Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Le fotografie di un paesaggio. I video di YouTube. La frase più bella di un articolo o di un romanzo. Tumblr è un un blocco di appunti per raccogliere parole e immagini incotrati sul web: permette di catturarle e riassemblarle in una sola pagina. Come un blob personale di internet. Se il social network twitter punta su segnalazioni e opinioni pubblicate in brevi testi dai suoi utenti, tumblr riunisce soprattutto frammenti di testi, disegni, filmati.
Oppure commenti, opinioni, citazioni tratte da un testo sul web. Negli ultimi mesi ha incuriosito i giornali negli Stati Uniti. Il primo a sbarcare con un progetto ufficiale su tumblr è stato il settimanale Newsweek: pubblica una selezione di contenuti tratti dalle sue pagine e da internet. Poi sono arrivati altri, come il New Yorker. Fino ai reporter d'inchiesta di Pro Publica, l'organizzazione non profit premiata con un premio Pulitzer: hanno utilizzato il microblog per costruire un collage ironico delle dichiarazioni politiche più recenti, ispirandosi ai fumetti.
Da pochi giorni tumblr è entrato tra i primi cinquanta siti web più visitati negli Stati Uniti. E si sono accesi i riflettori. Come spiega il New York Times, gli utenti sono sei milioni. Non molti, se paragonati alla folla di Facebook e Twitter. Ma l'espansione è rapida: i post pubblicati ogni giorno sono 4,5 milioni, sette volte in più rispetto a un anno fa. E metà degli iscritti abita al di fuori dei confini Usa. Soprattutto, ha attirato l'interesse di società editoriali e di altre aziende. A fondarlo è stato un ragazzo di 24 anni, David Karp: il diciannove luglio ha scritto sul suo twitter "Ci siamo riusciti" appena ha saputo di essere entrato nell'olimpo digitale degli spazi web più visitati.
Tumblr è stato lanciato nel 2007. La sua marcia in più rispetto a twitter è nella facilità di raccogliere video e immagini sul web (attraverso un bottone da installare sul browser, il software per la navigazione online). Gli utenti che aprono un profilo possono raccogliere in un solo spazio video di Youtube, citazioni da articoli, link. E aggiungere un loro commento. È adatto per la visualizzazione su dispositivi mobili con schermi a colori, come gli smartphone e i tablet. Gli appunti online diventano nel tempo un racconto visuale da condividere, un punto di vista sui percorsi nel web. Ma il team di twitter non resta a guardare e gli amici: hanno annunciato che presto immagini e filmati avranno più spazio anche sui loro microblog.
di Luca Dello Iacovo su ILSOLE24ORE.COM
Il New York Times si ispira a Apple: entro l'anno aprirà una piattaforma per progettare applicazioni software mirata ai gruppi editoriali che vogliono sbarcare su iPad e iPhone. Ha già scelto un nome, sarà Press Engine. In questo modo il quotidiano newyorkese offre la sua consulenza nel passaggio dalla carta all'accesso in mobilità delle notizie, attraverso gli schermi touch di tablet e smartphone. Il giornale guidato da Bill Keller è il più letto sul web negli Stati Uniti: da tempo è all'avanguardia nello sviluppo tecnologico e di design per le testate.
Adesso offre le sue competenze sul mercato. E mira a costruire un modello di business simile a Apple. Gli editori riceveranno gli incassi derivanti dalla pubblicità e dalla distribuzione delle copie digitali. Ma dovranno pagare al New York Times una licenza d'ingresso e una tariffa mensile. Nel suo negozio di applicazioni, invece, l'azienda di Cupertino lascia il 70% dei ricavi agli sviluppatori software e trattiene il 30%.
Le prime testate si sono già fatte avanti per accedere alla miniera di conoscenze racchiuse in Press Engine: a partecipare saranno il Daily Telegraph e tre giornali appartenenti al gruppo A.H. Belo ("Dallas Morning News", "Providence Journal" e "Press-Enterprise"). Potranno accedere all'esperienza maturata dal quotidiano per costruire una versione in grado di rispondere alle esigenze dei lettori, a partire dalle funzioni più semplici, come l'archivio degli articoli e la condivisione dei testi più rilevanti. L'edicola digitale di iPad può già vantare alcuni successi: negli Stati Uniti sono state scaricate sul tablet di Apple 250mila copie del "Financial Times": l'effetto diretto, secondo il gruppo Pearson che pubblica il quotidiano finanziario, è stato un incremento degli abbonamenti alla versione digitale del 10%. I lettori trascorrono circa 25 minuti a sfogliare con il display touch le pagine della testata inglese.
di Luca Dello Iacovo su ILSOLE24ORE.COM
Il servizio del motore di ricerca che doveva rivoluzionare le mail sarà soppresso. La lista dei flop di Mountain View si allunga, in attesa del nuovo social network
Doveva rivoluzionare la comunicazione online ed è invece finito nel cestino come una qualunque mail indesiderata. Il progetto Google Wave 1, lanciato dal motore di ricerca nel maggio del 2009, non verrà più sviluppato. Con un breve comunicato sul blog ufficiale, la compagnia di Mountain View ha annunciato l'interruzione dei lavori su Wave. La motivazione è semplice ed era da tempo sotto l'occhio di tutti: quasi nessuno usa "l'onda" di Google.
I pochi estimatori del servizio dovranno accontentarsi di utilizzarlo fino a tutto il 2010. Dopo questa data parti di Wave verranno integrate con altre applicazioni di Google che ancora non sono note: le ceneri alimenteranno insomma altri progetti, una parte del codice sorgente è stata resa pubblica per gli sviluppatori interessati, ma il servizio come è fruibile adesso scomparirà.
Il perché di una disfatta. Una volta decretata la morte di Wave è tempo di trovare i responsabili e la caccia al colpevole è in queste ore l'attività principale dei siti e dei blog specializzati di mezzo mondo. Gli errori dal momento del lancio in poi sono stati in effetti numerosi. Innanzitutto la presentazione di Wave ha creato un'attesa senza precedenti per un servizio web e la decisione di limitare l'accesso a sole centomila persone (un'inezia pensando che Gmail è usata più di 150 milioni di utenti) ha creato fenomeni di isteria collettiva. I rarissimi inviti a Google Wave, almeno in una prima fase, sono stati il desiderio di milioni di persone, tanto che qualcuno li ha pure messi all'asta su eBay.
Purtroppo una volta riusciti ad entrare sul Wave molti utenti sono rimasti spiazzati dal programma che prometteva di fare troppe cose senza sostituire però strumenti ormai tradizionali come la mail, la chat o i social network. Wave era insomma uno strumento in più di cui non si sentiva troppo la necessità e troppo isolato rispetto al resto dello streaming di un utente. Mentre il proprio mondo digitale andava avanti su Facebook o sulla mail, Wave rimaneva in un angolo ad aspettare.
L'ultimo tentativo di salvare il prodotto è stato fatto a maggio, quando la necessità di ricevere un invito per entrare su Wave è stata eliminata. Troppo tardi: in quel momento l'interesse era ormai scomparso del tutto e dopo solo due mesi e mezzo è stata messa la parola fine all'intero progetto. Le "vecchie" mail restano, Wave scompare.
Gli altri flop. La fine di Wave si va ad aggiungere alla lista dei prodotti terminati di casa Google: una lista che negli ultimi tempi si è fatta piuttosto lunga e rischia di crescere ancora. L'ultimo in ordine di tempo è stato il Nexus One, il primo cellulare venduto direttamente da Google sul suo sito, che doveva rivoluzionare l'intermediazione tra consumatori e compagnie telefoniche (soprattutto negli States) e dopo sei mesi è stato terminato per le poche vendite.
Le cose per Google non sono andate meglio quando il motore di ricerca ha provato a seguire la strada dei concorrenti in altri settori. Nel tentativo di creare un suo Twitter, nel 2007 Google acquistò il servizio di microblogging Jaiku, salvo poi chiuderlo nel 2009, proprio mentre l'uccellino blu rivale iniziava a macinare numeri milionari. Nel 2008 era stata la volta di Lively, il mondo tridimensionale nato sulla scia del boom di Second Life e soci, che permetteva di chattare usando un proprio avatar. Lanciato a luglio del 2008, il servizio venne definitivamente cancellato a dicembre dello stesso anno.
A questa sequenza bisognerebbe poi aggiungere i servizi che sono ancora vivi ma che non sembrano godere di buona salute. L'esempio non può che essere Google Buzz, il semi-social network lanciato a febbraio ed integrato in automatico su Gmail. Un servizio che ha prima creato diversi problemi legati alla privacy ma che ora in tanti sembrano aver dimenticato. Secondo Mountain View ci sarebbero 40 milioni di utilizzatori di Buzz, eppure il servizio non sembra così partecipato. La lista dei prodotti non tanto convincenti si potrebbe allungare con Knol, la simil Wikipedia, oppure Orkut, il social network made in Google che ha riscosso successo solo in Brasile e India, restando sconosciuto nei paesi occidentali.
E' naturale che solo una società che sperimenta molto fa tanti errori, e poi Google può in questi giorni "consolarsi" grazie al successo del suo sistema operativo per cellulari Android che sta segnando tassi di crescita record negli States e nel mondo. Senza contare poi i numeri della pubblicità e del fatturato che continuano a crescere trimestre dopo trimestre.
Il futuro. Archiviata la vicenda Wave, la prossima sfida per Google è quella con l'altra colonna del web mondiale: Facebook. Anche se di comunicazioni ufficiali non ce ne sono, le voci su un social network (Google Me) che dovrebbe competere direttamente col libro delle facce sono insistenti. La storia del motore di ricerca in termini di socialità, come dimostrano Buzz e Orkut, non è delle più felici. Ma un altro fallimento in questo campo potrebbe costare molto più caro della fine di Wave.
di Mauro Munafò su Repubblica.it
Duecentomila telefoni cellulari con sistema operativo Android vengono attivati ogni giorno. Questo il numero più significativo per spiegare il crescente successo del software sviluppato da Google, che sta conquistando un fetta sempre più cospicua del mercato degli smartphone.
A fine marzo, Android era il quarto sistema più utilizzato dai cellulari di ultima generazione. Davanti a lui Symbian, Blackberry Rim e iOS di Apple, su cui si basa iPhone. Entro l’autunno, il programma open source di Google dovrebbe scalzare parte della concorrenza, issandosi in seconda piazza.
Una crescita sensazionale nel breve periodo, considerando che a febbraio la casa di Mountain View dichiarava une media di 60mila cellulari Android venduti al giorno.
Via Quo Media
Torna a crescere l’industria musicale digitale, almeno in Gran Bretagna.
Dopo un quinquennio di flessione, causata soprattutto dal diffondersi delle connessioni internet veloci e della pirateria che consente di scaricare intere discografie in pochi minuti, nel 2009 le entrate generate dal settore danno segnali positivi e raggiungono il 33% totale del mercato musicale d’Oltremanica.
Lo scorso anno, gli utenti web britannici hanno speso 30,4 milioni di sterline in musica digitale, con una crescita del 72% rispetto al 2008. Il Regno Unito si conferma leader europeo nel settore, con un mercato dal valore doppio rispetto a quello di Francia e Germania.
Il vero motore dell’economia musicale, però, restano i concerti e le esibizioni dal vivo, che nel 2009 hanno fruttato la cifra record di 1,5 miliardi di sterline.
Via Quo Media
Ci sono voluti quattro anni per raggiungere il traguardo, ma domenica Twitter ha potuto festeggiare i 20 miliardi di messaggi postati dai propri utenti. L’onore inconsapevole è toccato a un internauta giapponese, che poco dopo la mezzanotte ha lasciato un tweet sulla propria pagina, ricevendo in cambio decine di commenti di congratulazioni.
“Sembra che abbia postato il 20miliardesimo messaggio. Mi stanno scrivendo da tutto il mondo. E’ incredibile. Ho pensato fosse uno scherzo”. Queste le parole dell’utente nipponico, sorpreso da tanta attenzione.
Il fatto non fa che rafforzare la fama del social network fondato nel 2006, decisamente in ascesa nell’ultimo anno. Se per raggiungere i 10 miliardi di messaggi erano serviti quasi quattro anni, per raddoppiare la quota sono bastati cinque mesi, e sono ormai 190 milioni gli accessi unici quotidiani al sito. Proprio il Giappone ha contribuisce in maniera massiccia al traffico del micro-blog, con il 12% complessivo dei tweet (8 milioni al giorno), secondo solo agli Stati Uniti.
Via Quo Media
Il servizio Adwords di Google – la piattaforma per creare annunci pubblicitari utilizzando parole chiave – non viola il copyright di alcun marchio. Ma come già avviene, Google avrà il compito di eliminare, a seguito di una segnalazione, link che rimandano a siti che vendono merce contraffatta o di dubbia provenienza. Lo ha stabilito ieri la corte di giustizia europea in relazione alla vertenza che oppone il motore di ricerca californiano al colosso della moda Lvmh, titolare di brand come "Louis Vuitton" ma anche il gruppo Viaticum, con marchi come "Bourse des Vols".
Tutto verte intorno alla possibilità di impiegare a scopo pubblicitario «parole chiave corrispondenti a marchi altrui nell'ambito di un servizio di posizionamento su internet». Un esempio: un rivenditore di borse "Louis Vuitton" partecipa a un'asta e si aggiudica la possibilità di far comparire il proprio negozio tra i link sponsorizzati. Il rivenditore si aggiudica così il diritto di comparire in cima alla classifica dei risultati quando un navigatore ricerca parole come "borsa" o "Louis Vuitton". Il brand, ovviamente, non appartiene al merchant ma questo tipo di utilizzo, come spiega la sentenza della Corte europea, «non viola il copyright dei marchi nel consentire agli inserzionisti l'acquisto di parole chiave corrispondenti ai trademark».
Un pronunciamento che rimarca la "neutralità" di Google in quanto piattaforma tecnologica. O quasi. Perché se è vero che Google non infrange i trademark permettendo che siano utilizzati come parole chiave per le ricerche sponsorizzate, ci sono almeno un paio di punti che sono stati rimarcati. Il primo: i rivenditori che smerciano prodotti dalla provenienza non «facilmente rintracciabile» sono ritenuti responsabili della violazione dei trademark e dunque non possono accedere al programma di Adwords che frutta a Google ogni anno circa 23 miliardi di dollari. Il secondo: nel caso in cui gli venga segnalata la natura fraudolenta di un link sponsorizzato, Google non è responsabile solo se elimina il link tempestivamente. La sentenza ha comunque rimarcato il concetto che, in generale, il service provider non è responsabile della violazione del trademark. L'attenzione si sposta quindi sugli inserzionisti. «Se un marchio è stato utilizzato come parola chiave – si legge nella sentenza – il suo titolare non può pertanto far valere nei confronti della Google il diritto esclusivo che egli trae dal suo marchio. Egli può invece far valere tale diritto nei confronti degli inserzionisti che fanno visualizzare da Google annunci che non consentono, o consentono soltanto difficilmente, all'utente di sapere da quale impresa provengono i prodotti o servizi».
Una sentenza che dimostra, secondo Google, che «i diritti legati ai trademark non sono assoluti, per una decisione che va nella direzione, più volte invocata da noi, di andare incontro meglio agli interessi del consumatore massimizzando la scelta delle chiavi di ricerca».
La replica di Lvmh: «La decisione della Corte Ue è una tappa molto importante nella chiarificazione delle regole che governano lo spazio della pubblicità online di cui Lvmh è uno dei primi clienti».
Il meccanismo contestato 1 Mountain View vende le parole chiave Adwords è la piattaforma tecnologia per creare annunci pubblicitari online attraverso l'utilizzo di parole chiave scelte dall'utente. Questa attività, tra le principali del gruppo, frutta a Google ogni anno circa 23 miliardi di dollari di ricavi. 2 Un'impresa «acquista» un marchio altrui Un rivenditore di borse di alta gamma, per esempio, può acquistare da Google un link così detto "sponsorizzato" e una parola chiave che può corrispondere anche a un marchio registrato (nel caso di Lvmh, "Louis Vuitton"). 3 La ricerca del marchio «porta» all'investitore Quando un navigatore digita nel motore di ricerca la parola Lvmh il link "sponsorizzato" rimanda, per esempio, al rivenditore che ha deciso di attirare clienti utilizzando un nome importante della moda. Secondo la Corte Ue non c'è violazione del brand. 4 Rischi di utilizzo illecito per il brand utilizzato Se il link sponsorizzato rimanda a un sito internet di prodotti contraffatti, Google dovrà rimuovere quel link solo dietro segnalazione diretta del titolare del marchio. Non c'è quindi l'obbligo di controllo preventivo da parte del motore di ricerca.
di Daniele Lepido su ILSOLE24ORE.COM
È più piccolo di un tablet, più grande di un cellulare o di un player multimediale portatile. Fa telefonate, e si può usare per navigare. Esce domani, tra i mugugni degli addetti ai lavori
Non è un tablet, non nel senso stretto del termine. Non è un cellulare, viste le dimensioni. E non è neppure un prodotto della stessa categoria di un iPod Touch: il Dell Streak è un MID unito a un telefono, un apparecchio pensato cioè per la connettività ubiqua, un'idea che circolava a cavallo tra 2008 e 2009 e non ha mai preso particolarmente piede. Ora però l'azienda USA decide di provarci, e lancia sul mercato il suo mini-tablet/telefono da 5 pollici equipaggiato con Android. Raccogliendo qualche scetticismo tra gli osservatori, interdetti per le scelte di prezzo e non solo riguardo il nuovo nato: ai più sembra destinato a battersi, e non sarà una sfida facile, con il tablet iPad più che con gli smartphone.
Tecnicamente Streak non è messo male: buono schermo da 5 pollici, fotocamera da 5 megapixel con flash, connettività 3G HSDPA, WiFi e Bluetooth. Non manca il GPS, un lettore di card microSD fino a 32GB che si aggiungono ai 512MB di ROM, i 512MB di RAM e i 2GB di memoria su un'altra microSD presente a bordo (e non accessibile all'utente) che si possono usare per archiviare le applicazioni. La CPU è un ottimo Snapdragon da 1GHz. Il problema di Streak è l'OS: monta Android, ma la versione 1.6 vecchia ormai quasi un anno, e l'azienda non prevede di aggiornarlo alla 2.2 (Froyo) se non al volgere del 2010. Inutile dire che, naturalmente, fioriranno le ROM non ufficiali "cucinate" appositamente per il dispositivo: ma l'idea di lanciare un prodotto con una release di Android vecchia, e di aggiornarlo alla attuale quando la successiva (3.0, Gingerbread) sarà alle porte, ha fatto arricciare più di qualche naso.
Altro fattore che gioca a sfavore è il prezzo. Chi desidera acquistarne uno potrà optare per la versione abbinata a un contratto biennale con AT&T al prezzo di 300 dollari più le rate mensili dell'abbonamento, oppure optare per la versione "libera" (ma SIM-locked, e visto quello che si dice della rete AT&T...) al costo di 550 dollari (più le tasse). Streak è un telefono, nel senso che ha un modulo di connessione 3G ed è equipaggiato per le chiamate GSM: ma le sue dimensioni difficilmente lo renderanno adatto a finire nelle tasche dei jeans. Eppure, se come pare scontato il MID Dell andasse confrontato con l'offerta Apple o Motorola, Streak costerà più di un iPod Touch (che ha solo il WiFi), di iPhone 4 e di un Droid X nella versione con contratto, e più di iPad WiFi nella versione semi-libera (e appena 50 dollari in meno di iPad 3G).
Resta da capire, se questi sono i prezzi dell'unità da 5 pollici, quanto potranno costare le future versioni da 7 e 10 pollici: esistono interpretazioni diametralmente opposte sulla lungimiranza della scelta operata da Dell, ma è indubbio che questo tipo di prodotto - come sempre accade per i compromessi tra diversi formati, in questo caso tra tablet e smartphone - finisca inevitabilmente per risultare interessante per una nicchia più che per la totalità dei consumatori. Il lancio nel Regno Unito, avvenuto a giugno, parrebbe confermare questa ipotesi.
In definitiva, per il tablet Dell non esiste una previsione chiara sul successo o insuccesso dell'operazione. A suo vantaggio va ricordato che si tratta di uno dei pochi prodotti di questa categoria visti al CES 2010 che finalmente trovano la strada del mercato: resta da capire, visto che si tratta di un pezzo grosso come e quanto Apple, se l'azienda di Cupertino abbia qualcosa da temere dal primo approccio della concorrenza al campo dei tablet.
di Luca Annunziata su Punto Informatico
Dopo Apple è la volta di Google: i big della tecnologia strizzano l'occhio a produttori di contenuti per il piccolo schermo, sognando una televisione quasi esclusivamente on-demand. Il colosso di Mountain View, secondo quanto pubblicato su Financial Times, avrebbe intenzione di sfruttare YouTube per proporre l'affitto di pellicole online. Pagando un gettone di 5 dollari, l'internauta avrebbe la possibilità di vedere il film di suo interesse per le 48 ore successive all'acquisto. Il tutto, ovviamente, sfruttando una connessione internet e utilizzando, preferibilmente, una tv griffata Google. L'offerta andrebbe a concorrere con quella di Netflix, che ha siglato a inizio mese un contratto di 5 anni per lo streaming a noleggio dei film prodotti da Paramount, Lionsgate e MGM, e con quella che Apple è procinto di lanciare. Via Quo Media
Il sito americano Amazon, tra i più importanti operatori di e-commerce nel mondo, sta sviluppando un servizio in abbonamento per la visione via internet di programmi televisivi e film.
Durante l’estate, la compagnia con base a Seattle ha cercato di allettare società come Nbc, Time Warner, News Corporation e Viacom, offrendo loro la possibilità di una partnership che porterebbe Amazon in competizione con Google, Nteflix e Hulu, che già forniscono show w cinema via web in abbonamento.
Il servizio di Amazon sarà disponibile su browser o dispositivi digitali di ultima generazione, quali televisori connessi a internet, lettori Blu-ray e la console Xbox 360 di Microsoft.
Via Quo Media
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