitari e rappresentanti di istituzioni di alto rilievo fra cui Borsa Italiana, l’Università Bocconi e la Harvard Business School. Questo gruppo si chiama Why Not Italy? (Perché non l’Italia?) e ha pubblicato un documento che evidenzia le risorse competitive di cui il nostro Paese dispone.

A Sud delle Alpi, per esempio, c’è un sistema bancario abbastanza solido, sostenuto anche dall’elevata ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie. E ci sono pure molte ottime aziende ancora controllate dai loro fondatori, il 25% dei quali ha però più di 70 anni e si pone adesso il problema del passaggio generazionale, esplorando la possibilità di trovare nuovi partner, anche stranieri. Inoltre, nel nostro Paese non manca neppure un sistema dei trasporti e della logistica che, bene o male, è abbastanza avanzato e potrebbe attraversare una nuova fase di sviluppo, soprattutto per una ragione: sul territorio italiano, sono stati fissati dall’Ue gran parte dei corridoi ferroviari e stradali europei che collegheranno il Nord al Sud e l’Est all’Ovest del Vecchio Continente.
Non va dimenticato, poi, che nel nostro Paese c’è anche un'industria del private equity abbastanza sviluppata, mentre la Borsa di Milano, pur essendo un mercato piccolo per il numero di aziende quotate, è invece una piazza finanziaria molto florida per quanto riguarda la negoziazione dei prodotti derivati e soprattutto di obbligazioni, per le quali dispone della piattaforma di trading più avanzata in Europa.

Infine, se a questi punti di forza si aggiunge pure la nostra attrattività turistica e il nostro grande patrimonio culturale, l’immagine che emerge dell’Italia è ben diversa da quella di un Paese da cui conviene tenersi alla larga. Mancano soltanto alcune riforme strutturali, che non sono però difficili da individuare. Per avere qualche suggerimento, basta leggere i report dell’osservatorio creato dall’Aibe (l’Associazione delle banche estere presenti in Italia) sui punti di forza e di debolezza del nostro Paese.
Tra le riforme auspicate nella Penisola, il 55% degli investitori stranieri interpellati dall’Aibe ha individuato soprattutto lo snellimento della burocrazia e del carico normativo per le imprese, il 50% ha auspicato una riduzione dei tempi della giustizia civile, il 41% degli intervistati si augura una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, mentre il 36% vuole un minor carico fiscale sulle aziende. Tutte cose di cui si parla da anni ma che, nei palazzi romani, restano purtroppo ancora solo sulla carta.

Via Business People

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Di Altri Autori (del 02/09/2014 @ 07:40:12, in Media, linkato 1502 volte)

Cambia il sistema di rilevamento dei singoli digitali più venduti ogni settimana in Italia. L’ha annunciato la Federazione industria musicale italiana, che se ne occupa attraverso la società di ricerche di consumo Gfk. E così, da settembre insieme ai classici download, anche lo streaming avrà un suo forte peso nel decretare i pezzi più ascoltati nella Penisola: cento streaming conteranno come un download.

Il nuovo sistema misto rappresenta “un modo per tenere le classifiche al passo con l’evoluzione d’ascolto dei consumatori”, assicura la Fimi. L’operazione sottolineerà così le preferenze dei ragazzi di 16-24 anni che, incollati ai loro smartphone e tablet, fanno delle librerie musicali online come Spotify, Tim music e Deezer il loro nuovo impianto stereo in movimento.

“Il primo semestre del 2014 ha proposto risultati in crescita rispetto all’anno precedente. Ma per la prima volta lo streaming, tra audio e video, è cresciuto del 95%, ha superato il download (sceso del 18%) e rappresenta, oggi, il 55% dei ricavi del digitale, rispetto al 34% del 2013” dicono dalla Fimi. Complessivamente lo streaming ha generato 12,6 milioni di euro, contro i 9,8 milioni del download. E con lo streaming audio è lievitato anche quello video: tra YouTube e Vevo, il segno più è del 72%, con un fatturato di quasi 7 milioni di euro.

Via Quo Media

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Di Altri Autori (del 03/09/2014 @ 07:19:57, in Social Networks, linkato 1640 volte)

I dati demografici degli utenti dei social network stanno cambiando: le vecchie reti sociali stanno ormai raggiungendo la maturità, mentre le applicazioni di messaggistica social più recenti stanno guadagnando rapidamente gli utenti più giovani. In un nuovo rapporto di BI Intelligence la società ha provato ad analizzare più di una dozzina di fonti che, in questi anni, hanno fotografato il popolo dei social media per capire come si stanno ridefinendo nel tempo.

Quello che emerge è che Facebook, Google, Twitter, LinkedIn e persino Pinterest sono diventati più dipendenti a livello globale dalla fascia di età rappresentata dai 25-34enni mentre altri social, come Snapchat e Tumblr, rimangono fortemente “abitati” da adolescenti e giovani adulti. Ecco le principali evidenze riscontrate dall’analisi.

Facebook è al femminile: le donne negli Stati Uniti sono più propense a usare Facebook rispetto agli uomini di circa 10 punti percentuali, secondo un sondaggio del 2013 sull’adozione dei social network. Facebook rimane il social network top per gli adolescenti degli Stati Uniti a dispetto di tutto. Quasi la metà degli adolescenti utenti di FB dichiara che sta usando il social di Zuckerberg più dello scorso anno e Facebook conta più utenti attivi adolescenti al giorno rispetto a qualsiasi altra rete sociale.

Detto questo, Instagram ha raggiunto, se non superato, Facebook e Twitter in termini di prestigio tra i giovani utenti. Gli adolescenti americani descrivono ora Instagram come il “più importante”, mentre Facebook e Twitter hanno perso terreno su questa misura, secondo un sondaggio sui teenager di Piper Jaffray. L’indagine ha inoltre rilevato che l’83% degli adolescenti americani in famiglie benestanti sono su Instagram.

LinkedIn è in realtà più popolare di Twitter tra gli adulti americani. Il nucleo demografico del social “professionale” è rappresentato da utenti di età compresa tra 30 e 49 anni, che corrisponde agli anni della maturità lavorativa. E non sorprende che LinkedIn abbia anche una marcata inclinazione verso gli utenti istruiti.

Twitter ha iniziato ad avere più utenti di sesso maschile, mentre in precedenza era un social network con “equilibrio di genere.” Pew Research ha rilevato che il 22% degli uomini usa Twitter, contro solo il 15% delle donne.

YouTube raggiunge il maggior numero di adulti tra 18 a 34 di ogni altra singola rete televisiva via cavo. Quasi la metà delle persone in questa fascia di età ha visitato YouTube tra dicembre 2013 e febbraio 2014, secondo Nielsen.

Snapchat, infine, è il più giovane di tutti i social network: sei su dieci utenti sono nella fascia di età 18-24 anni rispetto al 28% degli utenti di Instagram stando ad un sondaggio condotto dalla Informate.

Via Tech Economy

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Di Altri Autori (del 04/09/2014 @ 07:17:29, in Aziende, linkato 1747 volte)

A quasi 10 anni dal suo lancio ufficiale, con il suo miliardo di visitatori unici mensili, YouTube è ormai la piattaforma di riferimento di chiunque voglia fruire o condividere contenuti video. Da qualche anno sulla piattaforma si trovano contenuti di alto livello, creati da utenti dalla rete che scrivono, girano e montano per il pubblico.

È il caso di web-serie come The Pills, o di canali come The Jackal, che proprio su YouTube hanno trovato terreno fertile per diventare veri e propri fenomeni mediatici, spesso capaci di sfociare nei media tradizionali. Il vero problema però sono i soldi.

Ora sulla piattaforma spunta una novità: un pulsante Support, che consente a chiunque di contribuire al lavoro del canale, o del singolo creatore di contenuti, effettuando una donazione. Per ora questa funzionalità è disponibile solo per gli utenti americani, australiani, giapponesi e messicani, ma considerando che l’80% del traffico raccolto dalla piattaforma proviene da fuori i confini americani,  è ragionevole aspettarsi che la funzione verrà estesa al resto dell’utenza internazionale.

Via Quo Media

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Di Altri Autori (del 05/09/2014 @ 07:51:52, in eCommerce, linkato 1345 volte)

La crisi (e il dopo crisi) hanno cambiato le abitudini d’acquisto degli italiani: si fa la spesa via Internet, si scelgono prodotti con lo smartphone e il tablet, si resta più a casa, si compra più cibo bio ed etnico e più hi tech. Questa è la fotografia della spesa degli italiani (dopo) la crisi fatta dalla Coop.

Secondo la ricerca nel 2014, i consumi complessivi registreranno un +0,2%, un piccolo dato incoraggiante dopo sette anni di crisi in cui sono andati in fumo più di 100 miliardi di spesa.
«La recessione potrebbe finire nel 2015, ma è difficile credere che i consumi torneranno ai livelli dei primi anni Duemila» riferisce in una nota il presidente nazionale della Coop, Marco Pedroni.

Le stime analizzate dalla Cooperativa Consumatori mostrano anche come gli italiani hanno saputo reagire alla crisi tornando a risparmiare - in due anni il livello dei depositi in banca è cresciuto del +1,7% - e essendo meno pessimisti (39% contro il 44% dell’anno scorso). Tuttavia lo studio evidenzia quanto la recessione ha inciso sulla mobilità degli italiani: dal 2008 gli spostamenti, in generale, sono diminuiti del 24%, quelli verso il lavoro del 23,2% (in concausa alla crescente disoccupazione), mentre quelli per il tempo libero sono crollati del 44,6%.

Siamo diventati, quindi, più stanziali: stiamo più a casa e navighiamo di più su Internet, in media ci trascorriamo 5 ore al giorno, di cui 4,40 solo sui social. Di conseguenza le spese online sono cresciute del 20,4% in quattro anni.
Rispetto al resto dell’Europa, siamo quelli che riserviamo la quota maggiore di budget per comprare da mangiare e da bere (18% contro il 14% della media europea). Anche se in Italia il carrello della spesa complessiva “si è alleggerito” negli ultimi tredici trimestri, si registra però una controtendenza. Infatti nel cestino della spesa gli italiani mettono più acquisti di qualità: in crescita i cibi biologici e vegani, etnici, bevande a base di soia (+20%), prodotti “alternativi” al glutine (+18%) e gluten free (+32%).

Unico vizio? Quando si tratta di acquisti hi-tech come smartphone e tablet, non conosciamo crisi.

Via Business People

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