Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La pubblicità in Instagram è in arrivo. Il gruppo, fondato da Kevin Systrom e Mike Krieger, ha confermato ufficialmente in un post sul suo blog che inizierà l’inserimento di annunci pubblicitari nella timeline degli utenti nei prossimi mesi.
“Negli ultimi tre anni abbiamo guardato con stupore come Instagram è cresciuta a una comunità globale di oltre 150 milioni di persone catturare e condividere momenti di tutto il mondo. Instagram è un luogo dove le persone vengono a connettersi ed essere ispirati, e la nostra attenzione con ogni prodotto che costruiamo è mantenere in questo modo. Abbiamo grandi idee per il futuro, e la parte di realizzarle sta costruendo Instagram in un business sostenibile. Nei prossimi due mesi, si può iniziare a vedere un annuncio occasionale nel tuo feed Instagram negli Stati Uniti”.
Secondo quanto dichiarato dall’azienda, la pubblicità inizierà ad essere visualizzata dagli utenti degli Stati Uniti e la società si “concentrerà in un piccolo numero di belle foto di alta qualità e video inseriti da una manciata di brand che sono già grandi membri della comunità Instagram”. L’obiettivo è quello di fare qualsiasi pubblicità come se fosse una foto “naturale per Instagram” ossia come le foto ed i video degli utenti.
Instagram precisa che nonostante l’inserimento della pubblicità, gli utenti manterranno tutti i loro diritti per le loro foto e video caricati: “Instagram non sarà in grado di vendere i diritti di immagini e video caricati dagli utenti senza un cambio di termini e condizioni del servizio”.
La società aggiunge che: “ci siamo anche assicurati di darvi il controllo. Se vedete un annuncio che non vi piace, sarete in grado di nasconderlo e fornire un feedback su ciò che non giudicavate buono. Contiamo sul vostro contributo per aiutarci a migliorare continuamente l’esperienza di Instagram”.
Via Tech Economy
Aria di crisi in casa Ikea Italia. Per il secondo anno da quando ha aperto i suoi negozi nel Belpaese, il colosso dell’arredamento svedese ha registrato una contrazione del fatturato (-4,5%) scendendo a 1,5 miliardi di euro nel bilancio italiano chiuso ad agosto 2013. Ma il gruppo ribadisce la volontà di restare con i piedi ben piantati nel nostro Paese, confermando l’intenzione di proseguire il suo piano di espansione retail nello Stivale e di scommettere sul nostro made in Italy. Nel tempo, infatti il nostro Paese è diventato il terzo fornitore dopo Polonia e Cina: gli approvvigionamenti in Italia, che oggi valgono circa 1 miliardo, sono destinati a crescere.
Utili e margini operativi, come sempre per la multinazionale, rimangono top secret. La flessione del fatturato è del 4,5%, ma senza considerare il nuovo punto vendita aperto in Abruzzo sarebbe del 7,8%. “L’interesse per i nostri prodotti rimane forte, i visitatori nei punti vendita sono calati solo del 2% – commenta Lars Petersson, amministratore delegato Ikea Italia – solo che spendono meno o comprano prodotti meno cari”.
Così a scendere sono soprattutto le vendite di mobili (-6,8% a 847 milioni di euro), mentre tengono quelle dei più economici complementi d’arredo. Nonostante questo Ikea prevede di salire nel 2013 a una quota di mercato del 9,1% nel settore legno arredo, rispetto all’8,7% del 2012. Facendo quindi meglio della concorrenza, anche se non con la crescita spettacolare che tra 2008 e 2012 l’aveva vista salire dal 4,8 all’8,7% del totale. Mentre la ristorazione nei punti vendita, in calo del 6,4%, paga le rivelazioni su carne di cavallo e batteri fecali: “Abbiamo rafforzato le misure di controllo”, replica la società.
Petersson ha annunciato la data di apertura del nuovo negozio di Pisa: sarà il 5 marzo 2014, a oltre 7 anni di distanza dal primo progetto, per 62 milioni di euro di investimento. Una frazione dei 400 milioni che l’anno scorso la società aveva annunciato di voler puntare sull’Italia entro il 2015. “Vogliamo crescere, confermiamo quella cifra – ha detto l’amministratore delegato – anche se i tempi potrebbero essere più lunghi”. Sul terzo store di Roma infatti la società non ha ancora ottenuto dall’amministrazione date certe, mentre quelli di Verona e Milano (il quarto) per ora restano sulla carta. “Ci vorrebbe maggiore certezza per chi investe in Italia: di tempi, di leggi, di tutto”, ha concluso l’amministratore delegato. “Qui si sa quando si parte, mai se e quando si arriva, in 20 anni la situazione non è migliorata così tanto”.
Via PambiancoNews
Cala vertiginosamente il fatturato della pubblicità sulla carta stampata nel periodo gennaio-agosto 2013: secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Stampa Fcp, il settore ha perso il 23,4% su base annua, registrando un giro d’affari di 519 milioni di euro.
A patire maggiormente l’emorragia pubblicitaria sono i mensili, con un calo del fatturato pari al 25,3%, e i settimanali, in discesa del 25,1%. Di poco sotto media i quotidiani.
Via Quo Media
Apple ha spodestato Coca Cola nella classifica dei marchi più apprezzati, aggiudicandosi il titolo di brand più influente al mondo. Secondo lo studio Top 100 brands di Interbrand, infatti, la società di Cupertino sarebbe adesso leader nella progettazione e nello sviluppo, rappresentando di conseguenza il brand con il maggiore valore sul mercato.
Il valore del marchio Apple è saltato al 28% raggiungendo i 98,3 miliardi di dollari, lasciando Google al secondo posto con 93,3 miliardi di dollari. Coca Cola, invece, è scivolata, dopo 13 anni di primato, al terzo posto con un valore di 79,2 miliardi di dollari. ”Capita spesso che una società cambi la nostra vita, non solo con i suoi prodotti, ma anche con i suoi valori” ha commentato Jez Frampton, CEO di Interbrand. “Tim Cook ha riunito un team solido e ha mantenuto intatta la visione di Steve Jobs, una visione che ha permesso ad Apple di mantenere le sue promesse di innovazione invariate nel tempo”.
Lo studio annuale di Interbrand, sotto stretta sorveglianza da parte delle industrie, determina il valore di una marca, esaminando la sua performance finanziaria, il ruolo che ha nell’influenzare l’acquisto dei consumatori e la capacità di garantire guadagni . La Top 10 è completata in ordine decrescente da IBM, Microsoft, GE, McDonald, Samsung, Intel e Toyota.
Le società tecnologiche sono quelle che più spesso salgono la vetta, ma allo stesso tempo anche quelle che scendono più facilmente. Se da un lato, infatti, Google è salita del 34%, dall’altro Nokia ha avuto un rapido declino arrivando dal 19° posto al 57°, con il peggior calo nella storia del marchio. I cambiamenti all’interno della classifica dei marchi riflettono ovviamente il fermento creatosi nel settore della tecnologia nel corso dell’anno. Nokia, ad esempio, che per lungo tempo ha avuto la maggiore quota di mercato nel settore della telefonia mobile fino al superamento di Samsung nel 2012, ha subito questo mese un radicale cambiamento quando è stata comprata da Microsoft per 7,32 miliardi di dollari. Il che potrà forse portare vantaggi a lungo termine ad entrambe le aziende, ma per il momento fa scendere il brand Nokia nella classifica dei valori. Male anche BlackBerry che, se nel 2012 era già scesa al 93° posto, quest’anno addirittura non compare nella Top 100.
Nella classifica c’è anche un po’ di Italia che, con Prada e Ferrari, si colloca nella parte bassa della classifica: la prima al 72° posto, la seconda al 98°.
Via Tech Economy
L’innovazione è sempre più uno degli asset più importanti per le imprese per rimanere ai vertici dei mercati, a maggior ragione in quello hi-tech, dove la velocità della concorrenza impone di rimanere costantemente competitivi. A tal proposito dal 2005 il Boston Consulting Group ha esaminato più di 1.500 dirigenti a livello mondiale per ricavare, dalle loro valutazioni, una fotografia delle aziende più innovative al mondo, confrontandole nel tempo e tra le regioni e industrie.
Ogni anno la ricerca si è tradotta in una “Most Innovative Companies” che, nell’edizione 2013, per la nona volta consecutiva vede Apple prima in classifica, seguita da Samsung, Google e Microsoft. Quattro aziende tecnologiche ai primi quattro posti, dunque, mentre il quinto è appannaggio di Toyota. Non solo. Altri rappresentanti del mondo hi-tech – comeIbm, Amazon, Sony e Facebook – fanno parte della top 20, a conferma che il mondo di Internet, del software e dell’elettronica, è sempre e un luogo di sperimentazione e di forte innovazione.
Per quanto riguarda la presenza tra i top 50 di aziende automobilistiche, 14 case automobilistiche fra le prime 50 posizioni, e nello specifico nove fra le prime 20, e tre (con Toyota ci sono Ford e BMW) nella top 10, dimostrano quanto le case automobilistiche siano impegnate nella corsa all’adozione delle nuove tecnologie (mobili e di connettività) per migliorare i sistemi di infotainment di bordo. L’automobile si sta evolvendo nella direzione delle “smart-auto” usando la definizione di Forrester il “quarto ambiente per l’informatica”.
Nella ricerca vengono esplorati altri cinque fattori che sostengono la capacità di innovazione: l’impegno del senior management , la capacità di sfruttare proprietà intellettuale (IP), un orientamento al cliente, forte gestione del portafoglio di innovazione, e processi di sviluppo ben definiti.
Via Tech Economy
È stato l’argomento del giorno: ne hanno parlato tutti, perfino la stampa estera. Le dichiarazioni del presidente di Barilla circa le coppie omosessuali hanno scatenato un’ondata di proteste sul Web che ha valicato le Alpi e attraversato l’oceano, finendo un po’ dappertutto.
Quello che è successo lo si può leggere praticamente ovunque ma, per completezza, lo si può riassumere così. Mercoledì 25 settembre Guido Barilla viene intervistato da La Zanzara, programma radiofonico di Radio 24. Si parla di rappresentazione del ruolo femminile nella pubblicità, un tema sollevato il giorno prima dal presidente della Camera Laura Boldrini, che già aveva dato vita a un certo dibattito. Tra una parola e l’altra, Barilla dichiara che la sua azienda, che si identifica con i valori incarnati dalla “famiglia tradizionale”, non firmerebbe mai uno spot pubblicitario con protagonista una coppia omosessuale. «Se non gli piace quello che diciamo [gli omosessuali], faranno a meno di mangiarla [la pasta Barilla] e ne mangiano un’altra – ha detto Barilla – Ma uno non può piacere sempre a tutti». Le parole di Barilla non sono andate giù né a parte dell’opinione pubblica né tanto meno alle associazioni per i diritti civili e omosessuali. Ma la reazione del Web è andata oltre ogni previsione: come una fiammata l’hashtag #boicottabarilla è diventato virale e quello che è successo poi, lo sappiamo tutti.
La questione ha scatenato un gran polverone, ma al di là delle polemiche e dei giudizi sul concetto di famiglia, sulle parole di Guido Barilla e sulla reazione del Web, la faccenda di Barilla si presta bene a una riflessione su quello che è successo – o meglio, che non è successo – sui profili social di Barilla, Facebook in particolare. Due precisazioni: la prima è che, in linea con lo scopo di questa rubrica, si parlerà esclusivamente di come la questione abbia impattato sulla comunicazione del brand sulle proprie pagine Facebook. La seconda è che questa analisi prende in oggetto quanto successo nella giornata di giovedì 26 settembre, più o meno dalle undici di mattina fino alle sei di sera.
Dunque, ricostruiamo la dinamica. L’intervista di Barilla per Radio 24 va in onda mercoledì sera. Subito dopo, sulla pagina Facebook dell’emittente radiofonica, cominciano ad apparire i primi commenti di coloro che non hanno gradito. Già a questo punto, il brand manager dell’azienda emiliana avrebbe dovuto mettersi in pre-allarme e pensare a una strategia comunicativa per correre ai ripari. Sulla pagina ufficiale di Barilla, però, è una tranquilla serata come tante. L’indomani, giovedì mattina, Radio 24 rilancia l’intervista della sera prima e scoppia la bomba: non è più sera, quando tutti sono impegnati a fare altro, adesso tutti sono davanti al computer, sono all’erta. La faccenda diventa virale, nasce l’hashtag #boicottabarilla e la conversazione, letteralmente, esplode.
E sulla pagina Facebook di Barilla che succede? Niente. O meglio, niente che porti la firma di Barilla, visto che la pagina rimane inchiodata al giorno precedente. In compenso, però, gli utenti si stanno dando un gran daffare, lasciando commenti di fuoco su qualsiasi post capiti loro a tiro. Sono più o meno le undici di mattina. E, ancora per moltissime ore, sulla pagina ufficiale di Barilla ci sarebbe stato una specie di deserto, popolato soltanto dalle sonore proteste degli utenti.
Questo non perché i social media manager di Barilla fossero scappati in un bunker anti-atomico con tre scatole di razioni K in attesa di tempi migliori: molto probabilmente i responsabili della comunicazione sui social media di Barilla hanno ricevuto precise indicazioni dall’alto o, anche, è possibile che di indicazioni non ne abbiano ricevute affatto. Il tema è delicato, e in casi come questi si aspettano – e ci si deve aspettare – le direttive dai vertici su come affrontare la crisi, su cosa comunicare e come comunicarlo. Personalmente immagino una catena decisionale diventata improvvisamente lunghissima, che ha rallentato tutte le mosse. Questa è solo una mia supposizione: potrebbe anche essere Barilla abbia “strategicamente” scelto di temporeggiare.
Nel frattempo, però, sul web si scatenava il finimondo: mentre la polemica prendeva forza e #boicottabarilla diventava sempre più virale, altre aziende hanno colto la palla al balzo, volgendo abilmente il “crollo” di Barilla a proprio favore. Una trovata geniale dal punto di vista del marketing, che ha preso il payoff più famoso di Barilla, lo ha accostato all’oggetto del contendere e ha risolto la crisi mettendoci il proprio brand. Una strategia comunicativa che, di certo, non è stata solo un’iniziativa dei social media manager di Althea: l’idea, a chiunque sia venuta, sarà stata certamente presentata e approvata dai vertici dell’azienda, decidendo di “prendere posizione” sposando questa linea comunicativa. Merito, forse, di una catena decisionale più corta e snella, che ha permesso a dirigenti, creativi, grafici e social media manager di agire con un tempismo perfetto?
Certo, va detto che Althea non è Barilla: Barilla è una multinazionale, un colosso del settore alimentare e per questo agisce con tempi e modi diversi. Ma una crisi, quando arriva, non rispetta le gerarchie né i piani di comunicazione, e forse si sarebbe dovuto prevedere un protocollo d’azione diverso, visto che su Facebook, intanto, continuava la presa della Bastiglia degli utenti.
[Sempre per restare in tema di instant marketing, anche Pasta Garofalo e Misura hanno colto la palla al balzo. Quindi non si può dire che Althea si è potuta permettere di agire in fretta perché è un “ecosistema” più piccolo. Più verosimilmente, le strategie comunicative interne ed esterne delle tre aziende sono diverse. E, in questo caso, sono state più efficienti ed efficaci].
Guido Barilla rompe il silenzio poco dopo le 14 di giovedì pomeriggio, con un comunicato stampa in cui porge le proprie scuse per il fraintendimento e perle polemiche generate dalle sue parole, rinnovando il rispetto per gli omosessuali e la liberà di espressione di chiunque. Questo comunicato non comparirà sulla pagina Facebook di Barilla che poco prima delle 16.30. Perché tanto ritardo? L’idea che passa è che l’azienda si sia dimenticata di essere e di comunicare sui social media, quegli stessi social media che, da ore, stavano attaccando il brand in tutti i modi possibili. Si tratta di una comunicazione molto fredda, distaccata, un comunicato stampa incollato in uno status che quasi stona in mezzo a tutti gli altri post della pagina che, invece, puntano sulle immagini, sul calore, sul coinvolgimento degli utenti. Non si tratta di una comunicazione sobria per mettere fine a una crisi, si tratta di una comunicazione arrivata ben oltre il tempo utile e che, purtroppo per Barilla, è servita a poco.
Non solo. In capo a quelle poche ore, giovedì, il boicottaggio contro Barilla è andato ben oltre i confini italiani: stiamo parlando di un brand italiano conosciutissimo all’estero, spesso associato con l’idea stessa della cucina italiana. Ne hanno parlato in Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, in Germania. Dalla Francia è addirittura partita una petizione. Gli utenti arrabbiati si sono riversati in massa sulle relative pagine locali, che Barilla ha sempre gestito con grande profitto. E anche qui, purtroppo, Barilla ha taciuto. A questo punto verrebbe da manifestare tutta la propria solidarietà ai social media manager di Barilla che, probabilmente, hanno assistito per un giorno intero a gran parte del proprio lavoro che finiva in fumo. Barilla ha sempre avuto una forte presenza sui social, lavorando sul coinvolgimento dei fan, raccontando il brand e i suoi prodotti. Insomma, un gran lavoro di corporate storytelling che ha sempre avuto successo fin dai tempi della pubblicità col gattino, e che ha saputo trasporre con grande maestria anche sui social media.
Purtroppo però, questa crisi ha evidenziato tutte le falle della strategia di Barilla che, non agendo in modo tempestivo, ha minato i risultati di mesi, di lavoro, compromettendo la fiducia di quegli utenti – di ambo le “fazioni” – che si aspettavano una risposta o quantomeno una reazione di qualsiasi tipo, dalla classica “marcia indietro” alla riaffermazione dei propri valori. Ma restare in silenzio davanti a quelli che ti accusano – o che ti sostengono – è un rischio: la conversazione su di te continuerà senza di te e ognuno si farà la sua idea senza che tu possa farci niente.
Risposte che, ovviamente, non potevano venire dalla semplice iniziativa dei social media manager, costretti a “restare a guardare”, e ad aspettare che arrivasse qualcuno a dar loro le direttive necessarie per affrontare la débâcle. Mentre i loro competitor, professionisti come loro, agivano con precisione quasi chirurgica semplicemente perché messi nelle condizioni di farlo.
E se questo purtroppo è successo sulla pagina Facebook italiana, figuriamoci su quelle per l’estero, dove oltre al tempo fisiologico di reazione per capire cosa diavolo fosse successo, c’erano di mezzo anche i fusi orari e una certa dose di disorientamento.
Quello che gli utenti hanno percepito, per tutta la giornata di giovedi, è stato quasi come un abbandono della nave da parte del brand, che ha lasciato i propri profili – la propria identità sul web così faticosamente costruita – in balia degli eventi.
Lesson Learned: Azienda, sul web tutto accade molto più velocemente di quanto tu possa pensare. Dòtati di un protocollo anti-crisi che faccia da ombrello ovunque tu sia presente e, soprattutto, fai in modo che i tuoi social media manager possano agire con quella rapidità necessaria per stare al passo con le conversazioni sui social media.
Via Tech Economy
Debutta online Twigis.it: è un social network dedicato ai bambini con un'età fra 6 e 12 anni dove possono incontrarsi e sviluppare la creatività. Rivela un territorio con opportunità ancora da esplorare che vive accanto al web accessibile invece a tutti i navigatori online.
È un luogo protetto e dedicato ai più piccoli per conversare tra loro. Le attività su Twigis I bambini sono in grado di costruire fumetti animati e condividerli. Oppure frequentano mondi virtuali dove scrivono attraverso chat. Hanno una posta elettronica personale che adoperano per scambiarsi messaggi soltanto all'interno della loro community e senza contatti con l'esterno. Partecipano anche su blog e hanno a disposizione giochi. Ogni utente ha un suo profilo: può aggiungere un'immagine e disporre di monete digitali. Twigis.it ha una bacheca dove commentare i primi giorni di scuola.
Il social network all'estero si chiama Tweegee.com e finora è arrivato in Argentina, Brasile, Egitto, Giordania, Israele, Russia, Turchia. Ha 4 milioni di iscritti nel mondo. Riservatezza online Twigis.it assicura un solido livello di privacy. I commenti pubblici condivisi nella piattaforma sono esaminati da moderatori adulti prima di essere visibili sul web: controllano i contenuti ed eventuali tentativi di acquisire dati dall'esterno. Ha policy elevate nella gestione delle informazioni personali in modo da tutelare i minori. Ad esempio non distribuisce i "cookies" impiegati per riconoscere gli iscritti quando si connettono a un sito web. Inoltre monitora eventuali anomalie nell'attività degli utenti: può sospendere i profili interni e ha una collaborazione con la Polizia Postale.
La trasformazione digitale Per quanto riguarda lo scenario socio-antropologico, come ha spiegato Giuliano Noci, professore ordinario di marketing al Politecnico di Milano, il mutamento in corso alimentato dalla diffusione dell'information technology rivela in profondità – osserva Noci - "un cambiamento sociale abilitato dalle tecnologie digitali" che plasma le modalità di apprendimento e di formazione.
Via IlSole24Ore.com
Il mondo web è sempre più ricco e potente, tanto che molti personaggi della rete sono considerati tra i più influenti al mondo. A ulteriore dimostrazione di ciò, la classifica degli under40 più potenti stilata da Fortune: il podio è tutto appannaggio dell’hi-tech digitale.
In testa alla graduatoria si trova Marissa Meyer, classe 1975, che in un anno è riuscita nella non facile impresa di resuscitare il fascino (e soprattutto i conti) di un colosso come Yahoo!, con 22 acquisizioni e innovazioni sparse. Prima di lei, la compagnia aveva vissuto un quinquennio di oblio, dopo i fasti degli albori della net economy
Alle sue spalle, il duo dei social network: Jack Dorsey, nato nel 1976 e ceo di Twitter, e Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook e decisamente il più giovane del lotto, con i suoi 29 anni. Il primo prepara l’arrivo a Wall Street della sua creatura, che conta sempre più utenti e ha rivoluzionato l’informazione online, il secondo si gode la sua creatura, ormai diffusa ovunque e usata da chiunque. I tre prodigi dell’informatica e della tecnica guidano una realtà sempre più web dipendente: il potere, oggi, è internet.
Via Quo Media
Ormai sono passati diversi giorni dalla fine delle vacanze e, visto che quest’anno non ho scritto nulla per congedarmi prima della pausa, torno ora con una riflessione che parte dal personale per poi andare di nuovo alla strategia e al contesto.
Non posso dire di non essermi riposato, ho passato un bel periodo al mare in piu località mentre tanta gente non è andata magari nemmeno un giorno in ferie. Mi ha fatto molto bene, ne avevo bisogno, e ho anche osservato un po’ che cosa succedeva intorno, in senso fisico e virtuale.
immagine tratta da MyTech Panorama
Quel che ho notato, da persona abituata da almeno 7-8 anni ad avere sempre al seguito dei dispositivi per connessione mobile, che quest’anno tante persone erano collegate per motivi di svago ma inevitabilmente anche di lavoro, tanto che a ogni out of office automatico seguiva quasi subito una risposta personale. Quasi tutti i giorni del mio periodo di ferie, compresi weekend, un sintomo che è sempre più difficile staccare.
Ho però notato anche che grazie all’essere sempre connessi ho scovato posti interessanti nei dintorni dove mangiare, ho trovato velocemente servizi che mi potevano servire in loco, insomma potenziato la mia esperienza di vita in quei contesti, senza dimenticare la maggiore costanza dei contatti con amici e persone care anche dall’estero. Tutto questo più che altri anni grazie al migliorare di certi strumenti e alla loro maggiore diffusione.
immagine tratta da http://blog.tagliaerbe.com
Questi due concetti, l’incapacità (impossibilità mi pare ancora troppo) di staccare e insiemel’opportunità di migliorare l’esperienza contestuale durante la vacanza mi hanno dunque fatto riflettere sul rapporto che noi abbiamo con la tecnologia che ci tiene connessi, che alla fine è unostrumento che può essere riempito da ciò che noi vogliamo metterci. I Social media ad esempio non sono altro che un contesto vuoto dove la gente mette del proprio, ma anche il pioniere dell’interfaccia grafica e del mouse Douglas Engelbart quando creò le basi per quella rivoluzione pensava che la gente avrebbe preferito usare la potenza di elaborazione dei computer per…farci ciò che voleva, al di là delle righe di comando testuali. Il problema certo è che oggi siamo esposti a una quantità di stimoli interattivi che cresce in modo spaventoso e ci segue dovunque, vanificando talvolta l’opportunità di sganciarci solo perché “non c’è rete internet e non mi porto il computer”.
E qui allora entra in gioco il tema strategico e aziendale: essere rilevanti.
Lo ha scritto, per l’ennesima volta, pochi giorni fa Brian Solis, dicendo che non bisogna cadere nella trappola della tecnologia in quanto tale (un mezzo) perdendo di vista il modo in cui possiamo essere davvero interessanti, utili, diversi dagli altri.
immagine tratta da http://bordiniuc.com/
Perché nel pieno delle mie conversazioni con gli amici dovrei dare ascolto a quanto scrive un brand su di un social? Perché nella selva delle mie app sullo smartphone devo aprire proprio la tua? E soprattutto, se domani il social su cui passo le mie ore passa di moda, tu, brand, hai investito per tenermi con te di là del mero singolo strumento utilizzato? Quanto sai davvero di me? Quanto sai interagire nel contesto in cui mi trovo, ossia il famoso so.lo.mo. I momenti vuoti in cui l’attenzione e le energie cognitive sono libere scarseggiano sempre di più, tanto che c’è chi guardando la gente alle fermate dei mezzi pubblici intente a smanettare ciascuno sul suo smartphone parla dell’avvento di un mondo di introversi.
Per tutti questi motivi, occorre una comprensione sempre più profonda dei mezzi tecnologici e una capacità insieme di pensarli in una chiave che permetta di generare, se non benessere, almeno utilità e coinvolgimento al nostro famoso “target” (ne abbiamo davvero uno solo?) che li usa. È una questione di rispetto, una grande opportunità, una sfida difficile (anche sul piano organizzativo).
Voi che ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via InternetManagerBlog
L’Italia è più social degli USA. Lo rivela una ricerca che LiveXtension ha effettuato intersecando i dati offerti dal report Pew Research 2013 (aprile-maggio) a quelli del rapporto
Audiweb del giugno 2013. Il 75% della popolazione italiana connessa fa uso delle reti sociali contro il 72% di quella americana; tutto ciò non deve stupire più di tanto: che gli italiani fossero primi al mondo per frequentazioni di social network è ormai risaputo, Nielsen lo ha già evidenziato alla fine del 2011.
La parte interessante del rapporto LiveXtension riguarda gli utenti di età compresa tra i 50 e i 64 anni di età i quali, in Italia, sono avvezzi all’uso del social networking in ragione del 75% contro il 60% degli americani. Differenza di tutto rispetto che, benché con diversa ratio, si applica anche agli “over 64”: in questo spettro di età gli italiani attivi sono il 60% contro il 43% dei coetanei statunitensi.
I dati sono interessanti ma non giustificano entusiasmi: offrono la conferma che i social network sono ormai un fenomeno di massa anche alle nostre latitudini ma non hanno nulla a che vedere con il diffondersi della cultura digitale la quale, al netto delle difficoltà oggettive quali il digital divide, in Italia resta ancora al palo.
Come a dire che possiamo estrarre la bottiglia dal frigorifero ma che è ancora presto per stapparla.
Via IlSole24Ore.com
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