Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il marchio che vale di più è Google: 159 miliardi di dollari, il 40% in più dal 2007. Mountain View batte così Apple, relegata al secondo posto con un valore di di 148 miliardi di dollari. A scattarle fotografia dei marchi mondiali è Millward Brown Optimor, la società che compila l'annuale classifica dei primi 100 brand al mondo, BrandZ.
I 10 maggiori marchi americani, dell'Europa Continentale e del Regno Unito hanno registrato un aumento del proprio valore negli ultimi 12 mesi, mentre quelli delle economie emergenti hanno rallentato. Nessun marchio indiano compare in classifica, e solo uno africano, in calo anche i brand cinesi rispetto al 2013. Prima invece in classifica per Twitter e LinkedIn, che conquistano rispettivamente la 71/ma e la 78/ma posizione con valori di 13,8 miliardi di dollari e 12,4 miliardi di dollari.
Complessivamente il valore totale dei primi 100 marchi al mondo è di 2.900 miliardi di dollari, il 12% in più rispetto all'anno scorso. Un aumento che mostra un'accelerazione rispetto alla media annuale del 9% registrata dal 2006, quando per la prima volta è stata stilata la classifica.
Via Quo Media
Non vi sono esenzioni dal mercato pubblicitario, anche le tv a pagamento, come anche i giornali, traggono parte delle proprie risorse dalle inserzioni. E’ quindi sulla misurazione del tempo che Auditel basa i propri dati sul consumo di televisione, più volte aggiornandosi e rinnovando se stessa: la propria composizione societaria, la composizione del panel di famiglie e la propria strumentazione tecnologica.
Recentemente Sky ha deciso che le informazioni messe a disposizione dal vecchio Auditel non bastano più e che è arrivato il momento di avere un altro strumento non alternativo, ma integrativo. Il risultato è Smart Panel, sistema di rilevazione che passa dalle poco più di mille famiglie dell'Auditel alle 10mila del nuovo campione. Non è solo una questione di numeri, ma di qualità dell'indagine. Smart Panel rileva anche i consumi tipici dell'era digitale, ovvero streaming, on demand e consumo che passa da tv a tablet. Per Sky si tratta di Sky Go, Sky On Demand e Sky Online, oltre alla modalità di utilizzo della Guida Tv e dei servizi interattivi. La premessa è che circa il 90% dei ricavi di Sky arriva dagli abbonamenti, il resto dalla pubblicità. Il 60% degli abbonati ha un decoder MySky, che permette di gestire tempi e flussi della programmazione, oltre 2 milioni usano SkyGo e un milione i servizi on demand. “Per una tv a pagamento l'affidabilità dei dati di ascolto è fondamentale per definire la linea editoriale e perfezionare l'offerta”, spiega Andrea Mezzasalma di Sky Italia. “Con l'Auditel – continua – abbiamo canali da 5mila telespettatori che vengono rilevati da un solo meter”. Nel caso della serie tv House of Card, il grafico Auditel mostra un calo contenuto tra prima e seconda puntata e poi un crollo alla terza. La stessa rilevazione fatta da Smart Panel indica invece una curva più armonica, con una dispersione minore: “Un dato molto più simile a quello che ci saremmo potuti aspettare da una serie come questa”. C'è poi la pubblicità. Secondo Sky dai dati Auditel risulterebbe che su 100 spot sui canali Sky e Fox, 39 non sarebbero visti da nessuno e questo “ci dà grossi problemi con i clienti” sottolinea Mezzasalma. Con Smart Panel gli spot zero scendono a 8. L'installazione dei nuovi set-top-box in tutta Italia è in corso e il nuovo monitoraggio sarà operativo da luglio 2014. Ai 10mila che hanno firmato il consenso informato e accettato il nuovo sistema in casa, Sky dà un compenso di 50 euro una tantum in buoni di acquisto che arrivano 6 mesi dopo. La soluzione tecnologica è interna, prodotta da Eureka e diversa da quella adottata in Inghilterra da BSkyB; oltre all'uso del telecomando è in grado di monitorare quando il decoder è acceso ma la tv è spenta. Sky fa parte del comitato tecnico dell'Auditel, continuerà a farlo e spiega che il nuovo strumento “non deve essere l'anti-Auditel; a nessuno fa comodo che ci siano due diversi standard sul mercato”. È per questo che i nuovi dati verranno messi a disposizione di Auditel.
La società, nata a Milano nel 1984, ha la proprietà divisa in quote del 33% per le tre componenti fondamentali, cioè televisione pubblica, emittenza privata, aziende che investono in pubblicità con agenzie e centrali media, con un 1% di proprietà della Fieg. Oggi è dotata di strumenti che registrano tracce audio digitalizzate delle emittenti televisive sulle quali è sintonizzato il televisore della famiglia-campione: la registrazione avviene a prescindere dalla piattaforma attiva in quel momento, avviene qualunque sia il decoder collegato al televisore. L’audio registrato viene poi confrontato con l’emesso di tutti i canali, canali registrati in una banca dati centrale. Il passo successivo consiste nell’accoppiare l’audio digitale ripreso dai meter delle famiglie-campione con quello della banca dati, alla ricerca dell’audio coincidente. Si tratta dunque di una struttura molto articolata, che consente alla società di rilevazione, la Nielsen Television Audience Measurements, di avere almeno tre diverse fonti di dati: i meter familiari, le centrali territoriali di registrazione e le unità di controllo. Si tratta di un sistema di rilevazione degli ascolti televisivi complesso e costoso, dovuto alla nascita, alla crescita e allo sviluppo della televisione digitale. Per conoscere il consumo di un’emittente analogica bastava infatti conoscerne la frequenza di trasmissione nelle diverse aree del Paese; lo strumento di rilevazione collegato al televisore doveva semplicemente constatarne lo stato, acceso/ spento, e, se acceso, verificare su quale frequenza il televisore fosse sintonizzato.
L’adozione del sistema di registrazione e controllo delle tracce audio mette in grado la Nielsen e quindi la società committente di questi dati, cioè l’Auditel di conoscere il consumo di tutte le reti televisive, indipendentemente dalla collaborazione e dalla volontà dell’editore, come avveniva per i dati sul consumo di televisione analogica. Il sistema dell’audio matching presenta inoltre dei vantaggi per la misurazione del consumo dell’emesso televisivo, indipendente-mente dalla piattaforma e dal televisore. Nell’ultimo periodo le due società stanno sperimentando la rilevazione del consumo di televisione effettuato tramite computer. Le tracce audio sono il legame che consente l’identificazione di quanto sia ascoltato tramite computer, brevi spezzoni sia interi sia programmi. Il limite è temporale, per essere misurato come audience l’ascolto deve avvenire entro sette giorni dalla data di emissione. Il sistema potrà valere anche per tutti gli altri device che trasmettano programmi televisivi, purché ci sia l’accordo delle persone a far parte del campione, ovvero a consentire la registrazione audio di tutto quel che ascoltano tramite computer, tablet e smartphone, e, nel caso di questi ultimi due, anche dei proprietari dei sistemi operativi. Il punto debole di questa modalità di rilevazione riguarda soprattutto i casi di trasmissione contemporanea di un evento, tipicamente il messaggio di Capodanno del Presidente della repubblica: la criticità è emersa con la rilevazione degli ascolti del funerale di Papa Giovanni Paolo II. Trasmessi da Rai 1 e da Rai Storia, i funerali rilevarono un ascolto record per Rai Storia, ma si trattava di un errore, una trasposizione delle audience della prima rete. Per evitare l’inconveniente, il meter rileva anche il telecomando e il tasto utilizzato per sintonizzarsi e accoppia queste informazioni. Ovviamente non mancano certo le critiche ad Auditel e al suo sistema di rilevazione, ma si tratta sicuramente del più evoluto dei sistemi di rilevazione dei consumi mediali: Audipress, AudiPoster e Audiweb hanno metodiche meno evolute e meno controllate e controllabili.
Via Quo Media
Con l’avvicinarsi dei mondiali di calcio in Brasile sia i tifosi che i produttori di beni e servizi sono in fermento cercando di trarre ogni possibile vantaggio pubblicitario dall’evento.
E per evitare ogni forma di abuso, la FIFA ha emesso delle linee guida ad hoc volte a limitare l’utilizzo dei propri marchi da parte di società che non siano gli sponsor ufficiali dei mondiali. Questi marchi non comprendono unicamente i più ovvi loghi dei mondiali, della mascotte e l’immagine della coppa del mondo, ma anche termini quali “World Cup” o “Brazil 2014″ e la FIFA ha adottato un’interpretazione molto restrittiva in merito al loro utilizzo sollevando nei commentatori dei quesiti circa l’effettiva validità di tali restrizioni.
Brasil 2014
Il criterio utilizzato per accertare se l’utilizzo di un segno distintivo simile ad un marchio di un terzo sia lecito si basa sulla possibile confondibilità dello stesso da parte del pubblico. Allo stesso modo, i diritti di esclusiva attribuiti su di un marchio non si estendono ai casi in cui lo stesso sia utilizzato con finalità descrittiva e quindi, ad esempio, nel caso in cui una società debba descrivere i prodotti che offre.
Tali problematiche devono ora essere analizzate nel nuovo contesto “social” derivante dalla diffusione dell’utilizzo dei social media che sarà ancora più accentuato durante un evento di portata mondiale come la Coppa del Mondo di Calcio. In tale contesto si porrà il problema relativo ai limiti in cui un soggetto che non è partner dell’evento può ad esempio utilizzare un hashtag che direttamente o indirettamente si riferisca allo stesso.
Cosa avverrà nel caso in cui un operatore di scommesse online intende pubblicizzare le proprie ultime quote sulle partite di calcio dei mondiali utilizzando un hashtag dedicato che riproduca uno dei marchi della FIFA? Ci troveremo di fronte ad una nuova tipologia di ambush marketing?
L’ambush marketing è definito da Wikipedia come “ipotesi di associazione indebita (non autorizzata) di un brand ad un evento mediatico; ossia quando lo stesso non appartenga ad uno degli sponsor ufficiali“. Questa forma di pubblicità ha avuto una notevole copertura mediatica durante gli scorsi mondiali in Sud Africa a causa della partecipazione alla partita Danimarca – Olanda di 36 ragazze vestite di arancione che a giudizio della FIFA erano state inviate dalla compagnia olandese Bavaria, mentre lo sponsor ufficiale dei mondiali era la compagnia danese Budwaiser. Senza svolgere ulteriori accertamenti, FIFA aveva cacciato dallo stadio le ragazze e tale “imprevisto” era stato così pubblicizzato che aveva comportato l’effetto opposto a quello voluto dalla FIFA. Ciò vale come ulteriore dimostrazione che in presenza di tali violazioni, la migliore soluzione da adottare non è sempre la repressione. E ciò potrebbe essere ancora più giusto in un contesto “social” dove, a causa della viralità della rete, la possibile limitazione dell’attività dell’autore dell’azione contestata potrebbe non raggiungere i risultati sperati.
Lo stesso problema, del resto, si potrebbe porre nel caso in cui i giocatori delle nazionali di calcio fossero sponsorizzati da marchi concorrenti a quelli ufficiali dell’evento e li pubblicizzino per esempio tramite il proprio account Twitter. L’esempio più recente di questo genere è stato il messaggio su Twitter del giocatore inglese Wayne Rooney in cui pubblicizzava la Nike tramite un commento che non era chiaramente riconoscibile come un messaggio pubblicitario. In quell’occasione le autorità inglesi hanno censurato la pubblicità della Nike perché i messaggi non erano trasparenti e potevano essere interpretati dal pubblico come le opinioni personali dal giocatore.
Tale tipo di condotta, qualora dichiarata in violazione della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e in materia di pubblicità ingannevole, avrebbe potuto portare a sanzioni fino a 5.000.000 euro da parte dell’AGCM in Italia.
Si potrebbe aprire una discussione infinita sull’argomento, ma per il momento possiamo solo aspettare cosa i pubblicitari avranno in mente e ovviamente tifare per l’Italia!
Via Tech Economy
Spesso vengono proposte in rete interessanti infografiche sul cliente che potremmo dover gestire tra 5 o 10 anni, questa volta invece vi propongo per un breve commento una versione che parla invece del 2015. Ossia dell’anno prossimo.
Personalmente sono d’accordo con la maggior parte dei temi proposti nell’immagine, con una grande considerazione di fondo: queste rivoluzioni si stanno sviluppando in modo costante e sistematico da anni, senza strappi eclatanti ed improvvisi, e ora si iniziano a vedere davvero in atto.
In particolare l’utilizzo dei device mobili per essere sempre connessi ormai è un dato assodato (anche in Europa e in Italia) che è cresciuto lentamente ma inarrestabilmente mentre nella business community si discute da tempo di “anno del mobile” (e molte aziende intanto non sono ancora pronte al “mobile first”). Questo ha permesso lo sviluppo di fenomeni come lo showrooming e presto consentirà una diffusione più ampia di interazioni digitali in contesti fisici, come i negozi.
Un altro grande tema, non nuovo, è quello del trust: l’importanza di una reale fiducia in un brand che va (anche) oltre l’advertising si consolida nel tempo, e se UGC e peer review esistono da anni la loro importanza è ormai giunta a maturazione. Questo non vuol dire però agire solo sul social media e sul valore dei fan/follower, ma anche ragionare in una logica di sistema dove la nostra coerenza è totale attraverso tutto gli strumenti ed i comportamenti.
Potrei continuare a lungo, anche perché sono temi che ho trattato spesso in passato, quello che mi piaceva però lanciare come riflessione con questo post è la consapevolezza che i grandi cambiamenti indotti dalla tecnologia sono ormai presenti, con continuo e lento avanzamento. Questo obbliga oggi le aziende ad essere attente ed anche umili osservatrici dei fenomeni in corso che vanno capiti e cavalcati (sulla base dei bisogni dei clienti) prima che diventino così forti da segnare un ritardo incolmabile.
Servono competenze, una nuova cultura con le persone al centro e la possibilità per gli innovatori interni di agire con il committment dei vertici e il supporto di tutta l’azienda. Perché intanto la rivoluzione senza clamore continua.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Le mobile app per il fitness e la salute sono in costante aumento, se ne trovano di ogni genere, ci aiutano a tenere traccia dei nostri allenamenti, a condividerli con i nostri amici e ci suggeriscono le pietanze da consumare per essere sempre in forma. Vi starete chiedendo … e cosa c’è che non va?
Queste applicazioni in realtà collezionano una quantità impressionante di informazioni relative alla nostra persona e alle nostre abitudini e, per questa ragione, sono appetibili per fini commerciali e, come di consueto, per il crimine informatico.
La Federal Trade Commission Americana ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio condotto su 12 tra le principali applicazioni per il fitness e la salute, focalizzando l’analisi sul modo in cui i dati degli utenti sono gestiti da esse e, purtroppo, non ci sono buone. Per ovvie ragioni la commissione ha evitato di rendere pubblici i nomi delle applicazioni limitandosi ad informare l’utenza dei risultati e le aziende stesse delle non conformità riscontrate.
La maggioranza delle applicazioni esaminate condivide all’insaputa dell’utente i dati collezionati con circa 76 differenti terze parti per fini commerciali, una vera minaccia alla sua privacy con risvolti non trascurabili anche sotto il profilo sicurezza. Abbiamo imparato in queste settimane che condivisioni non opportunamente gestite ampliano la nostra superficie di attacco esponendoci a frodi di vario genere. Queste aziende di terze parti collezionano per fini commerciali una grande quantità di informazioni dell’utente, dai dati tecnici del dispositivo mobile utilizzato (modello, dimensione dello schermo, lingua, paese di provenienza) ai dati propri dell’applicazione relative all’utente (e.g. età, peso, sesso) e alla tipologia di programma di allenamento seguito (e.g. tipo di attività fisica, durata dell’allenamento, locazione geografica).
Chi sono queste entità che collezionano le informazioni dell’utente, quali dati gestiscono e come lo fanno?
Praticamente tutte le app censite condividono dati del dispositivo mobile con aziende di terze parti, 18 su 76 di queste aziende collezionano dati come Unique Device Identifier (UDID) dei dispositivi Apple, il MAC address dei dispositivo e il codice International Mobile Station Equipment Identity (IMEI) del telefono; in questo modo conoscono esattamente chi sono gli utenti e su essi possono operare ogni genere di attività commerciale. Queste informazioni consentono infatti di tracciare l’utente anche una volta che l’app viene chiusa per aprirne una differente in modo che l’identificativo utente possa essere utilizzato per tracciare un profilo preciso e definire per esso una mirata campagna pubblicitaria.
Purtroppo le brutte notizie non finiscono qui. Queste entità sono principalmente interessate alle abitudini degli utenti (e.g. Frequenza con la quale camminano e/o corrono, percorsi seguiti dall’utente, programma di allenamento, abitudini alimentari).
22 su 76 aziende di terze parti riceve informazioni relative all’esercizio fisico dell’utente, sulla dieta seguita, eventuali sintomi, sesso e dati per la geo-localizzazione e 12 delle app censite inviano informazioni alla medesima azienda. Immaginiamo quindi a che quantità di informazioni essa colleziona sugli utenti! Nota dolente, i dati vengono trasferiti senza essere resi anonimi: gli esperti della commissione hanno infatti verificato che i dati menzionati sono trasferiti insieme al nome e cognome degli utenti.
Le applicazioni esaminate richiedono all’utente di fornire permessi non strettamente necessari al loro funzionamento con il risultato che i dati dell’utente condivisi con terze parti sono molti di più di quelli preventivati.
App SAlutePer un istante immaginiamo se un gruppo di criminali informatici rubasse le informazioni da queste terze parti. La prima evidenza è che, innanzitutto, difficilmente sapremmo che i nostri dati sono finiti nelle mani sbagliate, ma soprattutto finiremmo vittime di azioni fraudolente mirate. Come? Il criminale sa che la vittima ama correre e che utilizza l’applicazione del prodotto XX per condividere i dati sul suo allenamento, e gli propone perciò uno sconto fedeltà del 50% sull’ultimo modello se lo comprerà online su un sito “copia” di quello legittimo. In questo modo il criminale ha tutto quello che serve per portare avanti la frode. Bisogna essere onesti, quando si scarica una app dallo store ufficiale, non si pensa a tutto questo…
Ma tali app rappresentano una minaccia anche per la sicurezza fisica degli utenti. Quando si condivide una performance sportiva vengono fornite il più delle volte informazioni relative al percorso e ai tempi di percorrenza, dati che potrebbero essere utilizzati da male intenzionati per ordire azioni criminali. Se l’utente è impegnato a fare footing e vive da solo … l’app fornisce indicazioni utili che danno l’opportunità ai criminali di derubare casa (magari la persona ha anche condiviso sul social qualche foto dell’ambiente in cui sta correndo, così da dare ulteriori informazioni sugli spostamenti.)
Il mio suggerimento quindi è quello di essere attenti: ogni azione nel mondo digitale potrebbe avere seri risvolti, non siate paranoici ma semplicemente attenti nell’utilizzo degli strumenti informatici, ne va della vostra sicurezza.
Dimenticavo … fate sport più che potete, ve lo dice un maniaco del fitness.
Via Tech Economy
Il bottino della pubblicità web ha toccato un nuovo record in Europa, raggiungendo i 27,3 miliardi di euro nel corso del 2013. L’Italia sio conferma nelle posizioni di vertice nel Vecchio Continente, quinto mercato tra quelli analizzati, con un valore di 1,7 miliardi di euro.
Secondo l’indice AdEx Benchmark di Iab Europe, il Paese più prolifico per banner e affini è il Regno Unito, che in inverno ha raccolto 7,4 miliardi di euro in adv online. A seguire si trovano Germania, con 4,7 miliardi di euro, Francia, a 3,5, e Russia, con 1,8. Il settore a livello continentale è cresciuto dell’11,9%, mentre nel per l’Italia il tasso positivo è stato del 13%.
A influenzare l’andamento della pubblicità internet negli ultimi mesi sono stati soprattutto i nuovi modelli di consumo diffusisi con i dispositivi mobili, ormai presenti in modo capillare in tutta Europa e sempre più appetiti anche dagli investitori. A dimostrazione di ciò ci sono gli ottimi risultati del mobile display (+63% in Italia) e del video advertising (+46%) e più in generale del mobile advertising (+41%).
Via Quo Media
Detto, fatto. La Rai, come promesso, ha sostanzialmente chiuso il suo canale YouTube, cancellando quasi tutti i 40mila filmati di sua proprietà presenti sul portale video di Google. L’accordo sullo sfruttamento dei diritti sulle clip è scaduto lo scorso 31 maggio e viale Mazzini si era detta insoddisfatta della proposta di rinnovo.
Così il servizio pubblico sparisce dal più importante canale video di internet, insieme agli account specifici delle sue trasmissioni: scomparsi quelli di Ballarò, Che tempo che fa, Porta a Porta e altri. Con loro se ne vanno anche i filmati incorporati in milioni di pagine web, che risultano non più visibili.
La Rai otteneva da YouTube 700mila euro per il caricamento di circa 7mila clip ogni anno: i video sono ancora disponibili sul sito della tv pubblica, che però ha un sistema di visione e condivisione molto più complesso, che finirà con lo scoraggiare gli utenti. Anche per questo la decisione di sparire dal portale di Google, annunciata nei giorni scorsi, è stata molto discussa e criticata. Tra i pochi filmati ancora online su YouTube, il più visto di sempre in casa Rai: l’audizione di Suor Cristina per The Voice. Ma anche questa verrà oscurata a breve.
Via Quo Media
Crescono a ritmo rapido gli abbonati alla telefonia mobile, tanto che entro il 2015, il numero di contratti sottoscritti supererà quello della popolazione mondiale. A sostenerlo è l’ultimo Mobility Report di Ericsson, secondo cui il tasso di avanzamento dei cellulari è del 7% annuo e nel solo primo trimestre 2014 le attivazioni nette sono state 120 milioni.
Con la diffusione dei telefonini, cresce anche quella degli smartphone. Secondo lo studio, entro il 2019 il numero di abbonamenti broadband, ovvero comprensivi di telefonia mobile e internet, saranno 7,6 miliardi, rappresentando l’80% di tutti i contratti di settore. Qualche anno prima, nel 2016, gli abbonati smartphone supereranno quelli dei normali cellulari, arrivando a quota 5,6 miliardi.
Numeri che portano a pensare che il traffico dati esploderà nel prossimo quinquennio, quadruplicando il suo volume attuale e decuplicando quello registrato a fine 2012. Il mondo è mobile e il web lo segue a passo veloce.
Via Quo Media
La pubblicità è l'anima del commercio, ma Apple vuole comunque garantire che la sua idea di esperienza utente sia rispettata: per questo ha deciso di applicare in modo rigido i paragrafi 2.25 e 3.10 del suo accordo con gli sviluppatori, così da rendere più chiari i messaggi visualizzati dagli utenti durante l'utilizzo dei dispositivi iOS. Su App Store è vietata la concussione.
I due paragrafi citati riguardano la promozione di applicazioni diverse da quelle dello sviluppatore, o l'offerta di crediti e chances di gioco in cambio di azioni predefinite: ad esempio quando si presentano altri prodotti diversi da quelli scaricati da App Store in maniera tale da far credere che ci sia un altro marketplace interno; oppure se si prova a far visualizzare un video (pubblicitario) in cambio della possibilità di continuare a giocare; o ancora se si prova a convincere l'utente a lasciare una recensione sul prodotto in uso in modo troppo pressante e insistente.
Sono moltissime le app che utilizzano questi meccanismi, anche celebri e grandemente scaricate, puntando a fare pubblicità al prodotto costringendo l'utente a chiedere l'aiuto dei propri contatti sui social network per sbloccare i livelli o ottenere bonus di gioco. Apple ha deciso di darci un taglio, e questo significherà anche condizionare il meccanismo di promozione delle app: ci sono esempi di successo, di grande successo, di aziende che hanno fatto la propria fortuna viralizzando richieste di aiuto su Facebook, e scalare le classifiche del marketplace non sarà più così semplice. Resta da chiarire se il repulisti di Apple sarà retroattivo.
Via Punto Informatico
Omnichannel o multichannel che sia, il tema di questa infografica è assolutamente all’ordine del giorno per moltissime aziende e sta entrando di diritto negli hype mediatici anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. Il cliente infatti è online, ma ama ancora e molto gli store reali, creando dei percorsi articolati tra fisico e digitale.
Personalmente me ne occupo tutti i giorni, anche da tempi meno sospetti, come ogni inizio di settimana mi piaceva dunque prendere spunto dalla ricerca da cui viene tratta l’immagine per qualche considerazione.
La prima è che la customer experience si basa anche su fattori molto tecnici, dati e tecnologie: il risultato è una percezione del cliente ma per vincere la sfida con i competitors c’è dietro un grande lavoro dove l’estetica e la comunicazione sono assolutamente integrate con aspetti di altra natura. Una coerenza e una capacità di muoversi tra i canali che oggi viene richiesta al nuovo profilo di marketer.
La seconda è che, stando alla ricerca, anche dove ci sia un team dedicato all’omnichannel non mancano le difficoltà, perché averlo non basta se non si integra con il resto dell’azienda e della strategia.
C’è poi molto forte il tema del seamless, ossia del fatto che per il cliente tutti gli strumenti ormai sono vissuti in una continuità di azioni, e dunque l’aspettativa è quella di non trovare problemi passando da un device all’altro, come spiegavo qui relativamente alla navigazione web vs. mobile (ma vale per tutto).
Ultimo ma non ultimo, un grande argomento è quello della misurazione attraverso i vari canali. Se ne potrebbe parlare a lungo, e non ho qui lo spazio. Evidenzio solo che già oggi si misura poco il mezzo singolo, a partire dal web, mentre la cultura degli analytics è e sarà una delle prossime skill chiave.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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