Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
I marchi non soltanto si vedono, ma si scrivono. E c’è chi paga per farlo. Trovare il nome di un brand in un testo di narrativa è esperienza piuttosto comune e normale; probabilmente finora ben pochi lettori hanno prestato troppa attenzione leggendo qua e là di Apple, Audi o Coca-Cola. Al contrario, i brand sono sempre più interessati, tanto da chiedere agli autori di entrare a far parte delle loro storie, di essere letti, anche pagando.
L’ultimo esempio è stato quello di William Boyd. Sceneggiatore, autore di Brazzaville Beach e dell’ultima avventura letteraria di James Bond (Solo), Boyd ha inserito in The Vanishing Game il brand Land Rover, facendo guidare al suo protagonista un Defender. Un product placement pagato con un assegno a sei cifre dalla casa automobilistica che, senza entrare nel merito del testo, ha chiesto solo di essere citata. Il libro è stato distribuito gratuitamente in versione digitale anche sul sito di Land Rover.
I PRECEDENTI
«Gli scrittori hanno sempre scritto su commissione», si è difeso Boyd. Il quale non è certo il primo caso di inserimenti “su carta”: nel 2001 Bulgari ha chiesto a Fay Weldon (Dopo il crash) di inserire almeno una dozzina di volte il nome del brand nel suo The Bulgari Connection, romanzo che Bulgari intendeva distribuire in esclusiva gratuita ai suoi clienti e che in seguito è stato pubblicato da HarperCollins. Gli inserimenti sono stati 34; l’autrice è stata pagata 18 mila sterline più la possibilità di indossare oltre 1,5 milioni di dollari in gioielli per il lancio del libro (che poi ha dovuto restituire!). Pubblicità occulta o volontaria, spesso un marchio definisce una situazione o un personaggio meglio di molte parole, e non solo nella cosiddetta chick lit (con l’esempio eccellente de Il diavolo veste Prada). Sono i completi di Ermenegildo Zegna o di Armani a definire gli yuppie di American Psycho, mentre il catalogo Ikea di Fight Club è simbolo dell’esistenza predefinita e pre-Tyler Durden del protagonista. Con gli e-book, poi, sono già sulla rampa di lancio progetti editoriali che coinvolgono anche siti e Web series, creando ulteriori spazi per le marche: uno di questi è Find Me I’m Yours di Hillary Carlip, con il dolcificante Sweet’N Low. L’autrice è già al lavoro sul sequel.
Via Business People
Lo abbiamo detto tutti tante volte, è ora di abbattere i silos. L'ho scritto in diverse occasioni, la capacità di unire punti diversi è una competenza chiave per il futuro. Ma poi siamo sempre lì: processi e attività si duplicano, i dati proliferano e con loro la confusione.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di confrontarmi con persone davvero in gamba su vari aspetti collegati a questo argomento e tutti ci siamo trovati d'accordo sul solito punto che la tecnologia è solo l'abilitatore che calato dall'alto però non cambia le persone.
L'importanza della visione di insieme
C'è però almeno un altro fattore importante, molto radicato nella cultura aziendale di tante persone e delle organizzazioni, ossia una certa inerzia circa la visione di insieme. Le cose che succedono a monte e a valle sono note in modo superficiale, o peggio ancora personalizzato sulla base delle convinzioni e abitudini personali. Spesso inoltre l'informazione su temi di interesse generale non circola, o lo fa solo per dipartimenti. Oggi la digitalizzazione ha talmente intersecato e potenzialmente democraticizzato i processi mettendo il cliente al centro che una gestione tipo catena di montaggio in molti ambiti mostra invece i suoi limiti. Le persone viceversa devono essere più consapevoli di quanto accade e, almeno a livello base, delle logiche che le riguardano per almeno quattro motivi:
1) empowerment e appartenenza, che di solito un anello passivo di una catena non ha 2) contributo al miglioramento che spesso solo chi fa le cose sul campo può dare 3) necessità di efficienza (nessun può farcela da solo) in organizzazioni sempre più orientate alla multicanalità 4) gestione della pervasività della tecnologia, per cui ogni persona in realtà oggi agisce su degli strumenti senza intervento di enti "tecnici" a supporto.
La buona volontà ovviamente non basta...
Se è vero che ci vuole un cambio di prospettiva individuale è poi altrettanto indispensabile mettere le persone in condizione di farlo, con formazione e logiche di scambio di knowledge tra funzioni e ruoli diversi.
Obiettivo è quello di creare consapevolezza, che ripeto non vuol dire competenza tecnica spinta di tutti su tutto ma appunto la capacità di evitare quei malintesi clamorosi e quelle occasioni perse che derivano dal non capirsi. Semplificando molto, serve quindi tanto dialogo e tanto ascolto con l'aiuto di ruoli che facilitino lo scambio e guidino in modo discreto ma chiaro la transizione.
Quale è la vostra esperienza diretta in merito?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
In Italia l'investimento in Mobile Advertising nel 2014 è cresciuto del 50% raggiungendo il valore di 290 milioni di euro. Si tratta del 14,5% di tutta la pubblicità su internet. Questo dato, che conferma in pratica quello dell'Osservatorio Mobile Marketing del Politecnico di Milano, sottolinea come nel nostro Paese la pubblicità sia sempre più "mobile" e come stia diventando uno dei protagonisti indiscussi del mercato.
A metterlo nero su bianco la ricerca "Survey Agency Snapshot" - condotta per la prima volta da IAB Francia, BVDW / IAB Germania, IAB Italia, IAB Spagna, IAB Regno Unito e IAB Europa tra novembre e dicembre 2014 - che ha coivolto gli addetti di 154 agenzie pubblicitarie, con l'obiettivo identificare le attuali strategie in tema di marketing. Alla ricerca ha collaborato anche l'istituto demoscopico YouGov.
«La collaborazione tra gli IAB locali e IAB Europe per la produzione di questo studio, che interessa cinque mercati europei, è importante per valutare il livello di comprensione del valore del mobile in Europa, i driver e le barriere alla crescita. È incoraggiante vedere che nei nuovi budget viene considarata anche la voce Mobile Advertising, questo fatto dimostra che questo mezzo attrae gli investimenti pubblicitari», ha affermato Alison Fennah, Executive Business Advisor di IAB Europe.
Per quanto riguarda il nostro Paese, emerge come stia crescendo l'interesse delle agenzie per il Mobile Advertising. L’80% degli intervistati è convinto, infatti, che entro il 2015 la maggior parte delle agenzie media introdurrà il Mobile Advertising nelle proprie strategie.
«Il Mobile ha fatto registrare negli ultimi anni ottime performance. Insieme al Programmatic e al Video è certamente uno dei trend trainanti di tutto il nostro comparto», ha dichiarato Michele Marzan, Vice Presidente IAB Italia.
A rimarcare la crescente consapevolezza dell'importanza e dell'efficacia di questo canale nelle strategie pubblicitarie delle aziende il fatto che il 55% degli investimenti sul canale mobile negli anni passati era stato destinato ad altri media, contro il 30% di nuovi budget destinato specificamente a questo segmento.
La ricerca ha mostrato che però c'è ancora un po' di scetticismo nell'uso del canale mobile: il 47% degli intervistati vorrebbe avere più informazioni in merito alla gestione della privacy (Mobile Privacy), il 41% sulla pianificazione e il 35% sulla tutela del proprio marchio (Brand Safety).
E non è finita qui. Come sottolinea Marzan: «La ricerca ha evidenziato l’esistenza di barriere da superare. Prima fra tutte la scarsa comprensione dei vantaggi del Mobile Adv da parte del cliente (segnalata dal 50% del campione, ndr), seguita da una mancanza di integrazione nelle campagne a più ampio spettro e soprattutto di sistemi chiari di misurazione. Come Associazione il nostro compito è quello di supportare tutta la Industry con attività di formazione mirate e di lavorare insieme a tutti gli stakeholder nella definizione di metriche standard per la misurazione dei risultati. I dati sono sicuramente incoraggianti ed è quindi importante continuare a valorizzare questo segmento».
In Europa il 60% delle agenzie propone campagne su Mobile ai clienti
A livello aggregato, la ricerca ha messo in luce come le potenzialità del Mobile Advertising siano ormai riconosciute: il 60% delle agenzie, infatti, afferma di averlo reso parte integrante nelle proposte di campagne avanzate ai propri clienti, e per il 2015 la percentuale sale addirittura all'82%.
Dal punto di vista del budget, il 42% riconosce che il Mobile ha in qualche modo sbloccato nuovi finanziamenti per la pubblicità. Mentre il 71% è ancora costretto a gestire un budget unico da dover allocare ai diversi canali di comunicazione (mobile, internet, televisione, stampa e radio).
Tra i fattori più apprezzati del Mobile Advertising c'è la possibilità di lanciare una campagna di comunicazione location based, segnalata nel 63% dei casi. Il fatto poi che la pubblicità su Mobile stia prendendo piede in Europa è avvalorato, anche, dal peso crescente che hanno gli operatori specializzati all'interno delle agenzie, dove il 74% degli esperti di mobile e il 76% di quelli di soluzioni digitali si sentono riconoscere un ruolo guida nel decidere le strategie pubblicitarie su device mobili.
Come accade in Italia però anche a livello aggregato le agenzie sentono la necessità di avere maggiori informazioni sugli aspetti legati alla privacy (57%) e sulla tutela del proprio marchio (45%).
Via Wireless4Innovation
Realizzare smartphone senza servizi non porta utili, anzi, porta solo debiti. Lo sanno bene coloro che hanno scelto di appoggiare Android e si sono ritrovati, dopo qualche anno, meri produttori di hardware che hanno arricchito Android gestendo però in prima persona tutti i problemi legati alla produzione, alle scorte, all’assistenza e alle oscillazioni dei prezzi. Lo abbiamo sempre detto: la fortuna di Apple non è tanto l’iPhone quanto i servizi associati agli iPhone, servizi che ovviamente fruttano se sul mercato ci sono tanti utilizzatori. In principio erano le app e i contenuti a fare la fortuna di Apple, ma l’arrivo di soluzioni gratuite per le app più costose, di servizi di streaming a canone fisso e di contenuti freemium ha frenato un po’ queste fonti di guadagno comunque redditizie. La nuova gallina dalle uova d’oro è il pagamento elettronico: Apple, che ha già fatto debuttare Apple Pay, guadagna lo 0.15% su ogni transazione, una fetta che divide con le banche e i circuiti delle carte di credito. Considerando la diffusione sempre maggiore di Apple Pay e la quota che ha guadagnato rapidamente nelle transazioni sotto i 20 dollari negli Stati Uniti tra qualche anno è molto probabile che Apple, già piena di soldi, diventi una sorta di banca per la quantità di denaro che recupererà anche da questo nuovo fronte.
Un mercato che si sta combattendo anche in ambito Android: Google ha lanciato Android Pay mentre Samsung ha presentato Samsung Pay per il suo S6. L’azienda coreana ha fatto la fortuna di Android negli ultimi anni guadagnando davvero poco: i suoi servizi, dal Samsung App Store ai negozi per musica e video non sono riusciti ad avere la meglio sui servizi di Google come Google Play, Google Video e così via.
La fetta dei pagamenti elettronici, tuttavia, è troppo importante per arricchire ancora una volta Google ed ecco quindi che qui Samsung vuole procedere da sola: Google dovrà trovare partner importanti per Android Pay, e per la prima volta non potrà contare sul primo produttore di smartphone Android.
Tutti, in ogni caso, dovranno affrontare il problema della sicurezza: Apple per Apple Pay ha realizzato un sistema praticamente perfetto per l’autenticazione ma ha sottovalutato le procedure di autenticazione delle banche che ha portato ad un incremento del 6% il tasso di frodi sui pagamenti. La segnalazione arriva dall’esperto di pagamenti mobile Cherian Abraham, che spiega però come non sia colpa di Apple ma più che altro del processo delle banche per l’identificazione dei clienti Apple. L’iPhone, oltre a separare i dati in una partizione dedicata criptata utilizza un codice biometrico con TouchID per l’acquisto, tuttavia se un malintenzionato aggiunge una carta clonata al suo iPhone necessita solo dei codici scritti sulla carta stessa. La banca accetta la carta, ma si riserva la possibilità di verificare l’identità dell’utente per acquisti di una certa entità: per farlo viene chiamato al telefono il possessore dell’iPhone che ha fatto la transazione e quest’ultimo, in molti casi, deve fornire il numero di previdenza sociale o le ultime cifre della carta di credito. Dati, questi, facilmente recuperabili per chi perpetra una frode. Le banche comunque si stanno attrezzando per sistemare la questione frode, con la moltiplicazione del fenomeno potrebbe davvero assumere livelli preoccupanti: è facile per un utente capire se la carta è stata clonata quando si trova un acquisto consistente mai fatto, ma in mezzo a centinaia di micro-transazioni capire che mancano uno o due dollari non è altrettanto immediato.
Via DDay.it
Twitter, dopo aver messo a disposizione degli utenti la possibilità di girare video e condividerli attraverso la sua piattaforma, punta sullo streaming live. Alcune fonti vicine al social network, come riporta re/code, hanno dichiarato che la società di Costolo ha raggiunto un accordo per l’acquisizione di Periscope, una startup ancora in fase di sviluppo che permette agli utenti di “esplorare il mondo in tempo reale attraverso gli occhi di qualcun altro”.
Le voci della possibile transazione erano state già riportate da TechCrunch che ha ipotizzato un’acquisizione per cifre che si aggirano intorno ai 100 milioni di dollari. Anche Business Insider ipotizza numeri simili: il prezzo potrebbe quindi essere molto alto ma per ora non si hanno dati precisi da parte di Twitter e Periscope.
Secondo gli analisti per Twitter l’integrazione dei video in streaming sembra abbastanza ovvia, in particolare dopo che il lancio di un strumento di condivisione e di editing per i video. La capacità di trasmettere eventi in tempo reale (ad esempio le proteste, le interviste, gli eventi meteorologici, etc) è una scelta perfettamente in linea con le esperienze della piattaforma, che rappresenta il servizio più utilizzato per la diffusione di notizie e informazioni in real time.
L’accordo con Periscope arriva in un momento in cui Meerkat, un simile servizio di video in streaming live, ha guadagnato l’attenzione di molti media e di alcune celebrity Usa. Meerkat ha già dimostrato che molti utenti di Twitter hanno interesse a produrre e consumare video in live streaming: ora, grazie a questo accordo, tale funzionalità potrebbe essere sfruttata in modo nativo sul social network, rendendo quest’ultimo ancora più attraente per la diffusione di informazioni e notizie in real time.
Via Tech Economy
Il modo migliore per capire la profondità del cambiamento in atto nel retail, la vendita al dettaglio, è rivolgersi a chi questo cambiamento lo vive (e vivrà sempre di più) da protagonista, racconta Emilio Bellini – direttore scientifico Distribution & Retail Corporate, Mip Politecnico di Milano –: «Discutendo con i miei studenti di consumer experience sono loro a confermarmi che nei negozi tradizionali si annoiano».
Il “vecchio mondo” del retail, in declino, è quello della boutique come puro terminale della vendita. Oggi sta cambiando tutto, e a dirlo non sono, ovviamente, solo i giovani ma le classifiche più importanti del marketing mondiale, tra cui il ranking Interbrand, che mostra come a scalare i vertici nell’ultimo decennio sono stati i marchi che hanno operato una rivoluzione copernicana, togliendo dal piedistallo il “bene” e sostituendolo con il “servizio”, ovvero la “consumer experience”. Lo confermano i top CxO del settore intervistati da Ibm nell’ambito della sua ricerca annuale sul retail per capire l’evoluzione dei merchant, così commentata da Bellini: «Tutti i marker incrociati indicano che i brand più forti dell’ultima decade, i vari Nike, Apple, Starbucks, Ikea, oltre ai colossi digital come Amazon e Google, hanno messo al centro della propria strategia di business il cliente, quella in cui è fondamentale stabilire una relazione di «customer intimacy», e in questa direzione stanno concentrando quote sempre più rilevanti di investimenti».
A pensarci bene, l’Applestore è stato il primo esempio del nuovo scenario: nato come un moderno negozio hi-tech, in pochi anni è diventato una miniera di servizi e informazioni che accompagnano e intrattengono il consumatore nel suo journey (viaggio) di acquisto. «La nuova mission è rendere la vendita un’esperienza indimenticabile – spiega Stefania Filippone, senior director e business development consumer goods e retail di Avanade Italy –: tutte le nostre ricerche indicano che il vecchio paradigma one-to-many non funziona più, oggi vince l’one-to-one, e quindi bisogna ingaggiare i consumatori con servizi innovativi e divertenti profilati singolarmente». Benvenuti nell’epoca del digital retail, dove proprio Avanade (joint venture Accenture e Microsoft) è attiva con novità come quella per MontBlanc in Spagna, una soluzione Grab&Go che estende virtualmente l’orario di apertura del punto vendita (ma l’azienda porterà a breve anche in Italia una soluzione di connected retail per un top brand della Gdo ancora top secret). La parola d’ordine del futuro è omnicanalità: fine dell’obsoleto dualismo tra marketing e tecnologia e convergenza di entrambi in un flusso di servizi super-tech al consumatore, come richiesto dall’era del mobile commerce grazie alla connessione internet 24/h, ai social e al vulcano in continua eruzione dei big data – il vero tesoro che richiede strumenti analitici sempre più sofisticati per intercettare gusti e tendenze –. Va letto in quest’ottica il dato dell’ultima ricerca dell’Osservatorio sull’Innovazione Digitale nel Retail, che nel 2014 attesta proprio l’impennata al 62% del merchant multicanale: percentuale dei brand che sono passati dalla logica binaria del canale fisico vs. canale virtuale a quella multipla del multicanale integrato.
La ricerca mostra anche che i merchant vogliono arrivare in fretta all’omnicanalità, scenario in cui l’esperienza di acquisto è un viaggio seamless (fluido) dove ogni fase fa parte di un processo integrato distribuito nelle 24 ore ed esperito attraverso una pletora di canali e piattaforme. «Nella MadeIn Lab Library dell’Osservatorio ci sono le 50 aziende più innovative dell’anno nel retail, e queste non investono solo in tech o in marketing – conclude Bellini –, e quindi non solo sul come o sul cosa di un prodotto o servizio, ma sul perché: la vera posta in gioco è capire il significato della vendita, che non è più la semplice circolazione di beni-servizi, ma un complesso paradigma economico-relazionale con implicazioni socio-culturali in continua ridefinizione ». Tra gli esempi recenti di innovazione ci sono le boutique di vestiti attrezzate con i primi camerini dotati di magic mirror, specchi virtuali che mostrano il capo di abbigliamento sull’avatar scannerizzato del cliente, coadiuvati da assistenti armati di tablet e app capaci di intercettare i gusti sui social. È il caso dell’americana Werby Parker, vincitrice del «Retail Innovator of the Year Award» 2015, premiata per la radicale innovatività nell’optical retail: prova virtuale dei modelli, store-zoning e cross-canalità sfrenate. Fama di innovatore nel settore se l'è guadagnata anche Nespresso, che ha ridefinito il concetto (il Why) della consumer experience della tazzina: i coffee-lovers sono accolti dal Club Members per condividere le esperienze, con la possibilità di accedere alle aree self service degli store che, con tecnologia Rfid, permettono di ritirare direttamente in-store gli acquisti. In Italia ci si muove ancora a macchia di leopardo, con il fashion a tirare il gruppo (Cucinelli, Ferragamo e Prada in testa): tra le novità nel digital retail, lato Gdo, c’è il “Warehouse in a box” – il magazzino in scatola –, sviluppato da Wib Machines per Coop e appena inaugurato a Catania: una macchina per la vendita automatica evoluta capace di gestire un catalogo molto ampio con alimentari, vini, accessori, cosmetici e altro. Si può acquistare in loco oppure online con ecommerce da pc, tablet o smartphone, e ritirare i propri acquisti in qualsiasi momento, 24h/7.
Via IlSole24Ore.com
Noi italiani siamo un popolo che vive per sua fortuna da sempre immerso nel bello, grazie al nostro straordinario patrimonio artistico e al gusto e alla capacità di lavorare sull’estetica di eccellenza che il mondo ci riconosce.
Inoltre i millennials, nel mondo intero, sono sempre più stimolati dall’elemento visivo a discapito in parte del testo e di contenuti meno velocemente fruibili (passatemi la generalizzazione, perché non è sempre vero, e non per tutti).
Naturale quindi che la cura dell’estetica di una presenza aziendale in un ecosistema digitale e fisico sia cruciale e che dunque, come ho scritto nel titolo, l’immagine sia tutto. A patto che ci sia già il resto. Mi spiego subito, e su più fronti.
L’estetica oggi è anche ergonomia
Prendete tutto il mondo Apple, e in particolare iOS, dove una cura maniacale del dettaglio ha dato vita però non solo a qualcosa di bello ma anche ad una rivoluzione in cui il touch è diventato lo standard dell’uso dei cellulari.
Questo perché è bello ma anche perché è facile, i bambini prendono in mano questi strumenti e ci giocano senza dover capire nulla. Quindi, non è bello ciò che bello ma è bello ciò che funziona, e bene. Senza nemmeno spingermi nel mondo della multicanalità e dei servizi avanzati, quanti siti grafici, spettacolari e…inutilizzabili vi ricordate di avere incontrato? Io tanti.
L’idea è ciò che rende una tecnologia e un’iniziativa vincente
Un nuovo strumento può essere bello, accattivante, seducente ma poi deve risolvere (o creare) un bisogno, un problema, un’opportunità. Non è così immediato come sembra da capire, perché la tentazione di seguire la moda è forte, ma non conosco nessun progetto vincente dove una superba esecuzione (fondamentale) sopperisca al vuoto di un concetto vincente. E attenzione che la delusione, se la promessa è portata ad alto livello con una perfetta estetica, è ancora più forte se poi non siamo all’altezza.
Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che si può misurare
Il concetto stesso di bello porta con sé un grado più o meno alto di soggettività, che ovviamente fa sì che non tutti si trovino d’accordo con quanto proposto in termini di estetica.
Se è vero che non si può piacere a tutti è dunque altrettanto giusto ricordare che oggi il successo si può misurare, e in dettaglio: ecco che quindi a “bello” si deve affiancare “che funziona”. È un eterno gioco di compromesso, inutile dirlo, ma pensare di non porsi il problema di capire davvero come un’iniziativa vada e di non correggere almeno in parte il tiro se fosse necessario mi sembra un suicidio. Suicidio che non credo sia davvero così raro incontrare.
E allora come la mettiamo?
Ri-sgombro subito il campo: la qualità visiva ed estetica in generale di un’iniziativa oggi è un fattore cruciale, e i nostri nuovi consumatori nativi digitali fanno fatica a concepire che qualcosa che gli venga dato in tempi veloci non sia anche perfetto. Tuttavia in questa perfezione attesa c’è come parte integrante la facilità di uso, la rilevanza dei contenuti, la gratificazione dell’esperienza e non può bastare per questo solo una bella facciata. Paradossalmente, ciò che è solo estaticamente bello è quindi più facile da realizzare senza la restante parte del valore che ci si aspetta ed è anche a più alto tasso di insuccesso, che spesso però non viene realmente misurato e quindi percepito.
Se parliamo di marketing (ma non solo) il protagonista del futuro è come quello di questa immagine: per metà un tecnologo e per metà un artista. Sir Martin Sorrell dice che “The marketing future belongs to just two groups: technicians and magicians“. Ve la sentite di smentirlo?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Il mercato degli investimenti pubblicitari nel mese di gennaio chiude a -6,6% rispetto allo stesso mese del 2014, pari a circa 29 milioni in meno.
“Parte in sordina il mercato pubblicitario nel 2015 dopo la buona performance dell’autunno – spiega Alberto Dal Sasso, TAM e AIS Managing Director di Nielsen - Gennaio esprime ancora una fase di attesa per le aziende del nostro paese; il Quantitative Easing d’altra parte è partito questa settimana e presto dovremmo cogliere gli effetti sull’economia reale, cosi come la parità Dollaro/Euro potrà favorire l’export”.
Relativamente ai singoli mezzi, la TV chiude il mese con un calo del -4.8%, con andamenti differenti al suo interno. I quotidiani confermano il decremento che questo mese si attesta a -9.5%. I Periodici, dopo il lieve miglioramento degli ultimi mesi dell’anno, chiudono gennaio con un -5.0%.
Gli investimenti sul mezzo Radio risultano stabili a +0.4%, confermando l’andamento migliore rispetto al totale mercato, Internet, relativamente al perimetro attualmente monitorato in dettaglio, evidenzia un calo pari a -10.4%. Le nostre stime desk sul digitale in generale (aggiungendo dunque la porzione di mercato non monitorata in dettaglio) per il mese di gennaio porterebbero il web in terreno positivo vicino all’8%.
Ancora in trend negativo il Cinema (-3,7%) e il Direct Mail (-26.2%). L’Outdoor e il Transit sono i mezzi in controtendenza, in crescita rispettivamente del 7.4% e del 28.5%.
Per quanto riguarda i settori merceologici, se ne segnalano 9 in crescita, con un apporto di circa 12 milioni di euro. Per i primi comparti del mercato si registrano andamenti differenti nel periodo cumulato: alla crescita della Distribuzione (+2.8%, pari a 0.5 milioni) e dei Media/Editoria (+10.9%, circa 2.5 milioni), si contrappongono un calo dell’Automotive (-4,3%, circa 2.5 milioni) e la frenata delle Telecomunicazioni, che con circa 10 milioni in meno di investimenti rispetto allo stesso mese del 2014 registrano una performance negativa del -29.6%. I maggiori apporti alla crescita arrivano da Informatica/Fotografia (+89.4%) e Giochi/articoli scolastici (+62.6%), che complessivamente incrementano l’investimento di 2.6 milioni.
“Il mese di febbraio sembrerebbe dalle prime informazioni ancora difficile – continua Dal Sasso – mentre marzo in tendenza migliore. Il secondo trimestre potrà dare un’idea più chiara dell’andamento del 2015, anche perchè l’Expo sarà una realtà in atto. Vedremo come l’Italia, in tutti i settori sarà stata capace di sfruttare al meglio una chiara e non comune occasione di rilancio nella vetrina internazionale” – conclude Dal Sasso.
Via Spot & Web
La colazione è un momento fondamentale a cui guardare per trasformare il consumo di molti prodotti da saltuario ad abitudine consolidata. Tuttavia, sono molte e varie le categorie che possono soddisfare il bisogno del primo pasto della giornata, che in base ai nostri studi sul consumatore abbiamo valorizzato in 6,8 miliardi di euro. In questo senso, anche l’arena competitiva è più complessa e soggetta a maggiore variabilità.
Se facciamo riferimento all’ultimo anno, ad esempio, sono diverse le variazioni all’interno del carrello della spesa degli italiani e non mancano alcuni contrasti. Sono cresciute le confetture (+1,9% a volume a Totale Italia) sostenute da formati molto piccoli (151-290 gr) e da formati molto grandi (> 450 gr), favoriti da un posizionamento di prezzo più conveniente. Le fette biscottate hanno, invece, chiuso in calo (-1,2%). Il caffè, che a Totale Italia sembra flat (-0,4%), nasconde al suo interno una variazione di mix a favore del porzionato (+9,2% a volume con un indice di prezzo di 395).
D’altro canto, altri trend sembrano raccontare una storia ben precisa che ci parla di una certa voglia di mangiare ‘sano’ quando non addirittura di ‘prendersi cura di sè’.
Nel mercato dei Biscotti, ad esempio, dove vediamo una sostanziale tenuta a volume dei Frollini (+0,8% a Totale Italia), sono in crescita i Biscotti Salutistici (+6,4% a volume e +4,4% a valore) con il Senza Glutine che al loro interno mostra trend superiori al 21%, sia a volume che a valore.
All’interno delle Merendine, che riportano i trend in terreno positivo dopo gli ultimi due anni di calo (+1,2% a volume a Totale Italia), vediamo in crescita i Croissant, che hanno ricevuto un buon contributo sia dai prodotti più convenienti che dagli integrali.
Il mondo del Latte Vaccino sconta la crescente diffidenza nei confronti del Lattosio, con trend negativi sia dell’UHT (-1,2% a volume Totale Italia) che del Fresco (-7,4% a volume nella sola Distribuzione Moderna), registrando al suo interno una controtendenza del latte Alta Digeribilità (+8,4% a volume e +7,9% a valore a Totale Italia).
Anche le Bevande Vegetali chiudono in positivo (+23,7% a volume Totale Italia) e, per quanto la dimensione del mercato resti ancora limitata (130 milioni di euro) per pensare a un effettivo travaso dei consumi dal latte vaccino, nell’ultimo anno abbiamo registrato un aumento interessante del numero di famiglie che consumano la categoria (parco acquirenti attuale 4,8 milioni di famiglie, un milione in più rispetto allo scorso anno).
Per quanto riguarda i Cereali, le Barrette sono in crescita (+3,3% a volume) mentre la tipologia in scatola è stabile (+0,3% a volume), contrariamente a quello che ci si aspetterebbe considerando la complementarietà di consumo con il latte.
Lo Yogurt realizza a totale un -2,5% a volume e vede in controtendenza i segmenti Magro (comprensivo dello Yogurt Greco) e Biologico, che realizzano rispettivamente un +1,3% e un +3,3%.
Gli italiani hanno quindi la salute come primo driver di scelta di fronte agli acquisti dei prodotti da colazione?
Sicuramente ci sono categorie che continuano a prenderci ‘per la gola’, basti pensare alla crescita delle Creme Spalmabili Dolci (+6% a volume in Distribuzione Moderna). E’ innegabile, però, una forte attenzione sul tema: da una Survey condotta sul nostro Panel Consumer risulta che il 41% degli italiani è interessato, in generale, alla ‘salute’ (per i più anziani la % sale al 45) e che il 62% è convinto che gran parte delle malattie abbiano origine da una alimentazione sbagliata.
Via Nielsen
SAP prevede che l’Internet of Things (IoT) genererà utili per 329 miliardi di dollari entro il 2018 nel settore retail, ivi compreso il settore della moda. Questa impressionante crescita inevitabilmente porterà notevoli rischi legali non solo in materia di cybersecurity e conformità alla normativa privacy, ma anche in relazione alla responsabilità dei diversi soggetti coinvolti nella filiera.
Che cosa è l’Internet of Things nel settore del retail/shopping?
L’Internet of Things porterà le società del settore retail, ivi comprese le società di moda, a conoscere meglio i propri clienti, adattare la propria offerta alle loro esigenze e fornire una migliore esperienza d’acquisto tramite sensori e i c.d. big data analytics. E’ ancora presto per identificare le aree di maggiore crescita dell’IoT nel settore retail, ma le seguenti sembrano quelle di maggior interesse al momento.
Distribuzione multichannel
Viene di solito denominata come “me-tailing” e si riferisce all’abilità dei retailer di raccogliere dati in tempo reale relativi ai propri clienti da diverse fonti come il canale mobile, i social media, i dispositivi messi a disposizione dei clienti nei negozi e, nel futuro molto prossimo, tramite le tecnologie indossabili, in modo da consentire interazioni tra il retailer e i clienti molto personalizzate nel senso che l’offerta sarà customizzata alle preferenze del consumatore.
L’analisi delle preferenze e del comportamento dei propri clienti diventerà essenziale al fine di mostrare il prodotto giusto al cliente giusto. Ciò avviene già di frequente negli store online e sta notevolmente aumentando anche nei negozi fisici, ma richiede un’analisi dettagliata dei gusti del consumatore tramite una profilazione dello stesso.
Allo stesso modo, il bisogno di rendere più semplici e più facilmente accessibili i mezzi di pagamento rappresenta una delle aree in cui l’Internet of Things ha maggiori potenzialità di crescita. I nostri smartphone, smartwatch o anche le tecnologie indossabili saranno in grado di comunicare con il sistema di gestione dei pagamenti del negozio al fine di consentire i pagamenti in modo più veloce e comodo.
Tracciamento degli oggetti e dei clienti
L’utilizzo di tecnologie RFID avviene già di frequente nel settore retail al fine di prevenire i furti, ma le stesse tecnologie sono e saranno sempre più utilizzate anche per raccogliere informazioni sui propri clienti, le loro preferenze e il luogo in cui si trovano, e al tempo stesso per gestire l’inventario del proprio negozio, anche nell’ottica di una integrazione con la piattaforma di vendita online. Allo stesso tempo, i c.d. codici QR sulle etichette dei prodotti consentono di fornire informazioni aggiuntive relative ai prodotti e di compiere attività di marketing nei negozi stessi.
Ma l’Internet of Things viene di solito identificato con l’utilizzo di sensori. Questi possono essere utilizzati nel settore retail al fine per esempio di cambiare un’area del negozio tramite dei display interattivi quando un cliente si trova nelle vicinanze. Ma possono essere utilizzati anche per tracciare e misurare il flusso di clienti in certe aree nel negozio facendo un’attività di in-store analytics.
Gli addetti ai lavori vedono le maggiori potenzialità per l’Internet of Things nel settore retail attraverso le applicazioni Bluetooth Low Energy (BLE) di solito denominate “beacon” e tecnologie simili. La maggior parte degli smartphone e delle tecnologie indossabili sono già dotati di tali applicazioni che consentono al dispositivo di comunicare con i beacon situati nei negozi al fine di consentire ai retailer di tracciare i propri clienti ed inviargli ad esempio comunicazioni, mentre gli stessi visitano il negozio.
Il principale vantaggio dei beacon è che consentono di identificare il luogo in cui si trova il cliente con un’approssimazione molto dettagliata (circa 5/10 metri) il che rende le attività di marketing, tracciamento e pagamento nel negozio molto più efficaci. E ad esempio i clienti potrebbero ricevere comunicazioni di marketing sul proprio smartphone quando si avvicinano ad una sezione del negozio in cui sono disponibili prodotti in promozione.
Ma quali sono i rischi legali?
Le tecnologie dell’Internet of Things si basano per propria natura sulla raccolta di dati relativi agli individui, alla loro analisi sia con riferimento ai singolo che in forma aggregata tramite i c.d. big data e il loro utilizzo al fine di aumentare l’efficienza e le vendite tramite la fornitura di servizi ed iniziative di marketing customizzati.
Violazione della nostra privacy?
Alcune delle problematiche che derivano dall’utilizzo delle tecnologie dell’Internet of Things nel settore retail erano state già sollevate dai garanti privacy europei di recente. I garanti hanno identificato nella mancanza di trasparenza di queste tecnologie uno dei problemi principali. I clienti non sono spesso in grado di conoscere completamente quando e come i propri dati personali sono raccolti, come vengono utilizzati e i soggetti a cui i dati sono comunicati.
Il problema dipende dal livello di informazione e dalla tipologia di consenso che sono richiesti ai clienti per l’utilizzo di queste tecnologie, specialmente tenendo conto che i dati raccolti tramite le stesse possono generare profili dettagliati dei clienti. E un tentativo di trovare soluzioni efficienti è stato già eseguito dalla Commissione europea con riferimento agli RFID, ma stiamo lavorando al fine di trovare soluzioni simili anche per le altre tecnologie dell’IoT.
Cyber Security
Come già menzionato in un mio precedente articolo, i rischi relativi alla cybersecurity con riferimento alle tecnologie dell’Internet of Things sono molto elevati vista la quantità di dati raccolti tramite queste tecnologie. Allo stesso tempo, l’adozione di misure di sicurezza troppo onerose potrebbe rendere la tecnologia poco efficiente e comoda da utilizzare. La perdita dei dati raccolti con queste tecnologie può portare a responsabilità per la c.d. “data breach” che saranno soggetti a sanzioni fino al 5% del fatturato globale ai sensi della nuova normativa privacy europea.
Responsabilità dei diversi soggetti coinvolti
Un problema comune con riferimento all’utilizzo delle tecnologie dell’Internet of Things è relativo alla responsabilità dei diversi soggetti coinvolti nella gestione di tali tecnologie. I retailer faranno spesso affidamento sulla tecnologia fornita da terzi che a loro volta gestiranno la piattaforma cloud tramite i propri subappaltatori. Il problema è come i retailer debbano essere protetti non sono in termini di livelli di servizio, ma anche per i possibili danni reputazionali in caso di perdita di dati o cybercrime. E un ulteriore problema è dato dall’identificazione del “proprietario” dei dati raccolti la cui identificazione genera gli obblighi di compliance sopra indicati.
Questi sono alcuni dei problemi legali relative all’utilizzo delle tecnologie IoT nel settore retail. Quello che stiamo cercando di ottenere per i nostri clienti e di garantire la conformità con gli obblighi sopra esposti secondo modalità “business oriented” che consentano di fare affidamento sulle necessarie protezioni legali e contrattuali secondo modalità che siano economicamente fattibili per i fornitori.
Via Tech Economy
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