Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Internet è sempre stato uno strumento usato per innescare dinamiche di relazione sociale (e infatti la posta elettronica è nata prima delle pagine web). Ed il web è stato subito uno strumento al servizio dello shopping. Molto prima che nascesse l’ecommerce, già si potevano contare numerosissimi siti, forum, liste che riportavano consigli, suggerimenti, dibattiti e condivisioni relative all'acquisto di beni o servizi per il proprio consumo.
Così, proprio per la natura di Internet, è naturale che questi i filoni della socialità e dello shopping abbiano effettuato una convergenza e sia da circa un’anno sotto stretta osservazione il fenomeno del Social Shopping.
Il Social Shopping è una evoluzione dell’e-commerce. Un contesto sociale online dove si massimizza la capacità del consumatore di influenzare negli acquisti gli altri consumatori.
Ha al suo centro la potenza inarrestabile della massa umana collegata e della sua voglia di parlare, di scambiarsi informazioni. Il principio fondante è quello della massa di utenti in grado di decidere, attraverso le interazioni con gli altri utenti, quali prodotti comprare – a livello singolo, a livello di massa e a livello di fenomeno.
E si tratta di tre livelli di influenza che portano con sé delle conseguenze non da poco per il lato dell’offerta.
Il Social Shopping per l’acquisto individuale è la punta dell’iceberg. Si va su un sito, si parla con i propri pari, si leggono recensioni, si decide. Si compra online o in un negozio vero. E spesso ha più influenza la parola del gruppo sociale o dello sconosciuto amico recensore di quanto influenzi la pubblicità, la comunicazione, l'incentivazione del commesso in negozio.
Ma la parte sommersa dell’iceberg la cominciamo a vedere se consideriamo che l'effetto accumulato di questi acquisti individuali innesca il comportamento di gruppo.
Il passaparola quindi diventa un fenomeno di comunicazione di massa, fino a innescare il terzo livello, quello della moda, del badge value, del prodotto di cui non si va a cercare conferma su un sito ma di cui si viene avvertiti proattivamente dagli amici con una mail o durante una chat, quel prodotto di cui si sente parlare sui mass media - il prodotto che la massa collegata, attraverso le proprie interazioni online, ha decretato essere il nuovo status, la nuova killer application, il gadget o il capo d'abbigliamento irrinunciabile.
E qui si intrecciano strettamente i temi del Viral Marketing e del Social Shopping.
Il punto vendita, cioè il così detto PDV o anche POP (point of purchase), un luogo che ha subito profonde trasformazioni, sia dal punto di vista delle teorie dottrinali che lo riguardano, sia per quel che concerne le azioni che in esso vengono condotte, proprio in ragione della nuova prospettiva in cui viene interpretato il rapporto azienda - cliente.
La sempre crescente complessità dei mercati , la scarsità della domanda rispetto all'offerta, la difficoltà di sviluppare un prodotto/servizio che disponga davvero di vantaggi competitivi tali da differenziarlo dai prodotti dei competitors, la facilità con cui gli elevati costi di ricerca e sviluppo vengono abbattuti dai followers che entrano nel mercato "copiando" il prodotto innovativo (soprattutto per beni ad alta tecnologia), sono solo alcuni dei tanti fattori che spingono le aziende a curare il rapporto con i client acquisiti in modo approfondito e costante, cercando di interpretarne quei bisogni e deisideri che spesso anche lo stesso cliente non avverte in maniera chiara, o dei quali non apprezza fino in fondo le origini o la natura.
Molto si è scritto circa il così detto "killer silenzioso" (il cliente insoddisfatto che, attraverso un processo "viral" di passaparola negativo, è in grado di influenzare i prospect dell'azienda), e altrettanto si è detto sulla maggior difficoltà delle tecniche finalizzate ad acquisire nuovi clienti rispetto a quelle, meno onerose, per trattenere i clienti acquisiti (il che, in mercati saturi, appare assolutamente basilare).
La popolarità di questi temi (CRM, loyalty programs, brand awareness, etc), testimonia come il marketing sia definitivamente orientato ad un' ottica relazionale piuttosto che, come in passato, ad una di carattere transazionale; se in un primo momento le azioni poste in essere sono finalizzate a determinare un flusso di cassa in entrata per l'azienda, e cioè a conseguire un risultato economico immediato che si realizza con la vendita, successivamente ci si convince che la relazione tra cliente ed azienda debba andare oltre il trade momentaneo, costruendo un rapporto, una reciproca conoscenza.
L'obiettivo non è più, soltanto, quello di vendere e conquistare nuove porzioni di mercato, ma anche acquisire informazioni su preferenze, abitudini d'acquisto, moventi d'acquisto del consumatore, in modo che i dati raccolti possano orientare l'azienda nell'adozione delle proprie scelte strategiche.
In quest'ottica il POP non è più il luogo dove un bene incontra il proprio acquirente, ma quello in cui: il consumatore, appagate le proprie esigenze funzionali, ricerca la soddisfazione di bisogni ulteriori rispetto a quelli direttamente connesi alle caratteristiche tecnico-naturali del bene; l'azienda continua nella costruzione di un rapporto dialettico con il suo cliente, alla ricerca di indicazioni ed informazioni in grado di comporre o ridurre la complessità dello scenario in cui si trova ad operare.
Gian Maria Sulas
A fronte di tutto questo fermento sul fronte del Consumer Generated Marketing, c'è chi già le spara e sostiene (un'altra volta) la fine delle Agenzie.
Io direi che, almeno per il presente, non spariranno. Intanto perchè godono di un potere troppo istituzionale nel mondo dei media, che occorrerebbero anni a disintegrare.
Ma anche perchè mancano al consumatore quegli skills e sopratutto quella visione oggettiva e trasversale al mercato che ha il (buon) professionista della comunicazione.
Il consumer rischia di creare quello che piace a lui e non quello che piace (e funziona) al mercato. Oddio, però a pensarci bene... lo fanno anche tanti creativi di lusso che conosco...
Di certo però, il coinvolgimento del consumatore nelle attività della marca crea quei legami affettivi e di interazione che sono spesso preziosi per trasformare un brand “normale” in una superstar.
Non solo: l’autoproduzione di contenuti, che rappresentano molto esplicitamente il proprio modo di essere e la propria visione (o reportage) sul mondo reale che circonda l’uso e la percezione di un prodotto di marca, potrà aiutare molto il lavoro dell’azienda – fornendo una serie di utili spunti al marketing su come il consumatore (o una avanguardia) vede la marca, come la vede usata e commentata, come ritiene dovrebbe comportarsi e comunicare con il pubblico … dando quindi segnali ed informazioni altrimenti ben più difficili da cogliere con altri strumenti di ricerca di mercato o di analisi etnografica.
Sta emergendo la tendenza, da parte dei media, a far sì che la Generation Content lavori non solo per i propri siti o i propri blog... ma che si trasformi un uno stuolo di autori che lavorano per riempire di contenuti media più "istituzionali".Tra gli esempi più eclatanti di questa tendenza, è l’ esperimento di Current TV, la televisione via cavo dell’ex-vicepresidente americano Al Gore.Questa emittente è destinata ad un target “smart” 18-34 ed ha, tra i suoi punti qualificanti, la partecipazione (a pagamento) degli utenti nella generazione di contenuto e pubblicità.Le regole sono semplici: tutti gli utenti del sito possono inviare i propri commercial autoprodotti, a condizione che siano centrati su una delle marche sponsor del sito.Se il filmato piace alla marca e all'emittente, lo spot viene messo in onda e il creatore riceve 1.000 dollari. Se poi lo spot piace molto lo sponsor può decidere di metterlo in onda anche su altri media… e il creatore ricevere fino a 50.000 dollari (cifra peraltro difficile da raggiungere e comunque modesta per una grande azienda).Tra i primi sponsor Sony – con una operazione di perfetta integrazione prodotto/comunicazione (il prodotto videocamera è lo strumento per fare la pubblicità a sé stesso…e Sony ha inserito nel sito ampi tutorial per aiutare ad usare meglio e più creativamente il proprio prodotto).Sempre su un fronte analogo, l’attività di coBRANDiT, una agenzia che compra (a 100 dollari al pezzo) clip, documentari, pubblicità, materiali autoprodotti dal pubblico, per poi rivenderli alle aziende, ai media online o offline, per utilizzarli in ricerche etnografiche che esplorano il mondo della marca.
Alcuni big spender della pubblicità non si accontentano più: non basta che il testimonial metta a disposizione la propria immagine e notorietà per promuovere i loro prodotti, ma deve idealmente diventare parte integrante del processo creativo, contribuendo alla realizzazione di un suo modello unico.Tra le aziende che anno trasformato il testimonial in designer spiccano la catena di abbigliamento di tendenza low cost H&M, con una tuta ideata da Madonna e venduta tra l’altro al popolare prezzo di 49,90 €, ma anche Damiani, che nel 2000 ha iniziato a commercializzare la fede nuziale disegnata da Brad Pitt per il proprio matrimonio con Jennifer Aniston, o Tag Heuer, con il golf watch realizzato in collaborazione con il campione Tiger Woods.Queste iniziative si sono rivelate soddisfacenti anche in termini di risultati di vendita, al punto che la tuta di Madonna è riuscita in breve tempo imporsi come oggetto di culto,mentre Brad Pitt, a dispetto del divorzio dalla Aniston, continua ad essere codesigner della linea D.Side di Damiani e Bernard Arnault, durante la presentazione dell’ultima semestrale di Lvmh (il gruppo che controlla Tag Hauer), si è dichiarato compiaciuto dei risultati raggiunti grazie alla collaborazione con Woods.L’utilizzo del testimonial dal resto è da sempre uno strumento efficace per catturare l’attenzione del grande pubblico, a maggior ragione quando la celebrità contribuisce alla realizzazione di un modello che porta il suo nome. Quando però una marca prestigiosa ricorre ad un importante testimonial in veste di designer è fondamentale che il prodotto finale non deluda le aspettative che ha generato, altrimenti potrebbe rivelarsi un’operazione controproducente per entrambi le parti.
Via Economy
Da adesso lo spot televisivo si compra "off the shelf", già pronto...Una volta si andava tutti dal sarto, a farsi fare i vestiti su misura.Poi è arrivata l'industria della confezione - dove non solo ci sta bene di comprare capi fatti in grande serie e che non si adattano perfettamente alle nostre forme - ma godiamo del indossare esattamente lo stesso capo che milioni di altre persone indossano.Se l'abito non fa il monaco, la comunicazione fa l'azienda - e la regola storica della comunicazione TV era quella di investire tempo e denaro per farsi realizzare uno spot ad hoc, strategicamente e creativamente adatto a noi (sempre che l'agenzia fosse brava e curasse i nostri interessi, non solo i suoi).Le cose stanno però cambiando: Spot Runner, una startup di San Francisco (e mi pare non sia la sola) propone ai clienti di comprare degli spot già belli e pronti, a scaffale.L'azienda sceglie dal sito, il commercial che più gli piace e se lo fa solo personalizzare (modello Vistaprint). In aggiunta Spot Runner si può occupare anche della pianificazione media, il tutto a partire dalla ridicola cifra di 500 dollari - anche grazie alla capacità del sistema informatico di Spot Runner di lavorare sugli spazi televisivi invenduti (e quindi che vengono via per poco)Insomma una comunicazione che magari non ci starà benissimo addosso, sarà un po' generica, sarà quasi identica a quella di altre aziende... ma che ha il vantaggio di costare poco.E sospetto che, rispetto al lavoro che possono fare "ad hoc" certe agenzie da poco e poco professionali, il danno che può fare Spot Runner all'azienda non sia maggiore... (quanto ai risultati.. beh si sa, quella è un'altra storia - e spesso un terno al lotto).
Un altro strumento interessante ma un po’ complesso ( se ne sta discutendo in questo periodo anche su mlist) è l’accoppiata poster col Bluetooth - che permette alle affissioni di dialogare con i nostri telefonini.
In molte città europee si possono incontrare degli impianti speciali che ci richiedono di attivare il Blutooth del nostro cellulare. Fatto questo, il poster potrà inviare contenuti multimediali pubblicitari al nostro telefono ( o PDA), files, buoni sconto, jingle o spot.
Ah, questa forma di comunicazione, ovviamente ha un nome in codice: "Bluecasting"
Permettendo al poster di collegarsi al telefonino è possibile scaricare materiali di comunicazione come spot, un salvaschermo sviluppato per l'occasione, suonerie per i cellulari...
Qualche link utile:
Digital Lifestyles
Wall Street Journal
Cosa ne dicono gli altri blogger...
Che siano Telefonini, GPS, o poster, le forme di comunicazione di cui ho dato dei cenni presentano un elemento in comune. Questi approcci di comunicazione contestuali alla location offre un significativo vantaggio rispetto ad altre forme di advertising precedentemente ipotizzate, specificamente nella loro mancanza di intrusività.
Erano infatti stati spesso vaticinati modelli di pubblicità basati sull'invio di SMS in modalità "push", in cui un sistema collegato al provider telefonico avvertiva la prossimità del cellulare ad un punto sensibile (ad esempio un negozio) e automaticamente inviava a quel cellulare un messaggio pubblicitario in merito.
Questo tipo di comunicazione non è in realtà mai stata introdotta significativamente sul mercato, anche per il timore di reazioni negative da parte dell'utente, che avrebbe probabilmente percepito questa attività come "spam", per di più in un luogo tanto privato come il cellulare, in cui l'arrivo di messaggi indesiderati tende a provocare reazioni fortemente negative.
Le nuove forme di pubblicità ora proposte sono invece basate su un modello "pull" in cui è l'utente stesso a richiedere la comunicazione, rispondendo perfettamente al detto "La pubblicità è una gran seccatura...fino al momento in cui hai bisogno di essere informato su un prodotto. In quel momento diventa Customer Service".
Magliette e ancora magliette?? Ma no, la maglietta è stato lo spunto per introdurre quest'argomento così complesso che è il merchandising, la comunicazione del marchio tramite gli oggetti non avviene solo con una maglietta! Quest'ultima è un veicolo, il mezzo per trasmettere il messaggio, certo è un buon mezzo, ha un'alta probabilità di essere usato ma non è certo l'unico!Ho detto usato?!? Ebbene sì, un oggetto non ha senso di esistere se non viene utilizzato, se non circola non promuove un bel niente, anzi può anche generare l'effetto contrario, un oggetto insignificante, brutto o troppo banale, può portare un'immagine negativa! Ne consegue che le magliette, così come tutti gli oggetti promozionali, devono essere utilizzati. Ma dimentichiamoci, ora, le magliette e cerchiamo di approfondire l'oggetto promozionale, saliamo di un livello e facciamoci qualche domanda. Un'azienda, quando decide di entrare nel mondo degli articoli promozionali dovrebbe farsi almeno queste quattro domande:• Perché voglio personalizzare un prodotto?• Cosa voglio comunicare?• A chi devo comunicare?• Che articolo scelgo?Ma vediamo una per una il ragionamento che c'è dietro:Perché personalizzare un prodotto?I motivi possono essere svariati: semplice emulazione, "tutti lo fanno quindi vuol dire che a qualcosa serve ." O.k. un'ottima ragione, però ci possono anche essere delle motivazioni più serie, per esempio: "voglio che il cliente abbia sempre con sè qualcosa di mio che mi faccia rimanere nel suo set di scelta" (mi viene da pensare a quella canzone di Battisti ".E nel far le valigie ricordati di non scordare qualche cosa di tuo che a te poi mi faccia pensare.") sino ad arrivare a "voglio che quest'oggetto sia il mio simbolo, contenga in sé i miei valori ed il mio potenziale cliente, usandolo, capisca - CHI - sono". Ovviamente queste sono solo alcune delle motivazioni, ogni azienda dovrebbe cercare le sue ogni volta che si avvicina all'idea di produrre degli articoli a marchio proprio.Cosa voglio comunicare?Se per esempio mi sono accorto che il mio marchio non è conosciuto presso una categoria di utenti ed ho deciso di usare la leva degli oggetti personalizzati per farmi conoscere (ho così risposto alla prima domanda.), utilizzerò il mio marchio ben visibile su quei prodotti che possono, con maggior facilità, circolare presso il target scelto. Per esempio tra i giovani, sino a poco tempo fa, erano molto in voga i porta-badge utilizzati poi come porta-cellulare o portachiavi al punto che erano collezionati o "esposti" tutti contemporaneamente attaccati alla tasca dei pantaloni. L'unica cosa da prendere in considerazione anche quando si vuol "solo" far circolare il marchio è che non si deve dar nulla per scontato, soprattutto se tale circolazione è voluta perché il marchio non è conosciuto. In questo caso la scarsa conoscenza di cosa fa l'azienda renderebbe vana l'azione, si dovrebbe, quindi, associare un pay off (ci viene da pensare a "il posto più morbido dove mettere il naso"), una frase che molto sinteticamente ci rappresenti e faccia capire cosa facciamo (senza poi escludere un rinvio ad internet in modo da ottimizzare al massimo la comunicazione).A chi devo comunicare?Abbiamo detto perché (brand awareness), abbiamo detto cosa (marchio, pay off, sito web) ci manca l'ultima domanda, molto importante per arrivare all'oggetto. Chi è il target della comunicazione? Senza questo elemento potremmo scegliere l'oggetto sbagliato, finire nel dimenticatoio e, peggio ancora, avere un ritorno di immagine negativo. Cosa direste se ad un evento dedicato agli ultra cinquantenni ci presentassimo con un porta badge? (Ce l'aveva proposto il venditore come "l'articolo più in voga del momento".) Bellissimo, sì, chi lo riceve è sicuramente contento . è gratis . Ma poi dove credete che finirà? Penzolante dalle tasche dei pantaloni di quest'attempato signore o in qualche cassetto pieno di inutili cianfrusaglie?Che articolo scelgo?Finalmente ci siamo! Abbiamo oculatamente risposto a tutte le domande, non abbiamo ceduto all'emozione o alle insistenze di un caparbio venditore, ci siamo chiariti le idee ed ora dobbiamo scegliere l'articolo e . "finalmente vedrò il mio bellissimo marchio stamp. Si ma cosa scelgo, ho visto interminabili cataloghi di gadget, abbigliamento, impermeabili, ombrelli aiutoooo".Ebbene sì, rispondere alle domande precedenti era, forse la cosa più facile, scegliere ora nel mare magnum delle possibilità è un'altra storia.E per questo ci siamo noi! Abbiamo pensato di approfondire e scomporre razionalmente ogni prodotto, cercando di capire quali sono le variabili chiave che fanno di un prodotto un buon articolo promozionale.• Compatibile col target• Facile da personalizzare• Innovativo• Impattante• Utilizzabile• Visibile• Emozionale• LanciabileOvviamente non tutte queste variabili dovranno essere presenti in un oggetto, nello schema vediamo che il cerchio si stringe sempre più man mano che andiamo ad aggiungere un'altra variabile. Abbiamo già accennato alla compatibilità col target , ogni prodotto deve essere rappresentativo del target che vogliamo colpire, in caso contrario l'omaggio non avrà alcun effetto ed avrete sprecato l'investimento.La facilità della personalizzazione è una variabile auto-controllata, generalmente chi vi propone un oggetto saprà che è personalizzabile, se invece siete voi a sceglierne uno dovete ricordarvi che un articolo difficile da stampare renderà sicuramente l'operazione più costosa se non addirittura infattibile.Un'altra buona regola è che scegliate un articolo innovativo che, possibilmente, non sia presente nel vostro mercato di riferimento, le cose nuove, in linea di massima attraggono di più ma ricordatevi che questa regola deve sempre prendere in considerazione il vostro target.Se c'è qualcosa che vi ha attratto di un oggetto ve lo ricorderete meglio, ecco la 4 variabile, un oggetto deve essere impattante.Se pensiamo al nostro target, se lo conosciamo bene, possiamo visualizzare tutti i momenti della sua giornata, quali sono i suoi gesti quotidiani, cosa usa di più durante il giorno e potremo compilare una lista di oggetti che con più frequenza si "troverà in mano". Tutti questi oggetti, ricordandosi che maggiore uso equivale a maggior ricordo, diventano dei buoni articoli promozionali. Utilizzabile è, quindi, un'altra variabile.Arriviamo ora alla visibilità , questa variabile determina la forza della comunicazione, il nostro target possiede l'oggetto e lo usa ma quante persone ruotano intorno a lui? Quanti di loro sono potenziali nostri clienti? Ecco che se l'oggetto è visibile e trasmette bene il messaggio la forza comunicativa aumenta.Ritorniamo un istante all'utilizzo, dobbiamo valutare ora l'emozione che vi è associata. E' importante comprenderle bene in quanto le emozioni provate durante l'utilizzo di un oggetto vengono inderogabilmente associate all'oggetto stesso/marchio. Uno spazzolone per lavare i pavimenti, probabilmente, non genererà un buon ricordo proprio a causa dell'emozione negativa che, a livello di inconscio, si legherà al marchio.L'ultima nota che abbiamo preso in considerazione, non si può parlare di una vera e propria variabile, è una riflessione su come l'oggetto sarà consegnato al consumatore, se volessimo sviluppare una tazza col nostro marchio non potremmo certo pensare di lanciarla da un palcoscenico!
Lorenzo Iazzetti
Sempre più aziende sono alla ricerca di forme alternative per promuovere i propri prodotti e servizi che possano riuscire ad attirare l’attenzione di un consumatore continuamente sottoposto a bombardamenti pubblicitari e, di consulenza, difficile sia conquistare che soprattutto da fidelizzare.Tra le tendenze in maggiore crescita c’è il product placement, che consiste nel collocare i propri prodotti, in maniera più o meno “trasparente”, all’interno di film, spettacoli, videogiochi e in generale in tutto quello che appartiene alla sfera dell’entertainment. Di product placement cinematografico avevamo già parlato in un precedente articolo. Si tratta di una tecnica consolidata, utilizzata in innumerevoli produzioni. I vantaggi del product placement sono evidenti: si viene a “colpire” il consumatore in un momento in cui è rilassato e quindi potenzialmente più disposto ad apprezzare la presenza del prodotto sullo schermo. Se il placement è ben fatto il prodotto non si limita a comparire in maniera anonima sullo sfondo, ma diventa parte integrante della vicenda, assicurando maggiore efficacia alla comunicazione. Basti pensare agli orologi Omega Pierce Brosan quando vestiva i panni di James Bond, che di volta in volta diventavano detonatori esplosivi o laser, o all’Audi di Will Smith in Io, Robot, derivante da un’autentica concept car ideata dall’azienda tedesca.Anche le produzioni cinematografiche beneficiano di queste alleanze, riuscendo a ribaltare sulle aziende partner parte degli elevati costi di realizzazione delle pellicole, mentre queste ultime possono approfittare di un nuovo ed efficace canale di comunicazione. Esistono in America vere e proprie aziende specializzate nel product placement che, lavorando a stretto contatto con gli studios, identificano ancora nelle prime fasi realizzative, i film che possono creare utili sinergie con i prodotti delle loro aziende clienti, che delegano loro la scelta della pellicola più adatta per il placement.L’integrazione di un prodotto all’interno del film è infatti un’operazione particolarmente delicata, in quanto per garantire reali vantaggi competitivi deve essere in linea con il posizionamento del prodotto stesso, evidenziandone le qualità. In più di un’occasione posizionamenti non efficaci sono stati la causa scatenante di animati diverbi tra la produzione del film e l’azienda che fornisce i prodotti. Nessuna azienda produttrice di super alcolici gradirebbe, ad esempio, che l’eroe del film avesse un incidente automobilistico dopo essersi ubriacato con il suo whiskey, così come il produttore di macchine non ama vedere uno dei suoi modelli di punta che lasca a piedi i protagonisti non appena usciti dal concessionario.Nel 2006, secondo i dati forniti da una recente indagine PqMedia, il mercato mondiale di questi investimenti dovrebbe toccare quota 7,5 miliardi di dollari, con un incremento di oltre il 25% rispetto al 2005. Ma le previsioni sono tutte al rialzo, visto che nel 2010 la cifra spesa dalle aziende per il product placement dovrebbe raggiungere la cifra record di 14 miliardi, di cui solo 5,5 negli USA. Se i casi di integrazione “spinta”, come ad esempio la presenza di FedEx nel film Cast Away, sono ancora una minoranza, l’indagine evidenzia come sempre più risorse pubblicitarie saranno destinate a questo scopo nei prossimi anni.
Che si venda un prodotto o un servizio, uno degli assi nella manica per farsi percepire come sinonimo di qualità è prendersi cura dei propri clienti. Le aziende lo sanno e da tempo hanno cominciato a investire nel customer relationship management (crm), ossia in politiche mirate di re l azione con la clientela. Eppure non tutti si sono mossi con gli stessi tempi e le stesse modalità: se il turismo e la grande distribuzione già negli anni Ottanta legavano a sé viaggiatori e acquirenti con sconti immediati o reward differiti nel tempo, nella moda e, più in generale nei prodotti di lusso, si è dovuto attendere la fine del millennio perché si consolidassero le prime esperienze di crm. Che, tuttavia, stentano ancora a decollare.
E se i vantaggi della gestione mirata della clientela sono evidenti, si pensi per esempio alle minori rotture di stock, all'aumento dello scontrino medio e, in un'ottica di lungo periodo, alla fidelizzazione al marchio, appare chiaro che le ragioni della lentezza del settore nell'adeguarsi al nuovo sistema devono essere più profonde. Una di queste risiede nelle caratteristiche stesse del prodotto o del marchio di lusso, notoriamente per pochi. E' lo snob effect, per il quale tanto più aumenta la domanda di un bene, tanti meno clienti lo acquisteranno nel tempo, cosa che induce le aziende a contenere le vendite pur di mantenere il valore d'immagine del prodotto. Tutto il contrario di quanto sarebbe necessario per sviluppare il customer relationship management, che nella maggior parte dei casi si basa su strategie tarate per alti volumi di vendita.
A porre il maggior freno, però, è la dinamica stessa della vendita del prodotto di lusso. Una borsa di Luis Vuitton non è certo un prodotto consumer, non la si compra in un grande magazzino ma in boutique. Ciò significa che il principale punto di contatto tra cliente e marchio resta l'addetto alla vendita, che spesso è anche l'unico depositario delle informazioni sul cliente stesso. La raccolta dei dati personali, operazione fondamentale per centralizzare le relazioni produttore-consumatore, diventa un'operazione complicata e frammentaria, complice la maggiore riservatezza degli habitué del lusso e la loro minore sensibilità a incentivi standardizzati. Moda e lusso, a differenza di altri settori, hanno dunque delle specificità che devono essere tenute in debito conto, al momento di immaginare e sviluppare un sistema di gestione mirata della clientela. Serve spesso un ripensamento dell'intera organizzazione, con infrastrutture di supporto e forte motivazione da parte di dipendenti e collaboratori.
A fronte di costi non certo trascurabili, vi sono però notevoli vantaggi: la messa a punto di strategie di incentivazione su misura favorisce l'ottimizzazione degli investimenti, mentre la fidelizzazione al prodotto o al marchio aumentano la frequenza di acquisto, lo scontrino medio e la cosiddetta quota di guardaroba. Esempio lampante dell'utilità delle politiche di crm anche nel lusso è il caso di Ermenegildo Zegna, che ha giocato d'anticipo e oggi è considerato un punto di riferimento in questo campo. Tra gli elementi che hanno sancito il successo dell'approccio di Zegna al customer relationship management ci sono la creazione di un solo database, che centralizza dati e inform azioni, una visione condivisa del cliente a livello globale, ma soprattutto un coinvolgimento dell'intera azienda nello sviluppo di una relazione unica e duratura con il cliente.
Paola Cillo e Emanuela Prandelli
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