Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Una recente ricerca pubblicata da ACNielsen su oltre 21.000 consumatori di 42 Paesi ha eletto Giorgio Armani e Gucci i marchi della moda più desiderati al mondo, a testimonianza del fascino e dell’attrazione esercitata dal made in Italy.Questo sondaggio, condotto on-line coinvolgendo utenti di Europa, Asia Pacifico, Sud Africa, Medio Oriente, Stati Uniti e America Latina, mostra una sostanziale convergenza in termini di consensi a dispetto dell’eterogeneità delle zone considerate. Solo il 12% degli intervistati acquista effettivamente capi dei brand vincitori, ma ben il 30% dichiara che comprerebbe volentieri se potesse permettersi la spesa.Il richiamo all’evocatività dell’immagine e alle sensazioni che questa è in grado di provocare nell’acquirente costituisce un'arma competitiva fondamentale per emergere nel volubile mondo della moda, dove tendenze e stili mutano con estrema rapidità. I valori rappresentati dai due marchi rappresentano invece un punto fermo, superando differenze di età e cultura avvicinando i consumatori di tutto il mondo.
I motivi del successo di Armani e Gucci, secondo Frank Martell, Presidente e CEO di ACNielsen Europa, sono legati alla capacità dei due marchi di proporre un’immagine forte e apprezzata, andando quindi oltre l’essere una semplice griffe di moda. Indipendentemente dalla localizzazione geografica molti consumatori quando comprano un prodotto Armani o Gucci sono condizionati (o meglio ispirati) dall’immagine e dal forte appeal globale che questi brand posseggono. Armani in particolare sembra proporre un vero e proprio stile di vita, differenziando la propria linea di offerta fino a comprendere la ristorazione, l’arredamento e gli alimentari. Oltre a costituire un’utile strategia in termini di business in questo modo lo stilista esercita un forte fascino sul proprio pubblico, proponendo uno stile di vita raffinato e contemporaneo in grado di fidelizzare un consumatore sempre più esigente e difficile da conquistare.
Un approccio alla comunicazione più emozionale può portare vantaggi concreti ad un brand? Roberto Venturini analizza le implicazioni del Lovemark.Nel mondo delle agenzie di comunicazione, è corrente cercare di costruirsi awareness, credibilitá e differenziazione attraverso lo sviluppo di filosofie innovative, destinate (secondo gli autori) a rivoluzionare il mercatoIn molti casi il tutto si riduce a un certo quantitativo di aria fritta impacchettato con una accattivante "buzzword", confezionato da addetti ai lavori che devono trovare una giustificazione per la propria esistenza o per gli elevati costi del servizio.Il caso del Lovemark, approccio propugnato da Kevin Roberts (CEO di Saatchi & Saatchi), può essere guardato con maggiore attenzione, non foss'altro che per l'impressionante curriculum in campo marketing dell'autore.L’affermazione che Roberts fa è piuttosto forte: le Marche hanno finito la benzina. Ed è necessario guardare ad un futuro oltre le marche (ma attenzione: non un futuro senza le marche - ma un domani con delle “supermarche”…).Identifica nella creazione di un rapporto fortemente emozionale e di lunga durata la chiave per far prosperare la marca. Stabilendo, grazie proprio all'Amore una connessione più profonda con i consumatori.Questo tipo di approccio emozionale è condiviso da un gran numero di addetti ai lavori che riconoscono le difficoltà del marketing del secolo passato, in un mondo in cui le performance di prodotto sono ormai (giustamente) date per scontate e dove prodotti molto economici sono in grado di competere funzionalmente con prodotti ben più "nobili" e di prezzo elevato.Il Lovemark trascende la "semplice" marca. Offre un’esperienza che sorpassa le aspettative di superior performance del consumatore.Come le marche si basa su un forte rispetto da parte del mercato - ma a differenza delle marche più blande, il Lovemark dovrebbe arrivare diretto al cuore, creando una relazione tanto forte da creare una dipendenza affettiva.La ricetta segreta per la costruzione di un Lovemark (oltre, ovviamente, partire dall’assegnazione di un corposo budget alla sua agenzia) si basa su tre ingredienti magici: Il Mistero, la Sensualità e l’Intimità.Una marca un po’ misteriosa, una marca in grado di ricatturare periodicamente la nostra attenzione, sorpassando il rumore di fondo della comunicazione di massa, tenendo elevata la nostra curiosità e la voglia di scoprire le cose che ancora non sappiamo o che possono essere dietro l’angolo.La seconda componente da costruire è quella della sensualità e dell’uso quindi di approcci multisensoriali, disegnando nei prodotti e servizi delle “firme” sensoriali.Passando all’intimità, questa si esplica nella capacità della marca di mettersi in strettissima relazione con le aspirazioni personali e le ispirazioni dei consumatori. Di creare dunque un senso di vicinanza affettiva propria del rapporto di innamoramento umano.Una marca in grado di costruire di se’ un profilo contraddistinto da impegno, da empatia e passione – per poter generare nel cliente (o adepto o, più propriamente, innamorato) una “lealtà al di là della ragione”.In questo senso, una marca così carica di attributi affettivi dovrebbe essere in grado di passare oltre all'inerzia del consumatore, al punto che dovrebbe essere il target stesso a richiedere la comunicazione, entrando nell’ottica dell’Attraction Marketing.Tutto questo dunque si traduce nella capacità di articolare la comunicazione su toni e soprattutto strategie altamente emozionali: lavorare a fondo sulle storie che si devono raccontare, storie chiaramente non “one shot” legate al singolo commercial ma alla comunicazione di lungo termine della marca.E’ grazie a questi elementi che, secondo Kevin Roberts, si riescono a costruire queste supermarche terribilmente attraeneti e in grado di suscitare una fedeltà che rasenta il fanatismo.Funzionerà nella nostra cultura? Ah, saperlo... la teoria (contenuta nel libro “Lovemarks: The Future Beyond Brands" e nel sito www.lovemarks.com) appare interessante, anche se presta il fianco a molte critiche – basandosi sostanzialmente sull’assunto che il consumatore sia pronto ad innamorarsi acriticamente di una marca… ipotesi che in molti paesi (in cui il consumatore si rivela sempre più critico, smailiziato e cinico) direi sara' messa a dura prova.Roberto Venturini
Alcune aziende hanno un marchio così forte da essere entrate nella vita di molte persone, che diventano testimonial più o meno consapevoli del loro brand.Non è una fortuna che capiti a molte, ma se vi chiamate Coca Cola, Nike, Marlboro, Harley Davidson o BMW, ad esempio, molti consumatori saranno entusiasti di possedere gadget con il vostro brand, al punto da esibirli con orgoglio a parenti e amici.Questa influenza del marketing riguarda un po’ tutti: anch’io qualche tempo fa, mentre stavo entrando in sala a vedere un film, mi sono fatto convincere a prendere la confezione maxi di popcorn (che ho strapagato e non sono riuscito a finire) solo per avere in regalo una maglietta rossa con la scritta Coca Cola. Del resto la multinazionale di Atlanta l’anno scorso è stata premiata da Interbrand come il marchio più importante del 2005 e per questo mi sento in parte giustificato.Evidentemente non sono l’unico ad apprezzare gadget di questo tipo perché ho recentemente scoperto, non senza un certo stupore, che esiste un sito dedicato esclusivamente alla compravendita di prodotto marchiati Coca Cola.Il sito si chiama Coca Cola Corner e non è legato in alcun modo all’azienda, ma nelle sue pagine sono offerti, spesso a prezzi sorprendenti, oggetti brandizzati: dall’arredo alle stoviglie, è possibile trovare praticamente di tutto.La cosa interessante è relativa a quanto molti siano disposti a spendere per aggiudicarsi oggetti promozionali di un’azienda, dimostrando un notevole attaccamento al marchio, che è riuscito ad entrare a far parte del loro stile di vita. In questo caso si può veramente parlare di fidelizzazione: clienti come questi sono entusiasti consumatori e testimonial viventi del successo di un brand.
La classifica dei 100 marchi globali di maggiore valore del 2005, pubblicata da Interbrand, vede al primo posto la Coca Cola, con un valore complessivo di 67,5 milioni di dollari.
La seguono a distanza Microsoft e IBM, mentre per vedere il primo marchio europeo, Nokia, bisogna scendere al sesto posto.
Il primo brand italiano, Gucci, si trova al 49esimo posto, mentre alcune griffe nostrane occupano la parte bassa della classifica: Prada (93), la new entry Bulgari (94) e Armani (93).
Trovate la classifica completa qui (grazie Giorgio).
A quanto sembra Intel non è la sola in questi giorni a voler cambiare il logo aziendale. Anche Kodak, il gigante della fotografia, nel corso dell’ultimo Consumer Electronics Show ha presentato ufficialmente il nuovo marchio. Rispetto al precedente il nuovo sembra decisamente più essenziale e moderno, ma anche più impersonale.Vedremo se, come è successo per Intel, l’aggiornamento del logo è il preludio un prossimo riposizionamento al’interno del mercato o se semplicemente si è trattato di una scelta di carattere estetico. Del resto l’azienda ha dovuto affrontare grandi sfide i questi ultimi anni: l’avvento della fotografia digitale ha determinato una notevole diminuzione delle vendite di pellicole fotografiche, settore in cui Kodak deteneva una posizione di leadership, costringendola a trovare nuovi spazi puntando in maniera crescente sull’elettronica di consumo ma anche sui servizi per il settore industriale e medico.
COCA-COLA: il nome del marchio più famoso e più forte del mondo (si calcola il suo valore in 68.9 miliardi di dollari) deriva dal nome della coca, un arbusto sudamericano e da quello della cola, un estratto della noce di kola.
GOOGLE: il nome del motore di ricerca più famoso del mondo deriva dalla parola del gergo matematico googol che indica la cifra formata da un 1 seguito da 100 zeri (10100) : chiaro il riferimento all'obbiettivo di indicizzare un numero di pagine web enorme. Da notare che il termine venne "coniato" dal nipote (di 9 anni) del matematico che introdusse l'uso del googol.
ADIDAS: Adolf Dassler fu il fondatore dell'azienda di abbigliamento sportivo che creò questo nome prendendo spunto dal suo: il suo soprannome era Adi e da Adi e Dassler nacque Adidas.
ALFA: il nome dell'azienda automobilistica italiana è un semplice acronimo per Anonima Lombarda Fabbrica Automobili.
NUTELLA: il nome Nutella nasce nel 1964 per sostituire il precedente "Supercrema Giandujot" (una legge vietò l'uso del suffisso "super" nei nomi per alimenti). La radice del nome è formata dalla parola inglese nut (pronuncia : nàt) ovvero "nocciola", uno degli ingredienti della famosa crema spalmabile. Il suffisso -ella rendeva il nome facile da pronunciare e da ricordare ma soprattutto lo rendeva tipicamente italiano.
KODAK: era il 1888 quando George Eastman mise in commercio la macchina fotografica di sua invenzione, battezzandola in questo modo perché era un nome : "breve, vigoroso, facile da pronunciare e, per soddisfare le leggi sui marchi depositati, non significava nulla".
NIKE: era il nome della dea greca della vittoria. Il logo (il famoso baffo - swoosh in inglese), rappresenta simbolicamente l'ala della dea della vittoria adorata dagli antichi Greci.
SCHWEPPES: molti potrebbero pensare che il nome della famosa bibita effervescente sia onomatopeico e richiami il suono prodotto dall'apertura della bottiglia; in realtà, si tratta semplicemente di un nome patronimico (il produttore si chiamava Jacob Schweppe).
REEBOK: nel 1895, l'atleta inglese Joseph William Foster ideò e iniziò a produrre un modello di calzatura dalla suola chiodata per la corsa veloce. Nel 1958, due suoi nipoti fondarono una seconda società che assorbì la J.W. Foster & Sons e che fu battezzata Reebok, dal nome di una gazzella africana.
M&M'S: il nome delle caramelle al cioccolato deriva dalle iniziali dei cognomi del signor Forrest Mars e del signor Bruce Murrie, i quali, nel 1940, crearono l'azienda chiamata M&M'S CHOCOLATE CANDIES. Una curiosità: il nome d'arte del rapper americano Eminem riprende la pronuncia del marchio (MM sono anche le iniziali del suo vero nome, Marshall Mathers).
LEGO: nel 1934 Ole Kirk Christiansen organizzò un concorso tra i suoi dipendenti al fine di trovare un nome per la compagnia. Vinse lui stesso (...) inventando il nome LEGO, formato dalle parole danesi "LEg GOdt", che significano "gioca bene".
LAMBORGHINI DIABLO: tutti i modelli di casa Lamborghini (tranne la Countach) hanno un nome legato al mondo dei tori e delle corride: in questo caso Diablo era il nome di un toro che nel 1869 nella plaza de Toros di Madrid si scontrò in un duello epico con il torero Jose De Lara detto "el Chicorro".
IKEA: l'azienda venne fondata da Ingvar Kamprad nel 1943; a 17 anni, Kamprad ricevette un premio dal padre per il suo impegno nello studio e lo usò per dar vita alla sua attività. Il nome IKEA è l’acronimo delle iniziali del fondatore (I.K.) e di Elmtaryd e Agunnaryd, la fattoria e il villaggio dove Kamprad crebbe. Inizialmente IKEA vendeva penne, portafogli, cornici, orologi, gioielli, calze di nylon... tutto ciò di cui la gente aveva bisogno e che Ingvar riusciva a procurare a un prezzo ridotto.
BUDWEISER: Adolphus Busch (fondatore dell'azienda) scelse il nome "Budweiser" perché aveva un suono germanico (il che garantiva una birra di ottima qualità) ma era anche facilmente pronunciabile in inglese. In tedesco Budweiser significa "fatta con le gemme" mentre l'abbreviazione Bud indica semplicemente la gemma.
Häagen-Dazs: il nome della nota marca di gelati americana è stato inventato a tavolino dal suo proprietario negli anni '60: sostituì il precedente nome Ciro's per dare un'immagine di qualità nord-europea al prodotto.
[via Nomix]
Milano, 13 dic. (Apcom) - Un nuovo tassello per la diffusione del made in Italy in Cina è stato posto con la creazione del progetto Eurostreet, sostenuto dalla fondazione Italia Cina. Eurostreet - presentato oggi - è un complesso commerciale nella città di Hangzhou realizzato per diffondere marchi del lusso come Dolce & Gabbana, Armani, Alviero Martini, Silvano Lattanzi, Zegna, Corneliani e Ferrari.
Secondo la percezione del consumatore cinese - spiega la Fondazione Italia Cina - il lusso è il settore maggiormente rappresentativo del made in Italy, tuttavia l'Italia non ha potuto sfruttare appieno le potenzialità di questo prodotto, soprattutto a causa di barriere amministrative e commerciali della Repubblica Popolare Cinese. Vista l'esperienza non positiva degli show rooms monomarca si è deciso di puntare su questa esperienza per arrivare al consumatore cinese.
L'avvio è promettente: "all'inaugurazione a ottobre 2005 erano presenti molte autorità cinesi, più del previsto" spiega Cesare Romiti, presidente della Fondazione Italia Cina.
Le potenzialità della Cina sono enormi e ben lontane dall'essere sfruttate appieno. "La Cina è il futuro del mondo - ha affermato Romiti - noi italiano dobbiamo sfruttare appieno la particolare simpatia che i cinesi ci dimostrano". [fonte Virgilio]
Lo studio riguardante le caratteristiche del brand, le opportunità del knowledge management ed il modo in cui questi si stanno evolvendo nel contesto economico della moda, rappresenta un’opportunità per capire un settore che negli ultimi anni si è accampato al centro della vita economica e sociale. Un approccio alla moda basato sul marketing risulta interessante soprattutto quando permette di avvicinarsi maggiormente ad una visione ed una strategia aziendale fondate sulla gestione delle risorse intellettuali, la valorizzazione del capitale umano, le sinergie e l’eccellenza totale. Alla base di ogni teoria di fashion marketing c’è un’attitudine a creare valore, un valore che non è solo economico, ma prima e soprattutto, estetico, morale, universale e fortemente legato alla centralità della persona, dell’umano. Alle conoscenze tecniche ed economiche si affiancano le intuizioni creative ed innovative. C’è bisogno della rinascita degli asset intangibili, spesso sottovalorizzati.
Le moderne sfide nel settore della moda si giocheranno in particolare sulla capacità di saper creare e gestire dei marchi fortemente coerenti con la cultura aziendale. La cultura aziendale dà unicità e deve essere forte e differenziante. Essa deve corrispondere a dei valori che devono essere vissuti dal management per poter essere trasferiti a tutti i livelli dell’immagine e dell’identità aziendale. Nel fashion marketing la ricerca assume un ruolo rilevante poiché aiuta l’osservazione e la comprensione di un particolare contesto, sempre in evoluzione e fortemente aderente ai cambiamenti sociali.
Le ricerche degli ultimi anni stanno cercando di capire in modo particolare il lusso; la moda di lusso. Il consumatore è sempre più disposto, addirittura con entusiasmo, ad investire un premium price in categorie di prodotti dai superiori benefici non solo funzionali, ma soprattutto emotivi, auto-finanziandosi con l’acquisto di prodotti a prezzo minimo in quelle categorie che non rivestono per lui un’importanza particolare (Silverstein e Fiske, 2003). Tra le categorie di prodotto capaci di creare un legame emotivo, un’aspirazione al sogno, i prodotti moda rivestono un ruolo da veri protagonisti. Si sente il bisogno di un neo management della moda proiettato verso questo new luxury, questo desiderio di un lusso sempre più elitario in cui i prodotti medi senza vero valore aggiunto perdono consistenza ed i prodotti di massa si elevano al prestigio potendosi permettere un premium price rispetto ai prodotti tradizionali ma restando molto al di sotto dei beni super-premium.
Il fashion marketing si arricchisce e si estende ad obiettivi sempre più profondi: cercare di accrescere la condivisione di know-how trasversali, identificare il marketing come essenza culturale per la conduzione complessiva del sistema azienda e preparare brand managers (o meglio brand developers) che sappiano incarnare il DNA del marchio andando a riscoprire l’elemento heritage (le origini e la storia) adattandolo al gusto del giorno, ad un lifestyle ed a un social target.
In
questi giorni sto leggendo Cogito Ergo Brand, di Thomas Braun, che recita in
copertina “Da Eraclito a Popper: breve storia filosofica del branding”.
Si tratta di un agile volumetto (meno di 200 pagine) dove le tematiche di brand
management sono accostate in modo inedito alla filosofia occidentale.
Nel tempo libero mi piace leggere libri che affrontino tematiche di marketing,
sia che lo facciano in maniera tradizionale sia che, come questo, approccino
gli argomenti da un punto di vista meno convenzionale. A dire il vero mi aspettavo
una lettura meno impegnativa, ma tra una pagina e l’altra si nascondono
piacevoli sorprese.
Nelle ultima parte trova spazio un breve indice dei filosofi in pillole, dove
aspetti legato al branding sono interpretati alla luce del pensiero filosofico
di grandi pensatori del passato. Mi piaciuto in particolare quanto scritto in
relazione a Kant, che cito testualmente (nome me ne voglia la Etas, sono solo
poche righe e si tratta di pubblicità gratuita):
“Non
impazzite pensando di dover conoscere tutto dei vostri consumatori, mercati
e brand. Vedrete, ascolterete e odorerete soltanto ciò che la vostra
attrezzatura vi consentirà. State piuttosto sistemando le cose in modo
che vi comunichino che cosa volete conoscere?
Ricordate che le “categorie” attraverso le quali percepite il mondo
hanno più a che fare con i modelli mentali che non con la realtà
in se stessa. Spesso i più straordinari cambiamenti avvengono dopo una
modifica della percezione delle “categorie” (ad esempio segmentare
un mercato)”
L’idea
di sistemare le cose in modo che siano queste ultime a comunicare con noi ha
un suo fascino, specialmente quando, come a volte capita, sembra facile perdersi
una marea di dati su mercati, prodotti, abitudini di consumo e quant’altro
nel tentativo di raggiungere un’onniscenza che, nonostante tutto, continua
a sfuggirci. Ma forse se la raggiungessimo davvero non sarebbe più divertente
fare questo lavoro, o no?
Sempre
in tema di pubblicità gratuita tra i tanti posti dove comprare questo
libro vi segnalo questo.
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