Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Navigare online senza pubblicità di alcun genere, evitando banner, interruzioni, annunci testuali, video sovrapposti al contenuto da leggere, più o meno intrusivi. Uno studio a cura di Page fair stima in 144 milioni (4,9%) gli utenti su scala globale dotati di strumenti per bloccare la pubblicità (ad block), in crescita del 69% rispetto all’anno precedente. La ricerca, su dati relativi a giugno 2014, pone Google Chrome in testa alla classifica dei browser più usati a tale scopo, con 86 milioni di utenti, seguito da Mozilla Firefox con 41 milioni; Chrome è inoltre responsabile del 63% della pubblicità bloccata con Internet Explorer e Safari fermi al 4%. La Polonia è il paese con i navigatori più attivi (28,6%), seguita da Grecia (24,5%) e Svezia (21,6%). L’Italia non figura nella top 10 ma il tasso di crescita su base annua si attesta a +61% rispetto al 2013.
Chi sono questi navigatori e perché bloccano la pubblicità? Una indagine condotta negli USA mostra come l’identikit corrisponda a un maschio giovane, con un picco del 54% tra i maschi compresi tra 18 e 29 anni. Il fenomeno è guidato dal passaparola, con il consiglio di installare una estensione dedicata da parte di un amico o di un familiare (49%). La motivazione principale addotta per questo comportamento è il rigetto totale (45%) o parziale (27%) della pubblicità, seguita da chi vuole evitare di essere tracciato (11%) e chi cerca migliorare le performance della navigazione (8%). L’intolleranza più elevata si concentra sugli annunci noiosi (animazioni e suoni) o fonte di distrazione (annunci prima del video o prima del contenuto), mostrando la disponibilità di accettare pubblicità più semplice e integrata.
La reazione degli addetti ai lavori si divide tra chi invita a rivedere il modello di business dell’editoria online, certo che il fenomeno non si possa arrestare, e chi condanna questi utenti, suggerendo di impedire loro di accedere ai contenuti. Se la reazione di alcuni editori tedeschi (RTL Group e ProsiebenSat1) e francesi è stata di citare in tribunale Eyeo, l’azienda titolare del più popolare tra i software di blocco, AdBlock Plus, Frédric Filloux auspicherebbe che editori e inserzionisti si riunissero intorno a un tavolo per affrontare la questione, studiando forme di pubblicità maggiormente in linea con i desideri degli utenti. Un sondaggio tra i 25 principali editori internazionali realizzato da DCN Research evidenzia una forte disponibilità (80%) a considerare metriche di vendita della pubblicità basate sul tempo invece che sul numero di visualizzioni, ma la mancanza di standard relativi costituisce ancora un ostacolo alla sperimentazione e alla diffusione.
Il fattore tempo non gioca a favore degli editori. La crescita della generazione dei Millennial (18-29 anni), dove il fenomeno è già di massa, e l’implementazione di nuovi strumenti pensati per il mondo mobile, oggi quasi escluso dal blocco per la complessità tecnica necessaria, richiedono un ripensamento dello strumento pubblicitario, rapido e innovativo. Compensare le perdite virtuali degli ad blocker con pubblicità più invasiva rischia soltanto di accelerare la fuga degli utenti.
Via IlSole24Ore.com
Google e Twitter tornano insieme. Dopo una falsa partenza cinque anni fa, i due colossi del web hanno raggiunto un accordo che permette ai tweet di 140 caratteri di essere visualizzati dal motore di ricerca non appena pubblicati. La notizia dell’intesa siglata nella giornata di ieri è stata riportata da Bloomberg News e per il momento non è stata confermata dalle due aziende.
L’accordo prevede che i messaggi inviati dai 284 milioni di utenti di Twitter siano visualizzati quasi in diretta sulla pagina dei risultati di Google, senza attendere la scansione del crawler del motore di ricerca. L’obiettivo è di far aumentare il traffico del sito di microblogging, aprendo quindi la piattaforma - così come la pubblicità e la possibilità di sottoscrizione - anche ai navigatori non iscritti.
Twitter, che ha già accordi simili con Bing e Yahoo!, rinnova l’intesa con Big G sottoscritta per la prima volta nel 2009, ma che in realtà non ha mai dato i risultati auspicati e che era quindi stata sciolta due anni dopo. In realtà i dissidi riguardavano anche la visualizzazione dei tweet sulla pagina dei risultati del motore di ricerca e l’utilizzo dei risultati da parte di Google: Twitter voleva soltanto che i messaggi finissero nella pagina dei risultati, mentre il motore di ricerca chiedeva che questi fossero integrati in maniera organica in tutti i suoi prodotti, a partire dal social network Google Plus. Secondo le indiscrezioni di Bloomberg, Google non verserà a Twitter una percentuale sugli introiti pubblicitari generati dal traffico supplementare, ma pagherà un fisso per l’accesso al database dei tweet.
Proprio questa settimana Twitter aveva accelerato sul fronte pubblicitario, siglando per la prima volta accordi con Flipboard e Yahoo Japan per vendere pubblicità al di fuori della propria piattaforma. Questa sera il sito di microblogging comunicherà i risultati del quarto trimestre: le previsioni di Thomson Reuters stimano un balzo dell’87% del fatturato a 453 milioni di dollari nonostante un rallentamento della crescita di nuovi utenti.
Via IlSole24Ore.com
I numeri della “rivoluzione Mobile” in Italia sono sempre più impressionanti: la navigazione da Smartphone ha superato quella da Pc – 15 milioni di italiani si connettono a Internet ogni giorno via Mobile per 90 minuti in media, contro i 13 milioni che si collegano con desktop, in media per 70 minuti. E tre “mobile surfer” su quattro utilizzano il loro smartphone anche durante lo shopping, per informarsi dentro e fuori i punti vendita.
Questi dati fanno capire l’enorme opportunità del Mobile in chiave business. E in effetti le aziende italiane mostrano finalmente di capire che il Mobile è non solo un canale formidabile per supportare le politiche di relazione e fidelizzazione dei consumatori: è anche in grado di “rafforzare” gli altri canali, nell’ambito di una strategia “omnichannel”.
In quest’ottica si capisce la crescita di investimenti e l’attenzione dei vertici aziendali anche per tutto l’ambito del Mobile Marketing e Service. Nel 2014 in Italia il mercato della pubblicità su smartphone e tablet (Mobile Advertising) è cresciuto del 48% e ha superato i 300 milioni di euro: si tratta del 15% del valore della pubblicità su internet, e del 4,5% di tutti gli investimenti pubblicitari fatti in Italia l’anno scorso. Soltanto due anni prima, nel 2012, il Mobile Advertising era il 5% dell’Internet Advertising, e l’1% del valore del mercato pubblicitario in Italia. In cinque anni (vedi grafico in fondo all'articolo) questo mercato è decuplicato, passando dai 33 milioni del 2009 ai 302 appunto del 2014.
Sono questi alcuni dei moltissimi riscontri del nuovo report dell’Osservatorio Mobile Marketing & Service della School of Management del Politecnico di Milano, presentato proprio ieri al Campus Bovisa dell’università milanese nel corso di un affollatissimo convegno. Il problema a questo punto però, sottolineano i ricercatori del Politecnico, è che non basta concepire lo smartphone come un altro schermo dove “colpire” il cliente: occorre un’esperienza di marca attrattiva e omogenea lungo tutto il processo d’acquisto, che garantisca un reale valore aggiunto al consumatore, per convincerlo a scaricare e utilizzare la Mobile App della marca.
Come si muovono i diversi settori: retailer, largo consumo, finance, telco, utility e automotive
«Alcuni settori hanno già maturato una vision strategica e l’hanno resa operativa, come i “pure player” del mondo eCommerce, nei quali il Mobile guida le scelte di investimento in termini di sviluppo, design, usability – ha detto Andrea Boaretto, Responsabile della Ricerca dell’Osservatorio Mobile Marketing & Service -. I Retailer tradizionali invece stanno valutando come invogliare i propri clienti nell’uso dell’App, ma comunque stanno lavorando al potenziamento della shopping experience dei consumatori, in particolare dentro il punto vendita. Le aziende produttrici del largo consumo usano il Mobile per conoscere i clienti e iniziare a costruire una relazione costante con loro, mentre per le imprese di servizi (Finance/Banking, Telco e Utility) il Mobile assume un duplice ruolo strategico di acquisizione nuovi clienti e supporto al customer care. Nel settore Automotive invece il paradigma dell’Internet of Things, delle Connected Car, rende lo smartphone uno strumento di vera e propria interazione col veicolo».
Tornando al mercato Mobile Advertising, la forte crescita è certamente un segnale positivo, ma l’Osservatorio rimarca anche la forte concentrazione a livello sia di offerta sia di domanda. Sul lato offerta, tre quarti del mercato sono nelle mani di Google e Facebook, che nel complesso crescono di quasi il 60%. Sul lato domanda, oltre il 60% degli investimenti viene da aziende che fanno vendita diretta tramite il canale Mobile.
Le enormi potenzialità di profilazione del Mobile
«La maggioranza degli investimenti su Mobile – ha detto Marta Valsecchi, Responsabile della Ricerca dell’Osservatorio Mobile Marketing & Service - rimane legata a obiettivi di performance, cioè lead generation, download di App, iscrizione a newsletter, vendita. Nel 2014 sono però cresciuti in modo significativo anche gli investimenti con obiettivi di branding, con campagne che utilizzano anche formati molto avanzati come Video e Rich Media».
Un altro trend emergente è lo sviluppo del Programmatic Advertising anche su Mobile, cioè l’automatizzazione tramite soluzioni software del processo di vendita/acquisto di spazi pubblicitari: trend che si sta sviluppando non solo in termini di investimenti ad hoc, ma soprattutto in una logica di pianificazione multicanale. «Ma l’ambito di innovazione più rilevante che guiderà la crescita del mercato nei prossimi anni è, a nostro avviso, la possibilità di sfruttare le enormi potenzialità di profilazione del Mobile non disponibili su altri canali: per esempio il geo-behavioral targeting», ha detto Valsecchi.
Via Wireless4Innovation
Non c’è bisogno di scomodare grandi teorie economiche per capire che se distribuisco un prodotto guadagno qualcosa ma se lo produco pure l’introito sarà maggiore. Questo vale ancor più per la Rete, dove la distribuzione di contenuti multimediali è a basso costo e conquistare il cliente è più facile. Spesso è l’utente stesso ad aderire volontariamente alla mia piattaforma, a diventare un cliente, ed ecco che tre superpotenze come Netflix, Amazon e Facebook da meri veicoli diventano fabbricanti di contenuti.
Il mercato a cui puntano è il cinema e lo scopo dichiarato è battere le major offrendo prodotti freschi, ben fatti, che non si trovano in televisione ma soprattutto fare cassa con tutti quegli utenti che girano sulle loro piattaforme. E a quanto pare funziona. Amazon lo ha dimostrato con “Transparent”, serie TV offerta in streming sul suo Prime Video che ha vinto due Golden Globes come miglior commedia e miglior protagonista. Ben curata e irriverente, vede una famiglia losangelina alle prese con un padre che, giunto alla terza età, scopre una nuova sessualità e diventa un transgender. Galvanizzata da questo successo, l’azienda di Bezos al Sundance Film Festival ha annunciato di avere massicci piani di espansione. Prima di tutto c’è un accordo con Woody Allen per girare la sua prima webserie e poi presentato ai sottoscrittori di Prime Video gli episodi pilota di altre sette serie, tra cui “The Man in the High Castle”, adattamento de “La svastica sul sole” di Philip K. Dick a opera di Frank Spotnitz (“X-Files”) e Ridley Scott (Si può vedere qui tramite VPN o su YouTube). A quanto dice l’azienda l’analisi del traffico generato dagli episodi zero decreterà la vita o la morte delle serie ma non tutto il potere è in mano agli utenti. I metodi analitici adottati per il calcolo così come l’indice di gradimento non saranno svelati e il motivo è presto detto: “Transparent” era stato il numero zero meno gradito dagli utenti eppure si è rivelato un capolavoro. Va bene il crowdsourcing, quindi, ma la casa di produzione puoi fa quello che vuole. Ci dà l’impressione di avere il controllo su ciò che vediamo ma poi il nostro pollice verso può anche andare a farsi benedire.
Dopo le serie ecco il cinema con la C maiuscola. Amazon produrrà 12 film l’anno, indipendenti, solo di medio budget (Tra i 5 e i 25 milioni di dollari) e con una nuova formula di distribuzione: anteprima nelle sale e uscita in streaming da quattro a otto settimane dopo contro le solite 40-52. I primi frutti della strategia dovrebbero vedersi nel corso del 2015 per entrare poi a pieno regime nel 2016. Più aggressivo l’approccio di Netflix, la celebrata piattaforma di streaming da 57 milioni di utenti tutt’ora latitante in Italia. Qui la punta di diamante è “House Of Cards”, una ridda di intrighi a sfondo politico tratta dall’omonimo romanzo del consigliere di Margaret Thatcher, Michael Dobbs. Dietro alla macchina da presa nei primi due episodi c’è David Fincher (“The Social Network”, “Fight Club”, “Seven”), davanti troviamo Kevin Spacey e al momento è la webserie ad aver ricevuto il maggior numero di nomination agli Emmy, ben nove, oltre al Golden Globe incassato da Spacey. Cento milioni di dollari di investimento ben spesi, insomma. Visto che a differenza di Amazon non vende DVD o Blu-Ray, la sua politica per il cinema è più aggressiva. Si prevedono una decina di nuovi titoli l’anno che usciranno in contemporanea nelle sale e online. Si parte dal 28 agosto con il seguito de “La tigre e il dragone”, diverse catene cinematografiche come AMC, Regal e Cinemark lo hanno già boicottato e affermato che non lo proietteranno ma staremo a vedere se la loro politica risulterà vincente. Passando dalle piattaforme ai dispositivi ecco Facebook e la sua Oculus VR, l’artefice dei visori Oculus Rift.
A quanto pare Zuckerberg si è reso conto che senza contenuti i suoi occhialoni sono solo un simpatico ma inutile accessorio e così, sempre al Sundance, ha presentato “Lost”, la prima fatica del neonato Oculus Story Studio. Realizzato da un ex Pixar e diversi game designer, il corto offre un’esperienza interattiva in cui lo spettatore è al centro di una foresta e gli elementi si muovono solo quando li guarda. Cambia così il modo di intendere il film, come lo si scrive e lo si realizza, andando sempre più vicino al videogioco. Visuale a 360 gradi e interazione daranno del filo da torcere a sceneggiatori e designer ma gli offrono anche nuove opportunità espressive. Non si sa se sarà un successo ma intanto ci si prova visto che ci sono 1,4 miliardi di utenti a cui fare pubblicità gratuita. Dal punto di vista artistico invece la prima rottura di rilievo al predominio delle telecamere è “Tangerine”, pellicola girata interamente con l’iPhone, per la precisione tre 5S. Grazie a una steadycam per evitare tremolii, lenti anamorfiche da 20 dollari e ai controlli manuali dell’app Filmic Pro, lo sceneggiatore e regista Sean Baker riesce a raccontarci di una prostituta transgender (vedi “Transparent”) ricevendo anche il plauso per la fotografia. Non sappiamo come verrà distribuito ma i colossi hanno già gli occhi puntati.
Via IlSole24Ore.com
Come ogni anno Scott Brinker ha pubblicato la sua Marketing Technology Landscape Supergraphicin cui rappresenta in un’unica grafica tutto il mercato delle tecnologie di marketing.

Un mercato effervescente
Come Brinker stesso sottolinea, se il numero di 1.876 aziende ancora non vi sembrasse abbastanza rilevante, nel 2014 la sua mappatura registrava “solo” 947 aziende!
Non si può quindi negare che il marketing sia ormai una disciplina ad alto tasso di tecnologia e dicomplessità, tanto da spingere sempre più aziende a strutturare i loro team in merito, ultima nel tempo Macy’s con 150 assunzioni previste sul fronte digital tecnology.
Sempre sul fronte dei dati, anche gli investimenti di marketing per canale e le priorità dei CEOsembrano confermare questo trend, mentre (contando solo il private equity) l’apporto degli investitori al settore si aggira sui 22 miliardi di dollari.
Il cliente d’altra parte ormai è digital (vedi slide sotto), per cui sono le aziende che oggi devono rincorrerlo.
I marketer diventeranno tutti informatici?
Tutto questo non va visto, secondo me, come un prevalere del tecnicismo su altri tipi di competenza, ma al contrario dovrebbe stimolare la valorizzazione della capacità di capire e vincere il mercato attraverso strumenti nuovi. Basti pensare all’importanza dell’utilizzo del dato per disegnare quella customer experience che non è certo né una nozione informatica né un tema che non ci fosse da tempo sulle scrivanie: c’è un grande impiego di tecnologia ma poi quanto deve emergere sono informazioni che guidano il business e la strategia.
Il vero approccio vincente quindi a mio avviso è costituito da una digitalizzazione crescente e diffusa nell’organizzazione, che accetta nuovi paradigmi (come quello del data driven) e che inserisce la tecnologia in modo armonico nei suoi processi, dai più tradizionali, come ad esempio il customer care, fino alle pratiche più innovative.
Ma come gestire tutto questo?
Scrive sempre Brinker: “The good news is that most of the marketing technology innovations on this landscape are designed to help marketers conquer that revolution. They’re by no means miracle transformation pills (“instant relief, just add money!”). But when applied in the service of a well-organized, strategically-sound, executive-led digital transformation effort, these technologies are your friend. They can imbue your organization with superhero powers”.
In altri termini, la tecnologia e il digital da soli non cambiano il mondo, sono qualcosa che potenzia chi lavora, non una bacchetta magica. Questo significa anche che la loro adozione e sviluppo deve essere oggetto di una governance consapevole, strategica e con un livello executive, di cui ho parlato recentemente in questo post.
E poi una cosa resta fondamentale: nessuno può farcela da solo, l’ecosistema digitale è un lavoro di team, dal contenuto fino alla piattaforma tecnologica, e quindi bisogna collaborare trasversalmente nelle organizzazioni. Il che forse è il cambiamento più grande da far digerire.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Quanto a fiducia, l’Italia appare in controtendenza rispetto agli altri grandi Paesi europei e del mondo. Una sorprendente rilevazione che emerge dall’ultima edizione, la quindicesima, dell’Edelman Trust Barometer – la ricerca annuale che misura la fiducia e la credibilità di aziende, governi, media e NGO’s realizzata da Edelman. La fiducia è infatti caduta ai livelli della grande crisi del 2009: sotto al 50% nei due terzi di Paesi, compresi Stati Uniti, U.K., Germania e Giappone. “Gli inimmaginabili eventi del 2014 hanno fatto svanire la fiducia nelle istituzioni”, osserva Richard Edelman, presidente e CEO di Edelman. “L’epidemia di Ebola in Africa, i disastri aerei; gli arresti dei politici cinesi; le difficoltà di alcune grandi banche internazionali; i passi falsi di alcuni grandi gruppi globali, hanno minato la fiducia della gente”. In Italia invece nell’ultimo anno la fiducia è cresciuta nei confronti di tutti: governo (dal 24 al 28%), imprese (dal 45 al 53%), media (dal 40 al 48%) e NGO’s (dal 62 al 64%). Certo si tratta di percentuali molto basse in assoluto, soprattutto quella nei confronti del governo, ma il trend non lascia dubbi. Quanto alle imprese, sorprendente la forbice che si registra in Italia fra la credibilità della aziende statali (al 35%) rispetto a quella delle grandi imprese (52%) e a quelle familiari (71%), soprattutto se comparata alle media mondiale: 50% le statati, 57% le grandi, 68% le familiari.
I MOTORI DI RICERCA BATTONO I MEDIA TRADIZIONALI Per la prima volta i media tradizionali perdono la leadership nei confronti dei motori di ricerca come fonti di informazione per le notizie, con una fiducia rispettivamente al 62% contro il 64%, a livello globale. Valori ancora più accentuati in Italia: 57% dei media tradizionali contro il 69%.2 I motori di ricerca vengono utilizzati per raccogliere e comparare informazioni da fonti diverse, così come opinioni di altre persone su un determinato argomento, oppure ancora per verificare le notizie. Anche la fiducia nei media online in Italia è aumentata dal 50% nel 2014 al 61% nel 2015, interrompendo il trend negativo che registravano da anni. Un fenomeno dovuto ad un graduale processo di accettazione da parte del pubblico che è stato incoraggiato da fattori come il miglioramento della qualità di questo tipo di media, grazie agli investimenti da parte degli editori. Inoltre le abitudini in Italia stanno cambiando, i consumatori si stanno spostando dai media tradizionali come la Tv verso l’uso di Internet, la tecnologia mobile sta incoraggiando questo cambiamento. A questo si aggiungono i motori di ricerca, che incoraggiano l’utilizzo dei mezzi di informazione online.
CAMBIO DI PASSO, IL WEB PRIMA DI TUTTO Non a caso il web in Italia lo strumento più utilizzato in assoluto per informarsi: per il 34% i media online e motori di ricerca sono la prima fonte consultata, il 45% in Italia li usa per trovare “breaking news”, mentre per il 52% sono lo strumento migliore per trovare conferme sulle notizie. Un trend in crescita negli anni che riscontriamo anche a livello globale. Restano indietro televisione e giornali cartacei con valori nettamente inferiori.
I SOCIAL NETWORK PERDONO FIDUCIA La caduta di fiducia nei confronti dei CEO continua per il terzo anno consecutivo scivolando nei Paesi sviluppati a un valore mondiale 31%. A livello medio mondiale i CEO si collocano al 41% mentre i rappresentanti del governo 38%; valori molto bassi se raffrontati con gli accademici (70%) le “persone come te” (63%). Valori in linea con quelli riscontrati in Italia: 67% per gli accademici e 61% per le “persone come te”, mentre i CEO arrivano al 32%. In Italia c’è più scetticismo sui creatori di contenuti sui social network, tutte le categorie hanno un livello di fiducia più basso rispetto alla media mondiale. Solo gli amici e la famiglia in Italia rimangono nella categoria “fidati” con il 63%, tutti gli altri scivolano nella categoria “incerti o neutri”, inclusi gli esperti accademici. Le aziende e i loro lavoratori sono percepiti anche loro “incerti o neutri”, mentre la maggior parte dei creatori di contenuti tra cui giornalisti, dirigenti, VIP e celebrità, ricevono percentuali basse che li collocano nella categoria “sfiduciati”. Un’indicazione rilevante per la comunicazione soprattutto delle aziende.
INNOVAZIONE, ITALIA PRONTA AL CAMBIAMENTO Per la prima volta l’indagine ha sondato la fiducia nei confronti dell’innovazione: a livello mondiale il 51% degli intervistati ritiene che sia avvenuta troppo in fretta. Ma qui c’è un’altra sorpresa: fra gli italiani sono più quelli che credono che il fenomeno sia troppo lento (43%). Rispetto a un mondo tutto sommato un po’ “conservativo” l’Italia appare quindi un Paese ben disposto nei confronti dell’innovazione tecnologica. Quasi metà dei rispondenti (47%) dichiara che secondo loro le aziende non fanno abbastanza test durante la fase di sviluppo dei prodotti. Di contro, le azioni che aiutano maggiormente a costruire la fiducia in Italia sono: rendere pubblici i test (71%) e stringere partnership con istituzioni accademiche (68%).
Via Spot and Web
Qual è la nazione che trascorre più tempo su Internet? Quale il paese che sfrutta maggiormente i device mobili? Quanti sono gli account attivi sui social media e chi sono i frequentatori più assidui di Facebook piuttosto che di WhatsApp? A svelare questi dubbi sono Digital, Social e Mobile 2015 elaborato da We Are Social. La relazione 2015 copre più di 240 paesi con un focus approfondito su 30 tra le nazioni più “influenti” a livello economico e offre una panoramica regionale e globale dei dati chiave per internet, social media e l'utilizzo mobile. L’intero report offre puntuali informazioni di scenario per capire come si sta evolvendo il mondo digitale a livello globale oltre a delineare alcuni trend che caratterizzeranno l’intero 2015. Una panoramica a livello mondiale.
FACEBOOK E SMARTPHONE. Gli indicatori mondiali sono all’insegna della crescita: la popolazione mondiale è arrivata a quota 7.2 miliardi di persone e il numero di utenti internet attivi ha superato i 3 miliardi (contro i 2.5 miliardi di 12 mesi fa) con una penetrazione che ha raggiunto il 42% dell’intera popolazione mondiale. Gli account attivi sui social media sono oggi più di 2 miliardi ed è cresciuto del 23% il numero di persone che usano attivamente i social media dai propri smartphone. A livello globale il numero di pagine visitate da desktop è diminuito del 13% mentre è aumentato del 39% da smartphone (e 17% da tablet). La piattaforma più usata si conferma Facebook (1.36 miliardi di utenti attivi), ma è interessante osservare come continui il trend di crescita dei servizi di instant messaging: WhatsApp ha superato i 600 milioni di utenti e Facebook Messenger è usato oggi da più di 500 milioni di persone.
L'ITALIA. Nel nostro Paese gli utenti Internet attivi in Italia sono 36.6 milioni con una penetrazione pari al 60% mentre gli account social media attivi sono 28 milioni (22 milioni accedono da dispositivi mobile): quest’ultimo (accesso a canali social da mobile) è il dato che ha visto il maggior incremento negli ultimi 12 mesi (+11%), a dimostrazione di una sempre maggior propensione di interagire in mobilità. Gli italiani trascorrono in media 6.7 ore al giorno su Internet (tra mobile e desktop), e 2.5 ore sono dedicate all’utilizzo dei canali social, dato quest’ultimo che si posiziona leggermente sopra la media mondiale (2.4 ore). Anche in Italia si conferma la forte crescita delle piattaforme di instant messaging; nel Belpaese questo dato risulta ancora più marcato rispetto alla media internazionale considerando che WhatsApp risulta il servizio più usato ogni mese, ancor più di Facebook. SHOPPING ONLINE. Risultano interessanti inoltre i dati relativi all’utilizzo dei device durante il processo di acquisto; corrisponde al 39% la percentuale della popolazione che ha cercato un prodotto da desktop contro il 20% da smartphone. Il processo di acquisto avviene maggiormente da desktop (39%) piuttosto che da smartphone (16%).
Potete trovare il report completo qui.
Via Business People
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