Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
L’attesa è finita ed Apple ha svelato al mondo le tanto attese novità su cui nelle settimane e nei mesi precedenti si è tanto parlato e ipotizzato. Una giornata complessa e carica di attese se è vero, come sostenuto dal Wall Street Journal alla vigilia dell’evento, che con la nuova serie di prodotti e servizi Cupertino punta a mostrare che “si possono creare esperienze che non possono essere facilmente copiate dai rivali, e punta a mantenere la fedeltà dei suoi clienti in un momento in cui il sistema operativo Android gira sull’85% degli smartphone“. Molte le indiscrezioni della vigilia che hanno trovato conferma nella presentazione di Tim Cook e soci.
Smartphone Apple mette sul piatto, come previsto, due nuovi smartphone l’iPhone 6 e l’iPhone 6 plus. Più sottili dell’iPhone 5S, i nuovi device nonostante siano più grandi possono essere usati con una sola mano, spiega il responsabile del marketing di Apple, Phil Schiller. Montano entrambi un processore A8 da 64 bit da due miliardi di transistor, che è il 25% più veloce del precedente chip A7 (e il 13% più piccolo) e 50 volte di più del primo iPhone. I due melafonini hanno lo spessore di 6,9 mm e 7,1 mm e schermi da 4,7 e 5,5 pollici, rispettivamente. Molte altre novità: l’ iPhone 6 ha una fotocamera da 8MP con il true tone flash mentre il 6 Plus monta anche uno stabilizzatore ottico delle immagini: e può utilizzare il giroscopio per muovere la fotocamera in tutte le direzioni. I nuovi device migliorano le prestazioni LTE tanto da supportare altri 200 operatori fino ai 150 mbps. Viene introdotto anche il “voice over LTE” che permette di fare chiamate gratuite utilizzando la connessione.
Saranno in vendita negli Stati Uniti e in altri 8 Paesi a partire dal 19 settembre, con preordini dal 12, per arrivare a 115 paesi entro fine anno. I prezzi Usa vanno da 199 a 399 dollari da 16 a 128 GB con due anni di contratto con un operatore in Usa per il 6, e cento dollari in più per il Plus.
Apple Pay
Confermati anche i rumor della vigilia che davano i nuovi smartphone in grado di abilitare pagamenti contactless: Apple lancia Apple Pay, il nuovo sistema di pagamenti made in Cupertino basato su tecnologia Nfc. La piattaforma di Apple punta a sicurezza e semplicità: la carta di credito registrata sul proprio account funzionerà per effettuare i pagamenti, e per aggiungerne un’altra basterà fotografarla con il dispositivo. Apple assicura massima sicurezza anche in caso di furto o smarrimento del telefono: i codici sono registrati in modo sicuro, e il numero della carta non è mai utilizzato nelle transazioni. Gli analisti già alla vigilia vedevano nella novità Apple una grande opportunità per l’intero comparto dei pagamenti elettronici che potrebbero avere un’impennata proprio grazie all’introduzione della funzionalità di casa Apple. Sarà davvero così?
Apple Watch
Ma il vero protagonista della serata è stato l’atteso wearable di casa Apple: l’Apple Watch. Il device, accolto da un’ovazione in sala, più “personale che apple abbia mai creato” dice Tim Cook con il quale si apre: “nuovo capitolo della storia di Apple.“ L’Apple Watch, pensato in altre due varianti rispetto a quello base, ovvero Apple Watch Sport ed Apple Watch Edition in oro 18 carati, ha una corona “digitale” che funziona anche da tasto “home” per navigare tra funzioni e app sul display, e sarà disponibile in due dimensioni e in diversi materiali, pelle, metallo e plastica. Lanciato anche WatchKit che permette agli sviluppatori di realizzare app che verranno visualizzate sul device.
Fra le molte funzioni disponibili, inclusa quella di rispondere via voce alle emal e sms con il sistema Siri, c’è anche il sensore di battito cardicaco grazie a led a infrarossi. L’orologio permetterà anche la navigazione satellitare mandando segnalazioni attraverso vibrazioni sul polso e, sul fronte della smart home sarà possibile utilizzare l’orologio della Mela per regolare la temperatura di casa. Buone notizie anche per gli sportivi che con l’Apple Watch possono tracciare i progressi dei loro allenamenti con una Fitness App su iPhone ma anche visualizzare in tempo reale il consumo delle calorie, il tempo, e della distanza percorsa in allenamento con un’ apposita App. Apple Watch, che funziona solo con iPhone, modelli 5, 5c, 5s, 6, e 6 Plus, partirà da un costo di 349 dollari e sarà disponibile a partire dal 2015 come previsto alla vigilia.
E’ presto per stabilire se davvero gli annunci di Cupertino oggi abbiano scritto un nuovo capitolo della storia dei device mobili mondiali, indossabili e non. Ed è anche presto per capire se Tim Cook abbia oggi fatto dimenticare un passato fatto di critiche, di quasi abbandoni e di scomodi paragoni tra la sua idea di Apple e quella di Steve Jobs. Quel che è certo è che nei giorni scorsi gli analisi hanno già fatto previsioni di vendita rosee per i nuovi iPhone: 75 milioni di pezzi in poco più di tre mesi, da metà settembre data in cui si presume che i dispositivi arrivino sugli scaffali, al 31 dicembre. E l’atteso smartwatch sarà quasi certamente il nuovo device “da battere” per tutta la concorrenza, che sia già attiva sul mercato dei wearable, come Samsung, o che stia pensando di entrarvi.
Via Tech Economy
Secondo uno studio effettuato da Aol Platforms quando si tratta di pubblicità a pagamento sulle piattaforme sociali YouTube è il vincitore: è quello che maggiormente introduce nuovi prodotti e aiuta i consumatori a prendere decisioni di acquisto. Il rapporto, che ha analizzato i dati ricavati da 500 milioni di click e 15 milioni di conversioni durante il primo trimestre del 2014, ha rintracciato le interazioni di acquisto social attraverso la tecnologia di analisi di Convertro. Il tutto per stabilire il grado di penetrazione della pubblicità social sulle vendite on-line e il tasso di influenza sul consumatore.
Jeff Zwelling, CEO e co-fondatore di Convertro, spiega a VentureBeat: “YouTube ha un tipo di ricerca e di posizionamento preferenziale rispetto ai risultati di Google che aiuta a destreggiarsi in grandi quantità di traffico. Ma quando si arriva a YouTube, per conoscere le caratteristiche dei prodotti, il contenuto è ricco, descrittivo e di solito disponibile“. A titolo di esempio Zwelling spiega: “recentemente ho comprato una macchina per il caffè. Avevo fino a tre alternative e non riuscivo a decidere quale fosse la migliore. Alla fine, ho visto i video su YouTube di persone che utilizzano tutte e tre le macchine e ho scelto il modello che rappresentava al meglio la mia idea di una buona macchina per il caffè“.
Esistono vari step per un acquisto online dove il ruolo delle piattaforme social produce un effetto positivo.
Valutare un prodotto attraverso i social media è considerata la ‘prima’ tappa della decisione di acquisto. Il ‘centro’ del ciclo di acquisto è rappresentato dagli annunci re-targeting o altre iniziative di marketing. Nell’ultima fase, i consumatori spesso cercano il prodotto che hanno studiato nella prima fase o che hanno osservato su altri siti e ora sono pronti ad acquistare. È importante sottolineare, però, che i consumatori non seguono questo percorso in modo lineare, gli acquisti vengono effettuati in tutte le fasi del processo. Lo studio di Aol Platforms dimostra che YouTube è più “forte” sia nell’introduzione di nuovi prodotti sia nella “chiusura” della vendita: una forza confermata soprattutto per il comparto mobile. Facebook è la seconda migliore piattaforma per le presentazioni e gli acquisti, con Google+ in terza posizione.
funnel-position-social-networkTwitter, invece, si presenta come la piattaforma peggiore per le presentazioni dei prodotti: nove volte meno efficace di YouTube. È anche peggiore nell’ultima fase del ciclo di acquisto mentre è incredibilmente forte durante la fase centrale. In particolare, lo studio mostra una differenza sconcertante tra i tweet a pagamento e i tweet semplici di presentazione di un prodotto. Il report sostiene che solo l’1% dei tweet cosiddetti “organici”, ovvero non a pagamento, di prodotti conduce a una decisione di acquisto diretto. Ma cosa succede quando si sponsorizza un tweet? Su Twitter, pagare per un tweet significa che il tweet ha 30 volte più probabilità di portare ad un acquisto diretto, senza per questo comportare interazioni con gli altri utenti o ulteriori ricerche, e più di cinque volte più probabilità di introdurre un prodotto a un nuovo cliente. Promuovere tweet aiuta anche nell’ultima fase del ciclo di acquisto, con un incremento di tre volte il tasso di conversione.
Lo studio mostra risultati simili con i messaggi sponsorizzati su Facebook e Pinterest: portano a una crescita del 25% delle conversioni in pratiche di acquisto. Ma attenzione alle categorie merceologiche, non tutte funzionano allo stesso modo: cibo, bevande, abbigliamento e accessori se la cavano meglio attraverso i messaggi commentati dagli utenti e peggio attraverso i messaggi sponsorizzati, più efficaci per i prodotti tecnologici.
Via Tech Economy
La crisi (e il dopo crisi) hanno cambiato le abitudini d’acquisto degli italiani: si fa la spesa via Internet, si scelgono prodotti con lo smartphone e il tablet, si resta più a casa, si compra più cibo bio ed etnico e più hi tech. Questa è la fotografia della spesa degli italiani (dopo) la crisi fatta dalla Coop.
Secondo la ricerca nel 2014, i consumi complessivi registreranno un +0,2%, un piccolo dato incoraggiante dopo sette anni di crisi in cui sono andati in fumo più di 100 miliardi di spesa. «La recessione potrebbe finire nel 2015, ma è difficile credere che i consumi torneranno ai livelli dei primi anni Duemila» riferisce in una nota il presidente nazionale della Coop, Marco Pedroni.
Le stime analizzate dalla Cooperativa Consumatori mostrano anche come gli italiani hanno saputo reagire alla crisi tornando a risparmiare - in due anni il livello dei depositi in banca è cresciuto del +1,7% - e essendo meno pessimisti (39% contro il 44% dell’anno scorso). Tuttavia lo studio evidenzia quanto la recessione ha inciso sulla mobilità degli italiani: dal 2008 gli spostamenti, in generale, sono diminuiti del 24%, quelli verso il lavoro del 23,2% (in concausa alla crescente disoccupazione), mentre quelli per il tempo libero sono crollati del 44,6%.
Siamo diventati, quindi, più stanziali: stiamo più a casa e navighiamo di più su Internet, in media ci trascorriamo 5 ore al giorno, di cui 4,40 solo sui social. Di conseguenza le spese online sono cresciute del 20,4% in quattro anni. Rispetto al resto dell’Europa, siamo quelli che riserviamo la quota maggiore di budget per comprare da mangiare e da bere (18% contro il 14% della media europea). Anche se in Italia il carrello della spesa complessiva “si è alleggerito” negli ultimi tredici trimestri, si registra però una controtendenza. Infatti nel cestino della spesa gli italiani mettono più acquisti di qualità: in crescita i cibi biologici e vegani, etnici, bevande a base di soia (+20%), prodotti “alternativi” al glutine (+18%) e gluten free (+32%).
Unico vizio? Quando si tratta di acquisti hi-tech come smartphone e tablet, non conosciamo crisi.
Via Business People
A quasi 10 anni dal suo lancio ufficiale, con il suo miliardo di visitatori unici mensili, YouTube è ormai la piattaforma di riferimento di chiunque voglia fruire o condividere contenuti video. Da qualche anno sulla piattaforma si trovano contenuti di alto livello, creati da utenti dalla rete che scrivono, girano e montano per il pubblico.
È il caso di web-serie come The Pills, o di canali come The Jackal, che proprio su YouTube hanno trovato terreno fertile per diventare veri e propri fenomeni mediatici, spesso capaci di sfociare nei media tradizionali. Il vero problema però sono i soldi.
Ora sulla piattaforma spunta una novità: un pulsante Support, che consente a chiunque di contribuire al lavoro del canale, o del singolo creatore di contenuti, effettuando una donazione. Per ora questa funzionalità è disponibile solo per gli utenti americani, australiani, giapponesi e messicani, ma considerando che l’80% del traffico raccolto dalla piattaforma proviene da fuori i confini americani, è ragionevole aspettarsi che la funzione verrà estesa al resto dell’utenza internazionale.
Via Quo Media
I dati demografici degli utenti dei social network stanno cambiando: le vecchie reti sociali stanno ormai raggiungendo la maturità, mentre le applicazioni di messaggistica social più recenti stanno guadagnando rapidamente gli utenti più giovani. In un nuovo rapporto di BI Intelligence la società ha provato ad analizzare più di una dozzina di fonti che, in questi anni, hanno fotografato il popolo dei social media per capire come si stanno ridefinendo nel tempo.
Quello che emerge è che Facebook, Google, Twitter, LinkedIn e persino Pinterest sono diventati più dipendenti a livello globale dalla fascia di età rappresentata dai 25-34enni mentre altri social, come Snapchat e Tumblr, rimangono fortemente “abitati” da adolescenti e giovani adulti. Ecco le principali evidenze riscontrate dall’analisi.
Facebook è al femminile: le donne negli Stati Uniti sono più propense a usare Facebook rispetto agli uomini di circa 10 punti percentuali, secondo un sondaggio del 2013 sull’adozione dei social network. Facebook rimane il social network top per gli adolescenti degli Stati Uniti a dispetto di tutto. Quasi la metà degli adolescenti utenti di FB dichiara che sta usando il social di Zuckerberg più dello scorso anno e Facebook conta più utenti attivi adolescenti al giorno rispetto a qualsiasi altra rete sociale.
Detto questo, Instagram ha raggiunto, se non superato, Facebook e Twitter in termini di prestigio tra i giovani utenti. Gli adolescenti americani descrivono ora Instagram come il “più importante”, mentre Facebook e Twitter hanno perso terreno su questa misura, secondo un sondaggio sui teenager di Piper Jaffray. L’indagine ha inoltre rilevato che l’83% degli adolescenti americani in famiglie benestanti sono su Instagram.
LinkedIn è in realtà più popolare di Twitter tra gli adulti americani. Il nucleo demografico del social “professionale” è rappresentato da utenti di età compresa tra 30 e 49 anni, che corrisponde agli anni della maturità lavorativa. E non sorprende che LinkedIn abbia anche una marcata inclinazione verso gli utenti istruiti.
Twitter ha iniziato ad avere più utenti di sesso maschile, mentre in precedenza era un social network con “equilibrio di genere.” Pew Research ha rilevato che il 22% degli uomini usa Twitter, contro solo il 15% delle donne.
YouTube raggiunge il maggior numero di adulti tra 18 a 34 di ogni altra singola rete televisiva via cavo. Quasi la metà delle persone in questa fascia di età ha visitato YouTube tra dicembre 2013 e febbraio 2014, secondo Nielsen.
Snapchat, infine, è il più giovane di tutti i social network: sei su dieci utenti sono nella fascia di età 18-24 anni rispetto al 28% degli utenti di Instagram stando ad un sondaggio condotto dalla Informate.
Via Tech Economy
Cambia il sistema di rilevamento dei singoli digitali più venduti ogni settimana in Italia. L’ha annunciato la Federazione industria musicale italiana, che se ne occupa attraverso la società di ricerche di consumo Gfk. E così, da settembre insieme ai classici download, anche lo streaming avrà un suo forte peso nel decretare i pezzi più ascoltati nella Penisola: cento streaming conteranno come un download.
Il nuovo sistema misto rappresenta “un modo per tenere le classifiche al passo con l’evoluzione d’ascolto dei consumatori”, assicura la Fimi. L’operazione sottolineerà così le preferenze dei ragazzi di 16-24 anni che, incollati ai loro smartphone e tablet, fanno delle librerie musicali online come Spotify, Tim music e Deezer il loro nuovo impianto stereo in movimento.
“Il primo semestre del 2014 ha proposto risultati in crescita rispetto all’anno precedente. Ma per la prima volta lo streaming, tra audio e video, è cresciuto del 95%, ha superato il download (sceso del 18%) e rappresenta, oggi, il 55% dei ricavi del digitale, rispetto al 34% del 2013” dicono dalla Fimi. Complessivamente lo streaming ha generato 12,6 milioni di euro, contro i 9,8 milioni del download. E con lo streaming audio è lievitato anche quello video: tra YouTube e Vevo, il segno più è del 72%, con un fatturato di quasi 7 milioni di euro.
Via Quo Media
Jianlin Wang, classe 1954, uno degli uomini più ricchi della Cina, oggi non ha dubbi: fare affari in Gran Bretagna è molto più facile che trattare con gli americani. Ed è per questa ragione che Wang, proprietario del gruppo finanziario e immobiliare Dalian Wanda, già da diversi mesi ha deciso di metter mano al portafoglio per investire nel Regno Unito la “modica” cifra di 3 miliardi di sterline (quasi 3,8 miliardi di euro). I soldi finiranno in progetti imprenditoriali di vario tipo, che faranno seguito all’acquisizione del gruppo Sunseeker International, noto produttore britannico di yacht finito nell’orbita del tycoon cinese già nel 2013. Le operazioni del gruppo Dalian Wanda sono però soltanto un piccolo spaccato di quello che sta accadendo da tempo a Londra e dintorni. Oggi, infatti, la Gran Bretagna sta scalzando gli Stati Uniti nel ruolo di destinazione preferita degli investimenti esteri cinesi.
Questo, almeno, è quello che ha scritto il noto magazine economico Forbes, quando ha raccontato un’altra operazione stellare avvenuta di recente sul suolo londinese. Si tratta dell’acquisto da parte del gruppo assicurativo China Life Insurance di una mega-torre da un miliardo di euro, nel centro direzionale di Canary Wharf. DA LONDRA A DUBLINO, VIA AMSTERDAM E MADRID I cinesi, insomma, hanno fatto rotta con decisione verso il Regno di Sua Maestà. A ben guardare, tuttavia, c’è poco da stupirsi nel vedere i nuovi tycoon della Repubblica Popolare sbarcare sulle sponde della Manica. La Gran Bretagna, infatti, è da almeno un trentennio la meta preferita in Europa (e non solo) degli investimenti diretti esteri, da qualunque parte arrivino. Poco importa se si tratta di operazioni messe in cantiere dai fondi sovrani o dai nuovi ricchi dell’Estremo Oriente oppure da qualche multinazionale con dimensioni planetarie. Chiunque metta mano al portafoglio, a Londra trova difficilmente le porte sbarrate. A dirlo sono anche i dati pubblicati dalla società di consulenza e revisione internazionale Ernst&Young che, nel 2013, ha calcolato la presenza nel Regno Unito di ben 799 progetti di investimento da parte di operatori esteri, che hanno generato oltre 27 mila nuovi posti di lavoro. Si tratta di una cifra superiore ai dati che si registrano in Paesi con un’economia più grande o con dimensioni simili a quella del Regno Unito. È il caso della Germania (che ha attirato 701 progetti) e della Francia (471 progetti). Per non parlare dell’Italia che, nella classifica di Ernst&Young non compare neppure, relegata probabilmente sotto la voce “altre nazioni”. La Gran Bretagna, però, non è l’unico Paese del Vecchio Continente ad avere la calamita per gli investimenti diretti esteri. Assieme al Regno Unito, per esempio, ci sono altre realtà che hanno un pil ben più modesto del nostro ma che, quando si tratta di attirare i capitali, distanziano la Peni sola in maniera evidente. Si prenda per esempio la Spagna: nel 2013, secondo Ernst&Young, ha attirato oltre 220 progetti di investimento da parte di soggetti stranieri. Secondo l’Unctad (la Conferenza della Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), lo scorso anno la Spagna si è piazzata addirittura prima in Europa per il valore assoluto degli investimenti diretti esteri, che hanno raggiunto i 39 miliardi di euro, contro i 37 miliardi del Regno Unito. Performance di tutto rispetto, in rapporto alle dimensioni geografiche ed economiche dell’intero Paese, sono state messe a segno però anche dall’Irlanda (36 miliardi di investimenti diretti esteri) e dall’Olanda (24 miliardi).
A SCELTA DI MARCHIONNE Ecco allora che sorge spontaneo un interrogativo: cosa hanno di speciale tutti questi Paesi per attirare così tanti investimenti da parte delle multinazionali? Forse una risposta fulminea potrebbe darla Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles (Fca Group), il nuovo gruppo nato dalla fusione tra la casa automobilistica torinese e la statunitense Chrysler. Quando si è trattato di scegliere dove mettere il quartier generale della neonata multinazionale, Marchionne e gli Agnelli non ci hanno pensato due volte: hanno scelto di andare via dall’Italia e di spostare la sede operativa ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. La ragione? Semplice: in Gran Bretagna, c’è una tassazione sui dividendi più vantaggiosa che altrove, mentre in Olanda ci sono particolari regole societarie che assegnano un peso più rilevante nell’assemblea agli azionisti di maggioranza relativa delle aziende quotate. Di conseguenza, con meno del 30% del capitale, nei Paesi Bassi gli Agnelli potranno controllare meglio Fca Group di quanto non farebbero in Italia. È tuttavia un po’ riduttivo di spiegare l’appeal dell’Olanda e della Gran Bretagna verso gli investitori esteri con semplici ragioni fiscali o legali, come quelle che hanno spinto Marchionne a voltare le spalle a Torino. In realtà, la vicenda di Fca Group è soltanto un episodio, che descrive però molto bene l’atteggiamento di fondo che certi Paesi hanno nei confronti delle multinazionali. In Olanda e Gran Bretagna, ma anche in Svizzera, in Irlanda e ultimamente pure in Spagna, le porte sono quasi sempre aperte a chiunque voglia andare a investire. Niente pregiudizi o preconcetti, dunque, anche se le operazioni messe in cantiere sono poi molto “soft”, cioè si limitano all’apertura di qualche ufficio come nel caso di Fca Group (che nella sede di Londra avrà appena una cinquantina di dipendenti).
FISCO PIÙ LEGGERO Ben vengano gli stranieri, dunque. È il motto che accomuna i Paesi capaci di attirare maggiormente gli investimenti delle multinazionali, i quali hanno però declinato questo imperativo con modalità differenti, a seconda delle proprie vocazioni. La Gran Bretagna, per esempio, ha sfruttato soprattutto i vantaggi competitivi che gli derivano dall’avere un mercato finanziario gigantesco come quello di Londra. La Spagna, che negli ultimi anni ha attraversato una crisi profonda, sta invece puntando molto sulla flessibilità e sulla produttività del lavoro. Il merito (o la causa che dir si voglia) è di una discussa riforma dei contratti di assunzione attuata dal governo del popolare Mariano Rajoy, il quale ha reso più semplici i licenziamenti e tenuto fortemente sotto pressione il costo del lavoro, per ridare fiato agli investimenti esteri nell’industria manifatturiera. Olanda, Irlanda e Svizzera, invece, hanno fatto leva sul fattore fiscale, tenendo volutamente bassa la tassazione sul lavoro e sui profitti d’impresa. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata ai dati sulla competitività dei Paesi pubblicati ogni anno dalla Banca Mondiale, nel report Doing Business in a more trasparente world. Secondo la Banca Mondiale, mentre in Italia la pressione del fisco e dei contributi sulle retribuzioni supera ampiamente il 40%, in Olanda e Svizzera è inferiore alla metà, cioè attorno al 18%, mentre in Irlanda è addirittura di poco superiore al 12%. I-tempi-della-burocrazia-in-Italia La burocrazia in Italia (fonte Banca Mondiale)
TUTTI A DUBLINO Proprio dall’Irlanda, arriva l’esempio più significativo su come la leva fiscale riesca a fare da calamita per gli investimenti esteri. Anche nei periodi più bui della crisi economica, quando il bilancio dello Stato era ormai in pezzi, il governo di Dublino si è infatti guardato bene dall’alzare la tassazione sui profitti societari, tenendola ferma al 12,5%, il livello più basso in Europa e tra i meno elevati al mondo. Inoltre, il fisco irlandese concede generosi crediti di imposta agli investimenti in ricerca e sviluppo e ha creato parecchie agevolazioni per le start up: le aziende di nuova costituzione con un reddito inferiore a 40 mila euro, infatti, per tre anni non pagano imposte sui profitti né sui capital gains. I risultati di queste politiche di apertura agli investimenti esteri sono sotto gli occhi di tutti. Dublino, infatti, viene tuttora considerata dalle multinazionali una sorta di paradiso degli affari, nonostante la crisi degli ultimi anni. In Irlanda, per esempio, hanno una propria sede ben nove delle prime dieci aziende farmaceutiche mondiali, otto dei maggiori gruppi internazionali del settore tecnologico e circa la metà delle banche presenti in tutto il pianeta. Senza dimenticare, infine, le regine di internet come Facebook, Google e Yahoo! che proprio in Irlanda hanno stabilito i loro quartier generali europei.
Oltre a pagare poche tasse, le multinazionali che vanno a Dublino riescono anche a versarle assai velocemente, senza doversi confrontare con una burocrazia strozzante e vessatoria. A testimoniarlo, ancora una volta, sono i dati della Banca Mondiale: secondo il report Doing Business, infatti, per portare a termine gli adempimenti fiscali le aziende irlandesi impiegano mediamente 80 ore di tempo all’anno, contro le 269 ore che ci vogliono in Italia. Su questo fronte, il nostro Paese viene battuto sonoramente anche dalla Svizzera (63 ore di tempo all’anno) dalla Gran Bretagna (110 ore), dall’Olanda (123 ore) e dalla Spagna (167 ore). Quando decidono se investire o meno in una determinata area geografica, di sicuro le multinazionali guardano anche questi dati.
E L'ITALIA? Essere dei tipi molto pazienti. In provincia di Perugia, infatti, il gruppo scandinavo aspetta da anni di costruire un nuovo grande punto vendita che darebbe lavoro a centinaia di persone ma, per adesso, tutto resta in stand by: dalle amministrazioni locali, impegnate in discussioni-fiume sull’opportunità di dare il via libera a questa operazione, le autorizzazioni a costruire non sono mai arrivate, né arriveranno in tempi brevi. In provincia di Pisa è andata invece un po’ meglio: nel marzo scorso, a pochi chilometri dalla città della torre pendente, la multinazionale svedese è riuscita finalmente ad aprire il suo secondo punto vendita in Toscana, dopo aver atteso però la bellezza di nove anni. Certo, inaugurare un megastore non è un gioco da ragazzi.
Tuttavia, come ha detto una volta il patron del gruppo Esselunga Bernardo Caprotti, nel nostro Paese sembra quasi più facile metter su una centrale nucleare che non avviare un supermercato. Sarà per questo motivo, probabilmente, che certe multinazionali straniere si guardano bene dal venire a investire in Italia. Quello di Ikea, infatti, non è l’unico caso di aziende estere che hanno dovuto fare a cazzotti con i tempi biblici della burocrazia made in Italy. Molti ricorderanno per esempio il caso del gruppo British Gas, intenzionato a costruire un impianto di rigassificazione a Brindisi, ma che, nel 2012, ha deciso di gettare la spugna. Il motivo? L’ostruzionismo delle autorità locali, ostili al progetto, che hanno costretto l’azienda ad attendere ben 11 anni per sapere se poteva davvero costruire o no quel benedetto rigassificatore, dopo che British Gas aveva speso comunque più di 100 milioni di euro per programmare l’investimento.
ULTIMI IN EUROPA Non c’è dunque da stupirsi se le iniziative straniere nel nostro Paese sono ridotte da anni al lumicino, almeno in rapporto alle dimensioni della nostra economia. Tra il 2008 e il 2013, per esempio, i flussi netti di investimenti esteri in Italia si sono fermati ad appena 12 miliardi di euro, pari allo 0,6% del pil, contro i 66 miliardi della Gran Bretagna, i 37 miliardi della Spagna e i 25 miliardi della Germania. Persino la Svizzera, che è un Paese ricco ma piccolino, ci batte alla grande, con un flusso netto di investimenti stranieri pari a 14 miliardi di euro tra il 2008 e il 2013. Senza dimenticare, poi, un particolare tutt’altro che trascurabile: quando scendono a Sud delle Alpi, le multinazionali estere vengono soprattutto per vendere i prodotti che fabbricano altrove e non certo per costruire nuovi insediamenti produttivi. Certo, dare la colpa soltanto all’ostruzionismo degli enti locali è forse una spiegazione un po’ troppo sbrigativa. Sta di fatto, però, che la presenza di una burocrazia e di uno Stato ingombranti è vista spesso dalle multinazionali come uno dei motivi per cui non conviene mettere piede in una determinata area geografica. A rivelarlo è anche un’indagine sulla competitività in Europa condotta dalla nota società di consulenza e revisione Ernst&Young (European attractiveness survey 2014). Tra i motivi per cui vale la pena insediarsi in un Paese, gli investitori internazionali mettono proprio al primo posto la stabilità e la trasparenza della politica, delle leggi e dei regolamenti, cose che in Italia restano purtroppo nel libro dei sogni. Dall’indagine di Ernst&Young, tuttavia, emergono altri fattori strategici che spingono le multinazionali e gli investitori esteri a scegliere determinate destinazioni, piuttosto che altre. Tra questi fattori, per esempio, c’è l’efficienza del sistema dei trasporti, il costo e la flessibilità del lavoro, la qualità delle telecomunicazioni, il livello di tassazione sui profitti delle aziende e il potenziale aumento della produttività per l’impresa, derivante dall’apertura di un nuovo sito sul territorio. Si tratta purtroppo di qualità che all’Italia mancano, del tutto o in parte. Nella Penisola, per esempio, consumare un megawattora di elettricità costa alle aziende una media di 184 euro, contro i 152 euro della Spagna, i 149 della Germania, i 130 della Gran Bretagna e i 100 euro circa della Francia. Come si può pensare, dunque, di essere produttivi con un prezzo dell’energia così elevato? La musica non cambia, però, se si prendono in esame altri aspetti del Sistema-Italia, a cominciare dal suo arzigogolato regime fiscale.
Secondo un’analisi effettuata tempo fa dagli investitori esteri di Confindustria (l’associazione di categoria delle aziende straniere presenti nel nostro paese), nella Penisola c’è un tax rate, cioè una pressione tributaria e contributiva sui profitti d’impresa, superiore al 69% contro il 37% della Gran Bretagna e il 30% della Svizzera. Per non parlare, poi, di ciò che avviene quando le imprese devono entrare nelle aule di un tribunale. Secondo le statistiche, la durata media di un contenzioso civile nel nostro Paese è di ben 493 giorni, circa il doppio rispetto ai tempi che si registrano in Germania, Francia e Spagna e quasi il quadruplo rispetto alla vicinissima ed efficientissima Federazione Elvetica, dove le controversie si risolvono in poco più di quattro mesi. Infine, a completare il quadro, si possono aggiungere anche i dati sulla produttività del lavoro. Per ogni ora trascorsa in fabbrica o in ufficio, infatti, un lavoratore italiano genera circa 58 euro di pil, con un gap tra il 4 e il 20% rispetto ai principali Paesi europei. WHY NOT ITALY? In una nazione con i numeri sopra evidenziati, sostengono alcuni osservatori, soltanto un fesso potrebbe mettersi a fare business. Eppure, secondo diversi studiosi, l’Italia mantiene ancora alcuni vantaggi competitivi che potrebbero imprimere una inversione di tendenza al declino strutturale degli investimenti esteri. A individuare questi punti di forza, che andrebbero stimolati con un po’ di riforme, è stato un gruppo di personalità costituito da manager di fondi di private equity, docenti universitari e rappresentanti di istituzioni di alto rilievo fra cui Borsa Italiana, l’Università Bocconi e la Harvard Business School. Questo gruppo si chiama Why Not Italy? (Perché non l’Italia?) e ha pubblicato un documento che evidenzia le risorse competitive di cui il nostro Paese dispone.
A Sud delle Alpi, per esempio, c’è un sistema bancario abbastanza solido, sostenuto anche dall’elevata ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie. E ci sono pure molte ottime aziende ancora controllate dai loro fondatori, il 25% dei quali ha però più di 70 anni e si pone adesso il problema del passaggio generazionale, esplorando la possibilità di trovare nuovi partner, anche stranieri. Inoltre, nel nostro Paese non manca neppure un sistema dei trasporti e della logistica che, bene o male, è abbastanza avanzato e potrebbe attraversare una nuova fase di sviluppo, soprattutto per una ragione: sul territorio italiano, sono stati fissati dall’Ue gran parte dei corridoi ferroviari e stradali europei che collegheranno il Nord al Sud e l’Est all’Ovest del Vecchio Continente. Non va dimenticato, poi, che nel nostro Paese c’è anche un'industria del private equity abbastanza sviluppata, mentre la Borsa di Milano, pur essendo un mercato piccolo per il numero di aziende quotate, è invece una piazza finanziaria molto florida per quanto riguarda la negoziazione dei prodotti derivati e soprattutto di obbligazioni, per le quali dispone della piattaforma di trading più avanzata in Europa.
Infine, se a questi punti di forza si aggiunge pure la nostra attrattività turistica e il nostro grande patrimonio culturale, l’immagine che emerge dell’Italia è ben diversa da quella di un Paese da cui conviene tenersi alla larga. Mancano soltanto alcune riforme strutturali, che non sono però difficili da individuare. Per avere qualche suggerimento, basta leggere i report dell’osservatorio creato dall’Aibe (l’Associazione delle banche estere presenti in Italia) sui punti di forza e di debolezza del nostro Paese. Tra le riforme auspicate nella Penisola, il 55% degli investitori stranieri interpellati dall’Aibe ha individuato soprattutto lo snellimento della burocrazia e del carico normativo per le imprese, il 50% ha auspicato una riduzione dei tempi della giustizia civile, il 41% degli intervistati si augura una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, mentre il 36% vuole un minor carico fiscale sulle aziende. Tutte cose di cui si parla da anni ma che, nei palazzi romani, restano purtroppo ancora solo sulla carta.
Via Business People
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