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 mymarketing.it: e tu cosa ne pensi?... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico : Marketing (inverti l'ordine)
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Gianluigi Zarantonello (del 12/03/2014 @ 09:00:00, in Marketing, linkato 1582 volte)
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Immagine tratta da http://www.library.gatech.edu/

Peter Sondergaard di Gartner afferma che entro il 2020 la nuova organizzazione dovrà farsi carico di cinque capacità fondamentali.

1) coordinare l’architettura di tutte le tecnologie digitali con i loro impatti.

2) definire l’enterprise information architecture considerando gli innumerevoli asset informativi sparsi dentro e fuori l’azienda

3) garantire la sicurezza per tutte le tecnologie digitali

4) gestire l’ecosistema digitalizzato sia dentro sia fuori l’organizzazione

5) sviluppare e promuovere la leadership digitale, nei vertici aziendali

Trovo tutti i punti interessanti ma in particolare mi attirano per questo post il 2 e il 4.

L’informazione, il dato, l’asset digitale sono elementi che spesso si dimenticano o si sottovalutano, mentre nella realtà diventano tanto più cruciali quanto più sono ormai numerosi e complessi.

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Che si tratti di gestire comunicazioni interne andando oltre la mail o di  creare contenuto verso il cliente finale il fatto di avere una circolazione fluida delle informazioni e una capacità di reperimento e di distribuzione dei contenuti su più piattaforme è un requisito cruciale.

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Siccome poi parliamo di ecosistemi, è alquanto pericoloso chiudere le informazioni in dei silos perché al contrario tutto oggi può avere un valore sul piano dell’analisi strategica complessiva.
Le statistiche sui big data sono certamente di ispirazione a tutti i livelli ma credo che prima di arrivare a qualsiasi soluzione tecnologica ci sia un tema di organizzazione e di cultura.

Quante organizzazioni infatti si preoccupano davvero delle inefficienze dovute alla cattiva circolazione delle informazioni e alla difficoltà di gestirle?
E quante si fanno guidare in modo convinto dalla lettura di tutti i dati oggi disponibili? A mio avviso poche, anche se il tema non è nuovo e ne parlai già in tempi non sospetti.

E voi, pensando alle esperienze di tutti giorni, come vi sentite di giudicare le vostre realtà?

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

 
Di Altri Autori (del 11/04/2014 @ 07:57:03, in Marketing, linkato 1454 volte)

I risultati di una nuova ricerca di marketing avviata dalla startup Crowdtap e dalla società di ricerca Ipsos fanno luce sulle modalità di fruizione delle notizie da parte della generazione più connessa, la cosiddetta generazione dei Millennials, definita in questo studio come i nati tra il 1977 e il 1995, che hanno grande familiarità con i media e le tecnologie digitali. Quando si tratta di fiducia, si legge dal rapporto, i Millennials scelgono quasi sempre fonti provenienti dai loro pari.

Gli user generated content (Ugc) sono contenuti mediali sviluppati dagli utenti. Possiamo includere in questa categoria gli aggiornamenti di stato sui social network, i post sui blog, i video su Youtube autoprodotti, le recensioni dei ristoranti, in pratica qualsiasi contenuto pensato e pubblicato da utenti non professionisti, spinti da nessuna specifica motivazione professionale se non quella di offrire la propria opinione nel vasto, e affollato panorama delle opinioni esistenti.
Secondo lo studio della Ipsos e di Crowdtap i Millennials si fidano di questo tipo di contenuti al pari delle recensioni dei professionisti o dei contenuti più professionali.

Nello specifico circa la metà dei Millennials si fida delle informazioni che trovano sulle reti sociali (50%) e sui blog e bacheche (48%) a seguire su siti web  (49%). Gli user generated content sono anche il 20% più influenti quando si tratta dei consigli d’acquisto e il 35% più incisivi rispetto ad altri tipi di supporti. Il fatto che i Millennials trascorrano più di cinque ore al giorno con questi contenuti chiarisce ulteriormente il quadro.

Via Tech Economy

 
Di Altri Autori (del 03/06/2014 @ 07:22:58, in Marketing, linkato 1451 volte)

Con l’avvicinarsi dei mondiali di calcio in Brasile sia i tifosi che i produttori di beni e servizi sono in fermento cercando di trarre ogni possibile vantaggio pubblicitario dall’evento.

E per evitare ogni forma di abuso, la FIFA ha emesso delle linee guida ad hoc volte a limitare l’utilizzo dei propri marchi da parte di società che non siano gli sponsor ufficiali dei mondiali. Questi marchi non comprendono unicamente i più ovvi loghi dei mondiali, della mascotte e l’immagine della coppa del mondo, ma anche termini quali “World Cup” o “Brazil 2014″ e la FIFA ha adottato un’interpretazione molto restrittiva in merito al loro utilizzo sollevando nei commentatori dei quesiti circa l’effettiva validità di tali restrizioni.

Brasil 2014

Il criterio utilizzato per accertare se l’utilizzo di un segno distintivo simile ad un marchio di un terzo sia lecito si basa sulla possibile confondibilità dello stesso da parte del pubblico.  Allo stesso modo, i diritti di esclusiva attribuiti su di un marchio non si estendono ai casi in cui lo stesso sia utilizzato con finalità descrittiva e quindi, ad esempio, nel caso in cui una società debba descrivere i prodotti che offre.

Tali problematiche devono ora essere analizzate nel nuovo contesto “social” derivante dalla diffusione dell’utilizzo dei social media che sarà ancora più accentuato durante un evento di portata mondiale come la Coppa del Mondo di Calcio. In tale contesto si porrà il problema relativo ai limiti in cui un soggetto che non è partner dell’evento può ad esempio utilizzare un hashtag che direttamente o indirettamente si riferisca allo stesso.

Cosa avverrà nel caso in cui un operatore di scommesse online intende pubblicizzare le proprie ultime quote sulle partite di calcio dei mondiali utilizzando un hashtag dedicato che riproduca uno dei marchi della FIFA? Ci troveremo di fronte ad una nuova tipologia di ambush marketing?

L’ambush marketing è definito da Wikipedia come “ipotesi di associazione indebita (non autorizzata) di un brand ad un evento mediatico; ossia quando lo stesso non appartenga ad uno degli sponsor ufficiali“. Questa forma di pubblicità ha avuto una notevole copertura mediatica durante gli scorsi mondiali in Sud Africa a causa della partecipazione alla partita Danimarca – Olanda di 36 ragazze vestite di arancione che a giudizio della FIFA erano state inviate dalla compagnia olandese Bavaria, mentre lo sponsor ufficiale dei mondiali era la compagnia danese Budwaiser. Senza svolgere ulteriori accertamenti, FIFA aveva cacciato dallo stadio le ragazze e tale “imprevisto” era stato così pubblicizzato che aveva comportato l’effetto opposto a quello voluto dalla FIFA.
Ciò vale come ulteriore dimostrazione che in presenza di tali violazioni, la migliore soluzione da adottare non è sempre la repressione. E ciò potrebbe essere ancora più giusto in un contesto “social” dove, a causa della viralità della rete, la possibile limitazione dell’attività dell’autore dell’azione contestata potrebbe non raggiungere i risultati sperati.

Lo stesso problema, del resto, si potrebbe porre nel caso in cui i giocatori delle nazionali di calcio fossero sponsorizzati da marchi concorrenti a quelli ufficiali dell’evento e li pubblicizzino per esempio tramite il proprio account Twitter. L’esempio più recente di questo genere è stato il messaggio su Twitter del giocatore inglese Wayne Rooney in cui pubblicizzava la Nike tramite un commento che non era chiaramente riconoscibile come un messaggio pubblicitario. In quell’occasione le autorità inglesi hanno censurato la pubblicità della Nike perché i messaggi non erano trasparenti e potevano essere interpretati dal pubblico come le opinioni personali dal giocatore.

Tale tipo di condotta, qualora dichiarata in violazione della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e in materia di pubblicità ingannevole, avrebbe potuto portare a sanzioni fino a  5.000.000 euro da parte dell’AGCM in Italia.

Si potrebbe aprire una discussione infinita sull’argomento, ma per il momento possiamo solo aspettare cosa i pubblicitari avranno in mente e ovviamente tifare per l’Italia!

Via Tech Economy

 
Di Gianluigi Zarantonello (del 03/06/2014 @ 12:47:46, in Marketing, linkato 1750 volte)

Il cliente del 2015

Spesso vengono proposte in rete interessanti infografiche sul cliente che potremmo dover gestire tra 5 o 10 anni, questa volta invece vi propongo per un breve commento una versione che parla invece del 2015. Ossia dell’anno prossimo.

Personalmente sono d’accordo con la maggior parte dei temi proposti nell’immagine, con una grande considerazione di fondo: queste rivoluzioni si stanno sviluppando in modo costante e sistematico da anni, senza strappi eclatanti ed improvvisi, e ora si iniziano a vedere davvero in atto.

In particolare l’utilizzo dei device mobili per essere sempre connessi ormai è un dato assodato (anche in Europa e in Italia) che è cresciuto lentamente ma inarrestabilmente mentre nella business community si discute da tempo di “anno del mobile” (e molte aziende intanto non sono ancora pronte al “mobile first”).
Questo ha permesso lo sviluppo di fenomeni come lo showrooming e presto consentirà una diffusione più ampia di interazioni digitali in contesti fisici, come i negozi.

Un altro grande tema, non nuovo, è quello del trust: l’importanza di una reale fiducia in un brand che va (anche) oltre l’advertising si consolida nel tempo, e se UGC e peer review esistono da anni la loro importanza è ormai giunta a maturazione. Questo non vuol dire però agire solo sul social media e sul valore dei fan/follower, ma anche ragionare in una logica di sistema dove la nostra coerenza è totale attraverso tutto gli strumenti ed i comportamenti.

Potrei continuare a lungo, anche perché sono temi che ho trattato spesso in passato, quello che mi piaceva però lanciare come riflessione con questo post è la consapevolezza che i grandi cambiamenti indotti dalla tecnologia sono ormai presenti, con continuo e lento avanzamento.
Questo obbliga oggi le aziende ad essere attente ed anche umili osservatrici dei fenomeni in corso che vanno capiti e cavalcati (sulla base dei bisogni dei clienti) prima che diventino così forti da segnare un ritardo incolmabile.

Servono competenze, una nuova cultura con le persone al centro e la possibilità per gli innovatori interni di agire con il committment dei vertici e il supporto di tutta l’azienda.
Perché intanto la rivoluzione senza clamore continua.

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

 
Di Roberto Venturini (del 08/07/2014 @ 07:17:40, in Marketing, linkato 2320 volte)

Riprendo, per parlarne anche a un pubblico diverso, un post che ho scritto per il blog di Digital PR.

Si chiama Real Time Marketing ed è una delle opportunità più interessanti che il marketing digitale ha messo a disposizione delle aziende. Come spesso capita si tratta di un’evoluzione di modelli pubblicitari tradizionali – classicamente l’annuncio pubblicitario realizzato in gran fretta e pubblicato sul quotidiano 24 o 48 ore dopo un “evento”, in genere sportivo.

L’idea è quella di reagire, questa volta davvero in tempo reale, a uno stimolo, un’opportunità di comunicazione che ci permetta di fare notizia, di diffondere un messaggio che faccia impatto, sorprenda, diverta, dimostri la nostra smartness.

Gli esempi non mancano – famosissimo quelli di Oreo al Superbowl che ha saputo approfittare di un imprevedibile blackout, ma anche quelli “costruiti” con cura gettando reti per poi raccogliere opportunità, come nel caso di Kleenex, che ha individuato in rete un piccolo numero di persone raffreddate e le ha coccolate inviando un “kit”. Ottenendo una vasta amplificazione mediatica, nettamente superiore in valore al costo dell’operazione e soprattutto dimostrando concretamente intelligenza e coolness (o, in forma un po’ più “blanda” e più in campo User Generated Content, l’operazione che ha visto Wendy trasformare in diretta in canzoni i tweet degli utenti, oppure Old Spice trasformarli addirittura in spot pubblicitari personalizzati).

In sostanza si tratta o di mettersi in agguato, sperando succeda qualcosa (possibilmente di probabile) e intervenendo con una propria comunicazione nel giro di pochi minuti, ad esempio presidiando un evento famoso come la cerimonia degli Oscar , che sappiamo essere molto popolare e la cui popolarità e seguito possiamo provare a intercettare entrando nella conversazione, proponendo una nostra visione (interessante, divertente, critica…).

A volte il tempo di reazione dev’essere rapido, anzi rapidissimo.

Citando un caso che abbiamo gestito direttamente, prendiamo l’esempio del down di Whatsapp del 2 aprile 2014. 50 minuti in cui i server della più popolare applicazione di messaggistica gratuita sono andati in crash. In quanto agenzia di Social PR di LINE, abbiamo deciso di intervenire in tempo zero con un messaggio chiaro e semplice su Twitter: “#whatsappdown Vi aspettiamo a braccia aperte! #LineUp”.Anche su Facebook abbiamo voluto dire la nostra, guidati da quel tocco di irriverenza con cui abbiamo da subito caratterizzato la comunicazione di LINE: “#whatsappdown Niente panico… Ci siamo noi!”.

In quel pomeriggio abbiamo deciso di dialogare un po’ con i nostri futuri potenziali clienti e abbiamo deciso di fare un po’ di sana infiltration anche su altri dialoghi tra utenti Twitter.

I risultati in termini social sono stati ottimi: oltre 150 menzioni su LINE, più di 100 interazioni su Facebook e, soprattutto, un grande impatto sul business: nella sola giornata del 2 aprile, LINE ha accresciuto del 30% la media dei nuovi iscritti, con un netto aumento degli unique browsing (persone che utilizzano l’app almeno una volta al giorno)

Aspettarli al varco

Un’altra possibilità/ modalità di intervento è invece costruire dei progetti in cui sappiamo già che qualche utente dirà una certa cosa (possibilmente un certo numero di utenti), predisponiamo una reazione un po’ eclatante e attendiamo che si verifichi l’evento che ci permette di scatenare la nostra azione (tipicamente, come nel caso di Kleenex, si tratta di attendere che una persona qualsiasi, ad esempio su Twitter, dica una certa cosa e far partire un progetto già predisposto accuratamente).

Specialmente nel primo caso, quello in cui ci si trova davanti una inaspettata opportunità di comunicazione, entrano in gioco una serie di fattori per riuscire davvero a farcela. In primis una capacità creativa dell’agenzia, ovvia; ma soprattutto l’essere in continuo monitoraggio della Rete – con i conseguenti budget allocati per un’attività che impegna risorse dell’agenzia e quindi comporta costi. Può comunque capitare che l’opportunità si manifesti anche per caso; che anche se non si sta monitorando in tempo reale e continuamente la Rete, balzi agli occhi di azienda o agenzia un messaggio, uno spunto da cogliere subito (e qui ci va anche un po’ di fortuna).

Qui diventa critica la capacità di essere flessibili, sia per l’azienda che per l’agenzia. Di sviluppare immediatamente un messaggio appropriato e potente, Di azzerare i tempi delle approvazioni, di essere fuori nel giro di minuti, non di giorni, sennò diventa molto meno interessante. Avere un sistema che riesce a mettere da parte le “procedure burocratiche”, il dover reperire il management, fissare appuntamenti per il giorno dopo. Avere la capacità di operare (anche) per rapidi colpi di mano, prendendosi magari qualche ragionevole rischio, in modo guerrigliero e quindi più sorprendente ed efficace. E soprattutto avere la capacità di non volerlo fare a tutti i costi. Come quando si vuole a tutti i costi raccontare una barzelletta, e la si racconta comunque, fuori contesto: non fa ridere, non funziona. Come molto spesso capita quando le marche cercano di forzare la mano non avendo una buona idea in mano (si veda questo articolo di Mashable).

 
Di Altri Autori (del 17/07/2014 @ 07:16:05, in Marketing, linkato 1776 volte)

A partire da quest’autunno, quando un utente di Facebook guarderà uno show televisivo su cellulare o tablet, Facebook probabilmente lo saprà. Secondo quanto riportato dal Los Angeles Times il social network avrebbero stretto infatti un accordo con Nielsen per monitorare le abitudini televisive in mobilità dei consumatori statunitensi: Facebook analizzerà il suo database e invierà età e genere degli spettatori a Nielsen, nell’ottica di aiutare gli inserzionisti ad imparare qualcosa in più sulle abitudini delle audience che guardano show online.

Per decenni, Nielsen ha reclutato famiglie per sapere ciò che esse guardavano sulla tv di casa ma dal momento che con i device mobili è la stessa definizione di “guardare la TV” che sta cambiando rapidamente passando dal guardare “canali” su televisori nei salotti a guardare i programmi preferiti su computer portatili, smartphone, tablet, cambiano anche le modalità di rilevazione. “Il mondo sta cambiando radicalmente, e quindi abbiamo dovuto far evolvere le nostre misurazioni, in modo che potessimo catturare questa realtà frammentata”  spiega Cheryl Idell, vice presidente esecutivo di Nielsen. Attraverso la collaborazione con Facebook Nielsen guadagna una finestra sui dati e sul pubblico dei dispositivi digitali mobili e quindi una conoscenza più approfondita sugli spettacoli che vengono consumati su tablet e smartphone, come pure quando questi spettacoli vengano effettivamente consumati. Facebook, da parte sua, potrebbe migliorare l’appetibilità dei suoi spazi per gli inserzionisti pubblicitari.

E la privacy? Ovviamente in una operazione di questa portata gli aspetti legati alla tutela dei consumatori sono immediatamente entrati nel mirino di associazioni di settore cui Facebook ha risposto che: “Abbiamo lavorato con Nielsen ispirati ai principi della privacy. Noi non crediamo che i sistemi di misurazione dell’audience debbano essere utilizzati per regolare le azioni di targeting, devono essere utilizzati solo per la misurazione. Questo protegge la privacy delle persone che hanno visionato pubblicità e assicura che entrambi gli inserzionisti e gli editori abbiano le stesse informazioni relative il pubblico.”

Via Tech Economy

 
Di Altri Autori (del 22/09/2014 @ 07:42:28, in Marketing, linkato 1798 volte)

In 7 milioni guidano ancora la macchina e più di 5 frequentano locali di intrattenimento. Quelli che fanno attività fisica o van­no abitualmente in palestra inve­ce, sono circa 3,7 milioni, l’equi­valente della popolazione di uno Sta­to come l’Albania o la Bosnia Erzegovi­na. Senza dimenticare che, a navigare abitualmente su Internet, secondo le sti­me più accreditate, sono circa 1,5 milio­ni. Si tratta di un esercito di italiani che consumano molto, conducono un’esistenza abbastanza agiata e hanno una particolarità in comune: sono anziani ul­tra 65enni che, proprio per il loro stile di vita, oggi non sembrano affatto disposti a farsi chiamare vecchi. Altro che rotta­mazione. Oggi, nel nostro Paese, ci sono ben 13 milioni di persone con i capel­li bianchi che, per il sistema economi­co nazionale, rappresentano una risorsa preziosissima. A parte qualche acciac­co stanno relativamente bene di salute, vanno a fare la spesa tutti i giorni e sono dei consumatori con molti più soldi da spendere rispetto ai giovani. Per render­sene conto, basta analizzare i dati ela­borati dal Censis e dalla Fondazione Ge­nerali, secondo cui la ricchezza media delle famiglie anziane è cresciuta com­plessivamente di quasi il 118% negli ul­timi 20 anni, contro il 56% del resto del­la popolazione. In media, una famiglia capeggiata dagli over 65 ha una dispo­nibilità complessiva di 273 mila euro e, nel 79% dei casi, è anche proprietaria di un immobile. Inoltre, le risorse che ogni anno vengono trasferite dalle famiglie più mature per sostenere le più giova­ni sono pari a circa 5,4 miliardi di euro, quasi lo 0,3% del pil. Probabilmente, se non ci fosse stata questa “forza tranquil­la” che ha mantenuto in piedi il Paese, negli anni più bui della crisi economi­ca il tessuto socio-demografico italiano avrebbe rischiato davvero di sfilacciarsi. Allora, smettiamola di guardare agli an­ziani come a un problema. Molte impre­se, almeno le più lungimiranti, l’hanno capito e li reputano clienti da coccolare e attirare il più possibile.

I PUNTI DI FORZA
A spingere le aziende verso queste poli­tiche a favore dei più maturi non è sol­tanto un atteggiamento benevolente ver­so la terza età. Alla base di queste scelte, c’è una buona dose di realismo e di lun­gimiranza, che parte dall’analisi di un dato di fatto: secondo le proiezioni demografiche, entro il 2050 la quota di po­polazione mondiale anziana raddoppie­rà (passando dall’11% attuale al 22%), Inoltre, già nel prossimo quinquennio, il numero di ultra 65enni supererà in tutto il pianeta quello dei bambini con meno di cinque anni. Al contempo, il migliora­mento delle condizioni di salute sta per fortuna assegnando agli anziani un ruo­lo più attivo nella società. Sarà per que­sto che le case d’investimento interna­zionali, abituate a fiutare per tempo gli affari, hanno già cominciato ad analiz­zare il fenomeno del global ageing, cioè l’aumento dell’età media della popola­zione mondiale e le sue ricadute sul si­stema economico e sui consumi. Gli analisti di Morgan Stanley, per esempio, hanno individuato una decina di azien­de che hanno buone chance di macina­re ricavi e profitti nei decenni a venire, proprio grazie a questa tendenza. Tra i nomi individuati dagli esperti della casa d’affari Usa ci sono imprese specializ­zate nella produzione di beni e servizi destinati in prevalenza a chi ha i capel­li bianchi. È il caso dell’italiana Luxot­tica (leader dell’occhialeria), della sve­dese Sca (articoli sanitari), della tedesca Deutsche Wohnen (case di riposo) o del­la danese Gn Store Nord (protesi ortope­diche). Morgan Stanley, tuttavia, ha indi­cato anche aziende che, pur non offren­do prodotti specificamente pensati per i consumatori anziani, stanno dimostran­do di saper cavalcare per tempo l’onda lunga del global ageing. Tra queste, c’è per esempio Mark & Spencer, una del­le maggiori catene di distribuzione nel Regno Unito che, rispetto ai competitor, oggi dispone di un’ampia gamma di pro­dotti per la clientela più matura. Stesso discorso per una multinazionale come Philips e per la compagnia di crociere Carnival, il cui fatturato è legato ormai per quasi un quarto al fenomeno del glo­bal ageing. Gli anziani che hanno abba­stanza soldi da spendere, infatti, amano spesso goderseli in qualche vacanza ri­lassante sul mare, invece che passare le giornate sulle panchine dei giardinetti. Chi lo ha intuito per tempo, sarà dunque in grado di fare buoni affari in futuro.

RITORNO AL LAVORO
Lo scenario appena delineato nel mon­do dei consumi si apre, però, anche nel campo del lavoro e delle professioni. Lo sa bene Wilfried Porth, a capo delle ri­sorse umane della casa automobilisti­ca Daimler che, nei mesi scorsi, ha of­ferto un contratto di consulenza, ad al­meno un centinaio di “arzilli vecchiet­ti”, tra cui c’è anche un 75enne. Sono i pensionati che Daimler ha richiamato in servizio nell’ambito del progetto Space Cowboy, che prende il nome da un film di Clint Eastwood, in cui un gruppo di ex piloti della Nasa, tutti ultrasessanten­ni, viene rispedito in una nuova missio­ne. Come gli astronauti del film, i pen­sionati della Daimler sono tornati in ser­vizio perché l’azienda ha fortemente bi­sogno di loro, essendo gli unici conosci­tori dei segreti di alcuni vecchi software che stanno alla base dei sistemi di automazione industriale del gruppo Dai­mler. Oggi, dunque, anche nel mondo del lavoro come in quello dei consumi, gli anziani sono una risorsa. Per questo molte aziende, per non trovarsi un gior­no a rimpiangere le doti professiona­li dei vecchi dipendenti, hanno dato vita da tempo a piani di age management, che si concretizzano in una serie di pro­grammi volti a valorizzare le competen­ze dei lavoratori in età avanzata e a tra­sferirle ai loro colleghi giovani.

 MAESTRI DEI MESTIERI
Nella multiutility bolognese Hera, per esempio, da ormai dieci anni esiste la Scuola dei mestieri, un sistema di for­mazione professionale interna, che favo­risce la condivisione del patrimonio di esperienze che i lavoratori meno giova­ni si portano appresso. Sempre nel gruppo Hera, esiste da tre anni il progetto di ricerca GenerAzioni, che ha lo scopo di indagare come cambiano le esigenze dei dipendenti all’interno dell’organico, in relazione all’avanzare dell’età. Quel­lo dell’azienda bolognese, però, non è l’unico caso in cui si guarda con interes­se alla popolazione aziendale con i ca­pelli bianchi. Anche il gruppo marchi­giano Loccioni, specializza­to nei sistemi per il miglioramento del­la qualità dei prodotti e dei processi pro­duttivi, ha dato vita a esperienze ana­loghe. Dentro l’azienda, infatti, è stata creata una Silverzone, cioè una comuni­tà virtuale in cui ricercatori, consulenti, professori e manager – ma anche molti ex dipendenti – mettono a disposizione delle generazioni future il proprio patri­monio di competenze. All’Atm di Mila­no, la compagnia dei trasporti della città, dove il 27% dei lavoratori è rappresenta­to da over 50, nel 2012 è partito invece il progetto Maestri di mestiere. Si tratta di un programma di gestione delle risor­se umane che ha lo scopo di offrire una formazione professionale di qualità ai neoassunti, utilizzando proprio le competenze di alcuni colleghi più anziani che hanno più di 50 anni di età e hanno dimostrato, nel corso di tutta la carriera, spiccate doti professionali e un forte at­taccamento all’azienda.

IMPRESE A MISURA DI “DIVERSAMENTE GIOVANI”
Ma non è soltanto nelle attività di forma­zione che i lavoratori anziani diventa­no protagonisti. Spesso, con l’avanzare dell’età media dei dipendenti, le impre­se cominciano a ripensare i propri pro­cessi produttivi, le politiche retributive e anche l’ergonomia degli spazi azienda­li, per aumentarne il comfort e render­li più adatti alle esigenze del personale. Su tutti questi fronti, molte esperienze in­teressanti sono state messe in atto da so­cietà estere, in particolare nel Nord Eu­ropa. In un’analisi di Paola Ellero e Ade­lina Brizio, ricercatrici e consulenti spe­cializzate nel campo della formazione e della gestione del personale, vengono ri­cordati per esempio i casi di Asda, catena di supermercati inglese che ha ideato una serie di benefit flessibili in base all’età, come le settimane di permesso per i di­pendenti che diventano nonni. C’è poi il caso di Achmea, compagnia di servizi fi­nanziari olandese che concede ai dipen­denti over 40 un soggiorno di studio al­l’estero (interamente pagato) di dieci gior­ni all’anno. Senza dimenticare l’esperien­za Société Electrique de l’Our, la maggio­re azienda energetica del Lussemburgo che ha ristrutturato completamente i pro­pri ambienti in modo da renderli più ac­cessibili e fruibili anche per quei dipen­denti che hanno capacità produttive un po’ ridotte, proprio a causa dell’età. La li­sta di buone pratiche citate da Ellero e Brizio, però, non finisce qui e compren­de molti altri programmi specificamente ideati per la gestione del personale anzia­no. A realizzarli sono stati spesso grandi nomi dell’industria mondiale come Mi­chelin, la compagnia aerea tedesca Luf­thansa o Citibank International, colosso finanziario statunitense che, nella sua fi­liale greca, offre periodi di ferie crescenti con l’avanzare dell’età.

Via Business People

 

Ottimo esempio di campagna fatta come si dovrebbe fare.

Non (solo) perchè ha delle soluzioni creative belle - ma perchè ha un pensiero robusto e strategico dietro, che si scarica in una serie di azioni. Che, tutte assieme, lavorano bene su marca e prodotto, -appoggiandosi su una solida comprensione di target e valori della marca.

La video case history spiega bene, ma vi faccio un riassuntino.

Il progetto è quello del Barbour International Tour (guardatevelo) fatto con top Instagrammers (/blogger)

1. Barbour internazionalmente è molto legato, storicamente, al mondo della moto (viaggi, emozioni, avventura).

2. La marca ha targettizzato in modo intelligente suoi target differenti, con creatività differenti

3. Le creatività sono basate su Instagram - con un lavoro di eccellenza su questa piattaforma (non la solita roba al risparmio che si fa da noi) ricorrendo a una decina di top Instagrammers.. per realizzare dei video insieme a una decina di ottimi registi emergenti.

Si è anche poi (ovviamente) fatto un (grosso) concorso per la community mondiale degli Instagrammers. Il che ha allargato considerevolmente, a livello mondiale, la reach della campagna, coinvolgendo persone motivate, communities localmente molto attive e appassionate.

Il tema è quello degli #inspiringplaces - e i video sono stati girati e montati usando gli smartphone - fatti al 100% su Instagram. E, ovviamente, gli Instagrammers (così come i registi) sono stati remunerati per questa operazione.

4. La pianificazione pubblicitaria è stata pensata in maniera corretta, per interessi, più che per demografia

Approfondimenti e link:
https://www.facebook.com/OfficialBarbour

Twitter: @Barbour #inspiringplaces
http://www.tumblr.com/tagged/barbour-international

PS: Interessante (anche se funziona su altri binari, essendo mirato a un pubblico inglese, con quindi realtà e strategie diverse) il blog di Barbour: http://www.barbour.com/blog. Se però andate alla sezione "International" vi ritrovate dritti dentro la strategia globale, giustamente.

PPS: L'aspetto fotografico, nella loro strategia appare essere importante - ad es. su Facebook guardate queste collaborazioni con Travel Blogger come Jennifer Carr e con gli Instagrammers.

 
Di Gianluigi Zarantonello (del 03/02/2015 @ 09:00:00, in Marketing, linkato 2202 volte)

Come ogni anno Scott Brinker ha pubblicato la sua Marketing Technology Landscape Supergraphicin cui rappresenta in un’unica grafica tutto il mercato delle tecnologie di marketing.

marketing_technology_jan2015

Un mercato effervescente

Come Brinker stesso sottolinea, se il numero di 1.876 aziende ancora non vi sembrasse abbastanza rilevante, nel 2014 la sua mappatura registrava “solo” 947 aziende!

Non si può quindi negare che il marketing sia ormai una disciplina ad alto tasso di tecnologia e dicomplessità, tanto da spingere sempre più aziende a strutturare i loro team in merito, ultima nel tempo Macy’s con 150 assunzioni previste sul fronte digital tecnology.

Sempre sul fronte dei dati, anche gli investimenti di marketing per canale e le priorità dei CEOsembrano confermare questo trend, mentre (contando solo il private equity) l’apporto degli investitori al settore si aggira sui 22 miliardi di dollari.

Il cliente d’altra parte ormai è digital (vedi slide sotto), per cui sono le aziende che oggi devono rincorrerlo.

I marketer diventeranno tutti informatici? 

Tutto questo non va visto, secondo me, come un prevalere del tecnicismo su altri tipi di competenza, ma al contrario dovrebbe stimolare la valorizzazione della capacità di capire e vincere il mercato attraverso strumenti nuovi.
Basti pensare all’importanza dell’utilizzo del dato per disegnare quella customer experience che non è certo né una nozione informatica né un tema che non ci fosse da tempo sulle scrivanie: c’è un grande impiego di tecnologia ma poi quanto deve emergere sono informazioni che guidano il business e la strategia.

Il vero approccio vincente quindi a mio avviso è costituito da una digitalizzazione crescente e diffusa nell’organizzazione, che accetta nuovi paradigmi (come quello del data driven) e che inserisce la tecnologia in modo armonico nei suoi processi, dai più tradizionali, come ad esempio il customer care, fino alle pratiche più innovative.

Ma come gestire tutto questo? 

Scrive sempre Brinker: “The good news is that most of the marketing technology innovations on this landscape are designed to help marketers conquer that revolution. They’re by no means miracle transformation pills (“instant relief, just add money!”). But when applied in the service of a well-organized, strategically-sound, executive-led digital transformation effort, these technologies are your friend. They can imbue your organization with superhero powers”.

In altri termini, la tecnologia e il digital da soli non cambiano il mondo, sono qualcosa che potenzia chi lavora, non una bacchetta magica. Questo significa anche che la loro adozione e sviluppo deve essere oggetto di una governance consapevole, strategica e con un livello executive, di cui ho parlato recentemente in questo post.

E poi una cosa resta fondamentale: nessuno può farcela da solo, l’ecosistema digitale è un lavoro di team, dal contenuto fino alla piattaforma tecnologica, e quindi bisogna collaborare trasversalmente nelle organizzazioni. Il che forse è il cambiamento più grande da far digerire.

Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com

 
Di Altri Autori (del 02/03/2015 @ 07:00:31, in Marketing, linkato 1282 volte)

I marchi non soltanto si vedono, ma si scrivono. E c’è chi paga per farlo. Trovare il nome di un brand in un testo di narrativa è esperienza piuttosto comune e normale; probabilmente finora ben pochi lettori hanno prestato troppa attenzione leggendo qua e là di Apple, Audi o Coca-Cola.
Al contrario, i brand sono sempre più interessati, tanto da chiedere agli autori di entrare a far parte delle loro storie, di essere letti, anche pagando.

L’ultimo esempio è stato quello di William Boyd. Sceneggiatore, autore di Brazzaville Beach e dell’ultima avventura letteraria di James Bond (Solo), Boyd ha inserito in The Vanishing Game il brand Land Rover, facendo guidare al suo protagonista un Defender.
Un product placement pagato con un assegno a sei cifre dalla casa automobilistica che, senza entrare nel merito del testo, ha chiesto solo di essere citata. Il libro è stato distribuito gratuitamente in versione digitale anche sul sito di Land Rover.

I PRECEDENTI

«Gli scrittori hanno sempre scritto su commissione», si è difeso Boyd. Il quale non è certo il primo caso di inserimenti “su carta”: nel 2001 Bulgari ha chiesto a Fay Weldon (Dopo il crash) di inserire almeno una dozzina di volte il nome del brand nel suo The Bulgari Connection, romanzo che Bulgari intendeva distribuire in esclusiva gratuita ai suoi clienti e che in seguito è stato pubblicato da HarperCollins.
Gli inserimenti sono stati 34; l’autrice è stata pagata 18 mila sterline più la possibilità di indossare oltre 1,5 milioni di dollari in gioielli per il lancio del libro (che poi ha dovuto restituire!).
Pubblicità occulta o volontaria, spesso un marchio definisce una situazione o un personaggio meglio di molte parole, e non solo nella cosiddetta chick lit (con l’esempio eccellente de Il diavolo veste Prada).
Sono i completi di Ermenegildo Zegna o di Armani a definire gli yuppie di American Psycho, mentre il catalogo Ikea di Fight Club è simbolo dell’esistenza predefinita e pre-Tyler Durden del protagonista.
Con gli e-book, poi, sono già sulla rampa di lancio progetti editoriali che coinvolgono anche siti e Web series, creando ulteriori spazi per le marche: uno di questi è Find Me I’m Yours di Hillary Carlip, con il dolcificante Sweet’N Low. L’autrice è già al lavoro sul sequel.

Via Business People

 
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