Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’ispirazione per questo post mi viene da diversi casi di vita vissuta e ha ricevuto l’impulso finale da questo intervento su TagliaBlog, liberamente tradotto da Why I Will Never, Ever Hire A “Social Media Expert”, di Peter Shankman.
immagine tratta da TagliaBlog (p.s. non sono d'accordo)
Il contributo in questione è piuttosto drastico ma mi permette di introdurre alcune considerazioni sulle nuove professioni del mondo digitale:
1) Gli strumenti del social web e le nuove tecnologie in genere sono un modo nuovo e potente che le aziende hanno per favorire il raggiungiumento degli obiettivi per cui esistono da sempre: il profitto, la risoluzione di determinati problemi, il rapporto con il cliente. Spesso ciò viene dimenticato.
2) Serve un know-how specifico per i nuovi strumenti ma non per questo saper maneggiare i social per uso privato equivale a poterli gestire per conto di un’azienda senza conoscere il mondo delle imprese, i suoi linguaggi, i suoi meccanismi e le sue culture interne.
3) Non solo web: quando parlo del mio lavoro io parlo di “digital” perché ormai il confine tra pc, mobile, interattività e oggetti fisici è sempre più privo di senso. E per fare questo serve molto più know-how che un po’ di dimestichezza con la rete.
4) Tra strategia e know-how specifico: i nuovi strumenti sono talmente complessi che occorrono una serie di professionalità molto specifiche (Seo, Sem, Web Writing, Web Analytics, Reputation Monitoring, Digital Art) che non possono essere padroneggiate nel dettaglio da un singolo ma che richiedono al contempo una regia da parte di chi abbia in testa la strategia dell’azienda e li conosca quanto basti a indirizzarne l’azione. Difficile ad oggi da trovare sul mercato, ma molto richiesto.
5) Diamoci un nome e stabiliamo dei ruoli: è il senso del titolo, in un mercato che oggi ha ancora grandi margini di crescita c’è posto per sperimentazioni professionali e linguistiche che sono fisiologiche ma che creano grossa confusione nelle aziende, presto o tardi bisognerà iniziare a standardizzare compiti, nomi e gerarchie.
Che dire dunque, non sono d’accordo con il titolo dell’articolo che ho citato all’inizio ma credo che al momento nel nostro mercato ci sia troppo improvvisazione e non sia ancora chiaro che tutto ciò che è digitale è una parte delle attività e del business delle aziende e non qualcosa di diverso e separato.
Il fatto che poi io ritenga che ormai questa parte stia diventando una delle più importanti e complesse giustifica ancora di più il mio richiamo ad un alto livello professionale e alla fine dell’amatorialità diffusa.
Voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Sony, Apple, Amazon. E poi Google. I servizi di cloud computing per i consumatori sviluppati recentemente dai più importanti attori del settore tecnologico hanno aperto una nuova era informatica, quella del personal computing. Secondo Forrester, entro il 2016 il mercato specifico varrà 12 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, con 196 milioni di utenti dotati della propria ‘nuvola’, 97 milioni dei quali a pagamento.
Una giungla in cui gli utenti e le aziende dovranno districarsi al meglio e in fretta, per non perdere potenziali affari. Una selva fatta di uno spazio personale sempre a disposizione sul web, archivio immateriale per contenuti ludici o di lavoro, da fruire su ogni dispositivo dai pc fino agli smartphone, purché connesso a internet. Lo studio di Forrester immagina un futuro prossimo dominato da sistemi cloud costruiti attorno agli attuali servizi di e-mail, attraverso cui gli internauti gestiranno i propri materiali. Gmail e Google Apps lavoreranno in simbiosi per archiviare lettere digitali, foto, video, documenti di testo e, forse, canzoni. Così faranno anche Hotmail e Yahoo!. Probabile che iCloud di Apple, per ora lanciato come archivio puro legato a iTunes, integrerà poi altri servizi gestionali della Mela.
Il personal computing premierà le strutture a filiera, le aziende capaci di inglobare tutte le funzioni sulla base di sistemi operativi o servizi propri. Amazon dovrebbe quindi pagare dazio, rimanendo però attore chiave nel mondo dell’e-commerce. Mentre le grandi industrie si daranno battaglia per dominare la nuova evoluzione della rete.
Via Quo Media
Il futuro di Apple passa per la nuvola. Tre gli annunci che Steve Jobs ha fatto durante il keynote che ha dato l'avvio alla conferenza mondiale per gli sviluppatori di Apple (Wwdc 2011) in corso da oggi a San Francisco: nuovo sistema operativo per i telefoni della mela e iPad, nuovo sistema operativo per i Mac e soprattutto tanto, tanto cloud computing.
Con iCloud infatti Apple spera di riuscire a fare bene in un settore dove finora non è mai riuscita ad eccellere: Google e Amazon (ma anche la stessa Microsoft) stanno mietendo successi, mentre i servizi come .Mac e poi MobileMe (entrambi a pagamento) hanno attratto poche centinaia di migliaia di utilizzatori. La svolta si chiama iCloud e, se funzionerà, permetterà ad Apple di recuperare il terremo perduto. Tutto si basa sul grande centro dati da un miliardo di dollari costruito in North Carolina, dove Apple ha centralizzato tutto il suo sistema per sincronizzare in maniera automatica il contenuto di telefoni e computer. Backup automatico in rete, posta elettronica, rubrica e calendari, ma anche apps, foto, musica. A proposito di quest'ultima, il sistema Music Match (il primo pezzetto che Apple anticipa) consente di riconoscere la musica sul computer proveniente dai cd e averla in formato digitale per 24,99 dollari l'anno.
I nuovi servizi iCloud sono gratuiti, mossa necessaria di Apple per competere con Google. Se davvero iCloud ha quella velocità e semplicità di funzionamento mostrata nelle numerose demo effettuate sul palco dai colonnelli di Steve Jobs (almeno una mezza dozzina di persone si sono alternate sul palcoscenico del Moscone Center di San Francisco, tra questi Phil Schiller e Scott Forstall, per alleviare l'attività di uno Steve Jobs ancora in convalescenza e visibilmente dimagrito e affaticato) allora Apple ha in cascina un'arma molto potente. Ma che non è completa: quello che l'aiuta è soprattutto iOS 5, la nuova versione del sistema operativo per gli apparecchi post-Pc, che sono arrivati a quota 200 milioni e che per la prima volta si emancipano dall'uso del Pc (o del Mac) per l'attivazione, la sincronizzazione e il backup.
Infatti, niente più iTunes: adesso iCloud permette di fare tutto in rete, via WiFi, in modo automatico, anche la notte quando si dorme. E come arrivano gli aggiornamenti via Internet (o i giornali nella nuova funzionalità Newsstand per quotidiani e riviste), così si integrano anche servizi come gli allarmi, adesso centralizzati in maniera simile a quella utilizzata da tempo sui telefoni Android, o lo stesso Twitter, che viene sposato da numerose applicazioni di Apple per mandare messaggi.
Parlando di messaggi, il colpo più duro che Steve Jobs manda non è forse a Google o ad Amazon, ma alla Rim dei Blackberry: l'unica fino a questo momento a integrare su tutti i suoi apparecchi un sistema di messaggeria istantanea molto semplice, che Apple amplia e migliora, includendo via 3G o WiFi anche immagini, video, testo e tutto il resto. Nasce così, con iMessage, il "club degli utenti iOS", capaci di scambiarsi messaggi senza pagare costi aggiuntivi.
Tra le oltre 200 novità previste per iOS 5, che verrà rilasciato gratuitamente il prossimo autunno ma che gli sviluppatori possono già cominciare a sperimentare adesso, c'è anche la gestione dei documenti via iCloud, un browser Safari molto più potente, l'integrazione con Twitter, le funzionalità di aggiornamento e download in background, il backup automatico via internet, il nuovo centro per le notificazione (messaggi, badge, sms e tutto il resto), la possibilità di salvare e leggere le pagine web anche su altri apparecchi via cloud e i reminder per fare la lista delle cose da fare, oltre a svariati miglioramenti anche alla gestione della fotocamera, che adesso acquista un pulsante hardware negli iPhone 4 (il pulsante "+" per il volume).
Migliorano un po' tutte le applicazioni per iPhone e iPad, che adesso possono essere utilizzate in maniera autonoma e senza bisogno del Pc: gestione immagini, ritocco, upload su Internet.
Infine, i cambiamenti per Lion, la settima versione del sistema operativo di Apple nata dieci anni fa e disponibile da luglio a 29 dollari: il Leone porta un'ampia serie di novità (già viste durante la sua presentazione di tre mesi fa) ma soprattutto integra sempre di più i "gesti", le "gestures" dell'iPad sul Mac. In questo modo, suona una prima campana a morto per il mouse, che forse potrebbe essere superato nelle intenzioni di Apple da un uso intensivo delle dita per fare "tap", "swipe", "pinch" e mille altri movimenti che fanno interagire direttamente con le pagine. Mac OS ha preso molto dalla versione per iPhone e iPad, compresa la possibilità di gestire a tutto schermo le applicazioni, in maniera innovativa rispetto a quanto finora possibile con Mac e Pc, e di concentrare tutte le applicazioni in un'unica schermata "LaunchPad", da cui comandare l'uso del Mac. Gli acquisti (compreso quello dello stesso Lion) adesso avverranno prevalentemente tramite il Mac App Store, tutto virtuale e senza bisogno di Dvd da installare, mentre le funzioni per salvare automaticamente i documenti, averne diverse versioni e poter recuperare lo stato del computer prima dello spegnimento lo rendono sempre più simile a un iPad che non a un vecchio Mac.
Apple dunque ci prova: il suo Ceo, Steve Jobs, anche se malato ha l'energia di spingere l'azienda verso nuovi traguardi. Il momento è uno dei migliori di sempre: 225 milioni di account registrati su iTunes store, 14 miliardi di apps scaricate in tre anni, 2,5 miliardi di dollari di guadagno per gli sviluppatori (che hanno li 30% del prezzo da loro fissato) e la voglia di mostrare che i sistemi operativi di Apple sono convergenti con i servizi: Mac, iPhone, iPod touch e iPad da adesso in avanti hanno la stessa dignità. Apparecchi alla pari, di fronte alla rete dove sincronizzare dati e software. Il futuro di Apple doveva passare per la rete, adesso si vedrà se l'azienda riuscirà a convincere i clienti con una offerta valida e soprattutto funzionante.
di Antonio Dini su IlSole24ORE.com
Mai più senza Facebook. Pare proprio essere questo l’imperativo adatto a definire il rapporto tra gli italiani e il social network. Secondo i dati diffusi da Luca Colombo, country manager del sito per l’Italia, nel nostro paese ci sono 19 milioni di utenti attivi che mensilmente si collegato alla piattaforma.
Se si pensa che gli italiani dotati di una connessione internet sono circa 26 milioni, il 73% di tutti gli internauti e il 30% dell’interna popolazione dello Stivale naviga su Facebook, facendo dell’Italia uno dei partner più affidabili della società di Palo Alto.
Anche i dati più specifici destano stupore: circa 12 milioni di utenti accedono al loro account almeno una volta al giorno. Sono invece 5 milioni al mese gli ingressi da dispositivi mobili.
Via Quo Media
Comprare in Rete si conferma essere un'abitudine sempre più diffusa fra gli internauti italiani. Lo dice il nuovo rapporto dell'Osservatorio eCommerce B2C realizzato da Netcomm in collaboraizone con la School of Management del Politecnico di Milano e presentato ieri a Milano. Due i numeri salienti: la crescita prevista per il 2011, stimata al 19%, e il volume d'affari preventivato a fine anno, che dovrebbe sfiorare gli otto miliardi di euro.
Il commercio elettronico sta pian piano assumendo anche in Italia i connotati di vera e propria industria e la buona notizia per gli operatori di questo settore è la conferma di un trend positivo che si era bruscamente interrotto nel 2009, chiuso a crescita zero a 5,7 miliardi di euro dopo un decennio di incrementi a doppia cifra.
I buoni risultati previsti per quest'anno, dice lo studio, arriveranno in modo particolare dai prodotti, per cui si stima un aumento in valore (inteso come cifra generata complessivamente dalle transazioni di acquisto) del 23% per arrivare oltre quota 2,7 miliardi di euro. Bene comunque anche i servizi (+17%), trainati dall'affermarsi del fenomeno del social commerce, che si confermeranno il business più importante dell'e-commerce con un fatturato presunto di poco meno di 5,2 miliardi di euro
A livello di comparto merceologici, l'abbigliamento comanda la graduatoria con un salto in avanti previsto del 41% a 765 milioni di euro, seguito da editoria, musica ed audiovisivi (in salita al 30%, ma con un transato che non supererà i 300 milioni di euro) e da informatica ed elettronica di consumo (che raddoppierà il proprio ritmo di crescita dall'11% del 2010 al 21% del 2011), area dove gli italiani spenderanno online oltre 810 milioni di euro. Il settore del turismo si conferma quello più importante nell'economia del B2C italiano: per quanto l'incremento a fine anno si limiti al 13%, il giro d'affari sarà quello più vistoso e sfiorerà i 3,9 miliardi di euro. (G. Rus.)
di Gianni Rusconi su IlSole24ORE.com
La maggior parte degli utenti utilizza i tablet mentre guarda la televisione. E gli e-book? Si leggono a letto. Gli smartphone, invece, vanno dappertutto. Queste le scoperte di una ricerca Nielsen sull’utilizzo dei nuovi dispositivi mobili. Secondo lo studio, svolto a inizio 2011, il 70% dei possessori di tablet li usa mentre nello stesso ambiente (domestico) è accesa anche la tv.
Nel 57% dei casi, inoltre, il luogo deputato per controllare e-mail, sfogliare giornali online e usare le app a disposizione è il letto. Posto ideale, a quanto apre, anche per la lettura digitale, con il 61% dei possessori di e-reader che ne fa uso sotto le coperte. I cellulari di ultima generazione sono invece utilizzati in qualunque tipo di ambiente e spesso in pubblico.
Via Quo Media
Time is money: lo sanno molto bene, ad esempio, i pubblicitari, che devono condensare l'universo della marca in brevi, e possibilmente efficaci, messaggi.
Oggi, il discorso pubblicitario è articolato in numerose ramificazioni analogiche e digitali. E, ormai dalla metà degli anni Novanta, si ragiona sull'evoluzione della pubblicità online. Quel che è certo, è che oggi viviamo un sovraccarico di comunicazione, e questo fatto spinge le persone a gestire il tempo al meglio (o almeno ci si prova). D'altra parte, il tempo è una coordinata fondamentale dell'esistenza e tutti ci rendiamo conto del suo scorrere, anche se rimane difficile spiegarlo e darne una definizione precisa.
AdKeeper è una start-up americana, basata a New York e fondata nel 2010 dall'esperto di media e tecnologie Scott Kurnit, che permette di conservare la pubblicità online per guardarla in un momento successivo. Attraverso il KeepButton si può collocare una determinata pubblicità in uno spazio online riservato, e quando si ha tempo sufficiente, si possono guardare con calma le pubblicità che hanno suscitato un certo interesse durante il tempo trascorso in rete.
Può sembrare molto ottimistico che gli utenti vogliano conservare la pubblicità online per guardarla dopo, ma dall'inizio del 2011 l'idea di AdKeeper ha già raccolto 35 milioni di dollari di finanziamenti da fondi di venture capital americani e un crescente numero di editori online sta iniziando ad integrare il KeepButton nella propria pubblicità.
di Gabriele Caramellino su IlSole24ORE.com
Tutti noi bravi comunicatori sappiamo quanto sia importante integrare i vari strumenti. Integrare la pubblicità classica con la comunicazione digitale.
Mercedes è riuscita a farla questa integrazione, all'interno di un semplice annuncio stampa, molto geek advertising.
Che permette ai lettori dotati di smartphone di sperimentare di persona, con una sorta di test drive, che effetto fa avere 500 CV abbondanti sotto il cofano...
(Pubblicitariamente divertente. Nella realtà, IMHO, i guidatori di quel tipo di macchine lì andrebbero abbattuti con appositi missili terra-terra posti in autostrada).
YouTube è sempre più popolare e supera ormai le 48 ore di filmati caricati ogni minuto. Ogni sessanta secondi di vita virtuale sul portale video di Google raccolgono quindi due giorni di immagini in movimento del mondo reale.
Negli ultimi sei mesi, lanche a causa di un sistema di uploading più rapido, a mole di materiale caricata dagli utenti è cresciuta del 37%, mentre rispetto al maggio del 2010 è addirittura raddoppiata.
Via Quo Media
«Fisicamente c'è ancora distanza, ma c'è grande consapevolezza delle potenzialità del mezzo e grande apertura al suo utilizzo». In modo sintetico, lo stato di relazione fra i social media e le aziende è così che lo vede Luca Belloni, amministratore delegato di Millward Brown in Italia. L'occasione per parlare di quanto Facebook e simili (diari digitali e blog compresi) possono influenzare la percezione di un marchio dei consumatori che frequentano attivamente i nuovi strumenti di comunicazione digitali è arrivata in occasione della presentazione, avvenuta stasera a Milano, di un'indagine qualitativa che la società che misura periodicamente i marchi più popolari del pianeta ha realizzato in collaborazione con Firefly in 15 paesi (Italia compresa) nei cinque continenti.
Lo scopo dello studio, intitolato non a caso «The Language of Love in Social Media», era quello di individuare le dinamiche che descrivono come gli utenti del Web 2.0 vivono la presenza dei brand nei social media e come gli stessi brand si dimostrano più o meno sensibili nel recepire i dettami del nuovo universo di relazione per milioni e milioni di individui. Qual è dunque lo stato di salute del rapporto fra consumatori e aziende? Si può parlare realisticamente di fidanzamento consolidato o siamo ancora nella fase iniziale del corteggiamento? A queste domande, Belloni ha risposto al Sole24ore.com parlando innanzitutto di un «rapporto che si potrebbe definire ancora di attesa e di prudenza. E non solo in Italia ma anche nei Paesi tradizionalmente più ricettivi per le nuove tecnologie online, come Regno Unito e Stati Uniti».
Le aziende, in poche parole, stanno iniziando solo ora a considerare seriamente il fenomeno e l'attendismo di cui sopra non è associabile al rischio che i social media possano rivelarsi una meteora. L'esempio in tal senso citato da Belloni è esplicito: «Second Life è stato un grande fenomeno digitale ma è durato poco, è passato velocemente di moda. Lo zoccolo duro di questi strumenti, il fattore che li rende una realtà duratura è nel numero di consumatori che li utilizzano. Ed è un fattore che abbatte il rischio di una nuova bolla in stile net economy».
Rimarcata quindi la natura di media destinato a trovare sempre più proseliti e popolarità in futuro, il manager di Millward Brown ha messo in evidenza un altro aspetto non secondario della questione, che spiega in parte perché le interazioni tra brand e consumatori innescate e vissute all'interno dell'universo social vadano immaginate come una relazione analoga al processo che porta allo stabilirsi di un legame affettivo. "La complessità del mezzo – ha detto infatti Belloni – non va assolutamente sottovalutata: non ci sono regole chiare per l'utilizzo infallibile di questi media a supporto del business aziendale. Siamo ancora in una fase in via di definizione, in cui è prematuro parlare di vere e proprie linee guida". In altre parole gli strumenti ci sono, possono portare a risultati importanti (in termini di visibilità, brand awarness se non addirittura vendite) ma vanno anche impiegati in modo congruo rispetto agli obiettivi di marketing dell'azienda, e per questo servono competenze dedicate e strutture organizzate in modo adeguato.
E l'impatto dei social media sulla percezione del marchio fra i consumatori? Secondo Belloni è già elevato ("quanto da 1 a 10? Diciamo 8") anche se la televisione esercita ancora oggi, un'incidenza in valori assoluti ancora nettamente superiore, in quanto strumento di comunicazione di massa radicato, in Italia in modo particolare, e consolidato per i grandi spender pubblicitari. «Per alcune fasce di utenza, però, i social media sono il canale di comunicazione e di informazione digitale per eccellenza e di questo aspetto le aziende non possono non tenerne conto. È preferibile che un'azienda vada sui social media perché l'ha deciso in proprio e non perché ce l'hanno portata, in un'accezione negativa, i consumatori. Che possono diventare difficilmente controllabili. L'importante – ha sottolineato ancora il concetto Belloni – è sviluppare azioni che abbiano precise finalità e votate a generare nuove opportunità di business. È una questione di approccio, di metodo finalizzato a far interagire i consumatori e trasformarne la presenza nei social media in comportamenti d'acquisto. Qualche esempio? Aprire una pagina su Facebook e tramite questa veicolare una campagna legata a una particolare promozione, vedi un'applicazione gratuita per lo smartphone, che presuppone una minima profilazione dei consumatori».
Sebbene, per quanto riguarda l'Italia, si può parlare di un atteggiamento in linea generale propositivo al tema, l'approccio delle aziende verso i social media non è però scevro da incoerenze anche evidenti, che hanno fare per esempio con la libertà d'uso di Facebook e degli altri social network negli orari d'ufficio. Non è fantascienza il fatto che i responsabili It della tal grande azienda proibiscano l'uso di questi servizi agli addetti e la stessa azienda si sia attivata per sfruttare questo canale per stringere il rapporto di interazione con la propria clientela. «Vi sono ancora ostacoli culturali da superare – questa la conclusione di Belloni – che credo si possano risolvere in tempi e modi relativamente veloci. Cosa succederà da qui a un anno? Saranno moltiplicati i casi di successo e anche i flop e registreremo in generale un atteggiamento verso i social media più professionale e consapevole».
di Gianni Rusconi su IlSole24ORE.com
|