Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
In questi giorni ho letto parecchie news interessanti, che mi hanno ispirato questo breve post, che vuole guardare un po’ al futuro.
Un primo argomento di interesse è legato al tema del cloud computing, di cui ho parlato qualche tempo fa: un esempio abbastanza eclatante è dato dall’annuncio di Microsoft che mette in rete una parte del suo gioiello Office, per competere con Google Docs.
immagine tratta da http://www.sis.pitt.edu/
Gli ambienti collaborativi online sono ormai sempre più numerosi, nella mia personale esperienza tra software saas e servizi come social bookmarks, strumenti di video conferenza, Google Docs/Calendar etc. non noto quasi nessuna differenza tra un pc e l’altro su cui posso trovarmi a lavorare.
Dal punto di vista macroeconomico su questa tendenza influiscono molto i fenomeni descritti da Chris Anderson in “Gratis”: banda sempre più larga e storage sempre più economico.
A questo punto, stando anche ai pareri di diversi analisti, con l’avvento definitivo dello standard LTE il mondo del Cloud sarà realmente accessibile anche dai cellulari, e qui arriviamo al secondo tema: lo sviluppo del mobile e dei dispositivi sempre connessi.
Immaginatevi di avere tutti i vostri servizi e software pronti ad essere fruiti in qualsiasi momento dal vostro cellulare: non sarebbe niente male no?
Che cosa ci blocca? Secondo me, a parte la tecnologia di trasmissione dati, i limiti risiedono ancora nella frammentazione dei vari sistemi operativi, cui si collegano diversi limiti di standard che in paesi più evoluti, come il Giappone, non si verificano (si pensi ai QR code).
Inoltre nel nostro paese si fa molta comunicazione alle promozioni tariffarie ma poco si lavora sull’informazione agli utenti, che ancora conoscono solo una minima parte delle opportunità offerte dal loro dispositivo mobile (anche se 10 milioni di utenti a gennaio si sono collegati al web in mobilità).
Voi che cosa ne pensate? Tra quanto saremo pienamente fra le nuvole, anche con il cellulare?
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
Una ricerca di GlobalSpec mostra come i marchi industriali investano sempre più nella promozione via web. Il rapporto 2010 riporta i successi degli investimenti pubblicitari online, con il 70% delle industrie che praticano online marketing che hanno incrementato le proprie vendite nel primo semestre del 2010.
Protagonisti del marketing industriale in rete sono i social network, frontiera verso cui guarda con fiducia il 33% delle aziende.
Via Quo Media
Twitter fa i primi passi nel settore dell'e-commerce: è attivo sul micro-blog l'account @EarlyBird che permetterà di pubblicizzare offerte di aziende e marchi. Gli internauti interessati a seguire le gesta del 'nuovo iscritto' riceveranno avvisi e aggiornamenti sulle promozioni offerte dai partner di Twitter, che pagheranno per l'esposizione ottenuta sul social network.
Le offerte saranno limitate a livello di tempo e disponibilità, aspetto che mette Twitter in diretta concorrenza con i gruppi d'acquisto online. La mossa si iscrive nel più ampio piano del micro-blog volto alla monetizzazione del traffico e della notorietà ottenuti.
Via Quo Media
Ci sono elementi molto positivi nella relazione al Parlamento del presidente dell'Autorità per le comunicazioni, Corrado Calabrò. Restano alcune rimozioni o sottovalutazioni che riguardano le cause dei fenomeni oggetto dell'analisi della relazione annuale. Cominciamo dall'analisi inconfutabile sui ritardi dell'Italia: siamo ai primi posti in Europa a livello di prezzi dei servizi e della concorrenza nella telefonia, ma siamo ben sotto la media Ue per: diffusione della banda larga, numero delle famiglie connesse a Internet, diffusione degli acquisti on line.
Siamo il fanalino di coda nel commercio e nei servizi elettronici. Molteplici fattori influiscono sulla domanda: Calabrò ne elenca diversi, tra cui la scarsa sostituibilità tra televisore e Internet, la diffusione stentata di Internet nelle fasce di età over 50, la paura di truffe telematiche e così via. Tutto vero. Uno dei problemi-chiave, però, è quello dei contenuti che dovrebbero attivare la crescita del Web, della tv mobile e quindi della domanda di banda larga. Contenuti spesso disponibili solo a caro prezzo, con relativa crescita della pirateria.
Capitolo media: dove, cioè, si producono i contenuti per le reti e le piattaforme, a parte quelli realizzati direttamente dagli utenti. Calabrò rileva come l'ascolto digitale su tutte le piattaforme (terrestre, satellite, cavo) ha superato quello della tv analogica. La digitalizzazione può essere completata nel 2011, aggiunge Calabrò, che preferisce non tener conto della richiesta di rinvio avanzata dalle principali associazioni delle tv locali nel Nord Italia. Il processo può rallentare ma la transizione è obbligata. Strano, piuttosto, non rimarcare alcuni effetti del modello italiano nelle sei regioni già digitali, soprattutto nel Lazio e in Campania, ma anche in Sardegna, con il drastico calo di ascolto delle principali emittenti locali.
A livello di risorse, «non vi è stato lo spostamento dalla tv tradizionale a Internet rispetto ad altri paesi». Non si spiega perchè questo avvenga in Italia. Rai e Mediaset, entrambe strettamente collegate al sistema politico, «conservano quote di ascolti ancora assai rilevanti sulle quali l'avvento della pay tv sta incidendo lentamente». Il problema è la concentrazione delle risorse (economiche, di diritti di trasmissione, di reti distributive integrate verticalmente). Senza un'analisi di questo fenomeno, a che serve la giusta reprimenda alle tv locali sui monoscopi o sui programmi ripetuti, che ci sorbiamo noi cittadini delle "felici" regioni digitali?
L'approvazione del Piano delle frequenza andava fatta. Fa bene Calabrò a rivendicarlo, segnalando che esso consente, tra l'altro, di liberare nove canali tv da destinare alla banda larga, come richiede l'Europa, altrimenti «la rete mobile rischia il collasso». Giusto e importante che questo sia riaffermato nella relazione, anche se le tv locali, che si vedono assegnare i canali dal 61 al 69 dal Piano Agcom preparino ricorsi e controricorsi sull'intera impalcatura del Piano stesso, con incognite sui tempi della sua attuazione. Possibile non ipotizzare misure asimmetriche a favore degli operatori più deboli e dei nuovi entranti nel sistema tv?
I problemi di fondo nell'industria dei contenuti sono due: la concentrazione, che riduce la concorrenza a scapito degli editori minori, dei produttori indipendenti e dei proprietari degli eventi. E la carenza di pluralismo scaturita da questo assetto. «L'accesso senza discriminazioni ai mezzi d'informazione delle forze politiche e sociali va tutelato, specialmente in un sistema concentrato come quello italiano» afferma Calabrò. Ha ancora una volta ragione. Evita di aggiungere i dati rilevati per conto di Agcom sul pluralismo politico nei Tg e nei programmi extra-Tg. Che dimostrano un pluralismo ridotto ai minimi termini. Bene, infine, il richiamo di Calabrò a svincolare la governance della Rai da dai partiti: sperando che, come accade da un ventennio, non resti lettera morta.
di Marco Mele su ILSOLE24ORE.COM
Cosa c'è dietro un telefonino iPhone o la neonata tavoletta elettronica iPad? Ovvero, come Apple e i suoi cugini stanno cambiando il mondo. Brian Fung su Foreign policy ha ricostruito il percorso produttivo di un iPhone. Un itinerario che si snoda nei cinque continenti e che a ogni passaggio delinea trasformazioni economiche e geopolitiche.
Materie prime. L'iPhone come tutti gli altri telefonini, i pc portatili, i lettori Mp3 e molti dispositivi elettronici funziona con una pila ricaricabile. Al cuore di questa batteria c'è un minerale: il coltan, composto complesso di columbite e tantalio. Il tantalio è utilizzato sotto forma di polvere metallica nell'industria dei semiconduttori per la costruzione di batterie ad alta capacità e di dimensioni ridotte. Grazie a questa polvere nera che ha una elevata resistenza al calore ed è capace di mantenere una carica elettrica per un lungo periodo, le pile dei nostri telefonini durano così tanto. Per questo motivo dopo l'oro e il petrolio il coltan è diventato uno dei minerali più ricercati e preziosi.
Blood coltan. Il coltan si trova in Brasile, Australia, Canada e soprattutto in Congo, nella martoriata regione dei Grandi laghi dove da decenni si combatte una guerra civile finanziata dal contrabbando di questo minerale. La Repubblica democratica del Congo occupa un territorio immenso, che si estende per oltre 2,3 milioni di chilometri quadrati e confina con una dozzina di altri stati africani, quasi tutti interessati, direttamente o indirettamente alle sue risorse. La mappa mineraria è interminabile: rame, cobalto, minerale di ferro, manganese, uranio, oro, diamanti, cassiterite (stagno), e - appunto - coltan. In età coloniale re Leopoldo II del Belgio definì il Congo «una magnifica torta africana». Una torta amara per i suoi abitanti. E il destino di questo paese continua a essere in balìa di chi vuole appropriarsi delle sue immense ricchezze. Una parte significativa delle produzione mineraria continua a essere ricavata ancora oggi nelle miniere a cielo aperto. Nelle aree sotto controllo dei movimenti di guerriglia, la popolazione viene costretta dai padroni di turno o dai militari col fucile spianato, a cercare il coltan. A scavare buche, spaccare rocce, caricare, trasportare, con paghe da fame e sotto sorveglianza di guardie armate. I gruppi di ribelli che vengono dai paesi vicini, dall'Uganda, e dal Ruanda finanziano le operazioni vendendo tantalio di contrabbando a società americane, europee, cinesi attraverso intermediari locali nelle zone di frontiera, i cosiddetti comptoirs. Esportano di contrabbando il coltan e vendono il minerale ai produttori di telefonini. Questa guerra regionale di cui giungono solo talvolta gli echi in Occidente ha ucciso circa 7 milioni di persone, per la maggior parte civili, negli ultimi 12 anni, stando alle rilevazioni contenute in un rapporto Onu. Da parte sua la Apple sostiene che per costruire i suoi telefonini richiede ai suoi fornitori di certificare che i materiali che usano sono stati prodotti in modo «socialmente e ambientalmente responsabile». Apple però aggiunge che la catena produttiva è molto lunga e complicata e che sostiene gli sforzi di controllare e regolare questa catena produttiva. Ma tutto può accadere da un passaggio all'altro. Lavoro global. Ogni prodotto della Apple, comprato magari sul negozio online, è probabile che arrivi dall'Asia. Il viaggio del vostro iPhone comincia in una fabbrica cinese posseduta dal gigante dell'elettronica taiwanese Foxconn che dà lavoro a 800mila persone. Foxconn ha tra i suoi clienti Apple, assembla l'iPhone, l'iPad, i computer Macintosh. Così come assembla i computer Dell e Hp, la Nintendo Wii e alcuni telefoni Nokia. Questa società era sconosciuta al grande pubblico prima della serie di suicidi, 10 suicidi di operai, avvenuti a catena nello stabilimento di Shenzhen, in Cina. Le cronache raccontano di ritmi di lavoro massacranti, straordinari prolungati. Qualche tempo fa è sparito dallo stabilimento un prototipo del nuovo iPhone. i responsabili dello stabilimento, come ha raccontato Farhad Manjoo su Slate, hanno accusato di furto un operaio che lavarova nel magazzino. Sun Danyong, 25 anni, ha negato tutto e ha raccontato di essere stato picchiato dalla sicurezza. Ha inviato un sms alla sua ragazza: «Cara, mi dispiace, ritorno a casa domani. Ho qualche problema. Non parlarne con la mia famiglia. Mi dispiace». Il giorno dopo si è gettato dal dodicesimo piano di un edificio dello stabilimento.
Dopo le morti degli operai, Foxconn ha aumentato i salari del 30%, ma la società che assembla gli iPhone è solo un piccolo caso, seppur significativo, del più ampio fenomeno che interessa il lavoro in Cina: è l'altra faccia della globalizzazione quella che ha permesso il successo economico degli stabilimenti delocalizzati, un successo basato sul dumping sociale e lo sfruttamento. I lavoratori migranti in Cina sono 149 milioni. I suicidi alla Foxconn così come gli scioperi avvenuti negli stabilimenti cinesi di Toyota e Honda hanno fatto accrescere l'attenzione mondiale sulle condizioni di lavoro praticate in Cina. Molti osservatori internazionali sono stati sorpresi dall'intervento del premier Wen Jiabao il 14 giugno, che ha invitato il governo a migliorare le condizioni di lavoro e il trattamento per i lavoratori migranti. Wen ha parlato di «compassione e rispetto». Sono aumentati tutti i salari. E' avvenuta una sorta di rivoluzione silenziosa. In Cina sta emergendo una classe media che guiderà il paese a un nuovo stadio di sviluppo. Intanto la Apple ha fatto sapere di aver venduto due milioni di iPad in due mesi. Steve Jobs ha detto che stanno tutti lavorando duramente per costruire iPad e tenere il passo della domanda mondiale. Indovinate da dove arrivano questi iPad?
Inquinamento hi-tech. Secondo le stime di Apple ogni iPhone produce circa 55 chilogrammi di emissioni di carbonio durante tutta la sua vita. Con 8,75 milioni di apparecchi venduti ogni 3 mesi si traducono così in più di 500mila tonnellate di CO2 immesse nell'atmosfera ogni trimestre. C'è un'attenzione crescente alle problematiche ambientali e al loro smaltimento da parte dei governi, delle organizzazioni ecologiste e delle società produttrici. Un gruppo di aziende di tlc e informatica ha aderito all'Iniziativa di sostenibilità globale (GeSI) che impegna a sviluppare prodotti e una filiera di elettronica verde. Finora hanno aderito 24 società, tra cui At&t, Nokia, Hewlett-Packard. A marzo è entrata a far parte del gruppo di società di green tech anche la canadese Rim, Research in Motion, produttrice del BlackBerry e rivale di Apple. La casa della mela non ha ancora aderito al GeSi, ma fa parte di un'altra organizzazione, con meno vincoli, l'Electronic Industry Citizenship Coalition, che ha una serie di princìpi sulle condizioni di lavoro e la salute dei lavoratori. In realtà, a parte queste apparenti credenziali verdi, poche società sono davvero impegnate con politiche mirate a ridurre l'impatto ambientale dei loro prodotti e dei loro processi produttivi. Solo Nokia e Sony Ericsson hanno ottenuto il bollino verde dal Green electronics survey 2010 di Greenpeace. Un rapporto che valuta i programmi di riciclo e l'uso di materie tossiche nei prodotti elettronici. Tutte le altre società, Apple compresa, ma anche Lg, Motorola e Samsung, sono a metà classifica. Hanno cominciato ad adottare politiche di responsabilità o hanno eliminato l'uso di materie prime tossiche dai loro prodotti tuttavia sono solo a metà strada. Apple, in particolare, nonostante le dichiarazioni pubbliche di Steve Jobs sugli obiettivi ambientali del 2007 ha fatto solo dei piccoli passi in avanti nelle sue politiche ambientali, secondo Greenpeace.
Educazione senza confini. I costi per la formazione universitaria aumentano in tutto il mondo. Apple sta lavorando per sviluppare delle lezioni digitali per gli studenti. Anche qui il suffisso «i» per un'applicazione pensata ad hoc: in questo caso si parla di iTunes U, un servizio online lanciato dalla casa della mela nel 2007 che integra il software ubiquo per la musica e i video iTunes per diffondere veri e propri cicli di lezioni universitarie in audio e video che possono essere visti e ascoltati dal Mac, dall'iPhone, dall'Ipod e anche dal neonato iPad. ITunes U si propone come un servizio per sviluppare l'insegnamento a distanza senza confini. Cosa molto utile soprattutto in regioni del mondo dove l'accesso a sistemi formativi di qualità è limitato. Già da ora gli studenti, così come fanno con i brani musicali, possono scaricarsi le lezioni preferite sul proprio pc o telefonino, gratis, da ogni parte del mondo. Il Mit di Boston ha reso disponibili 2000 corsi universitari dal 2007. A esso si sono aggiunte le università di Stanford, Harvard, Cambridge, Oxford. Si stima che nel solo anno accademico 2008-2009 solo per l'ateneo di Oxford siano stati scaricati dagli utenti più di un milione di lezioni.
Difesa, la guerra con l'iPhone. I ragazzi americani che sono in missione in Iraq e Afghanistan a fare la guerra al terrorismo come tutti gli americani sono utenti abituali e affezionati dei prodotti Apple. Tanto che società di armamenti come Raytheon e Knight's hanno sviluppato delle applicazioni militari per i loro iPhone. Apple e Google hanno fatto lo stesso. Il Pentagono compra le applicazioni migliori e, a sua volta, attraverso il Darpa, il dipartimento di R&D sviluppa sue proprie applicazioni. Le applicazioni militari per gli smartphone, con l'aiuto di Internet, cercano di aiutare i soldati nelle operazioni sul campo. Ci sono programmi che permettono di stimare,considerando tutte le variabili come il vento, la temperatura, la distanza e l'umidità, come fare a tirare un colpo perfetto (BulletFight). Altri come Vcommunicator che producono parole e traduzioni scritte dall'americano all'arabo, al curdo e a due lingue afgane. Altri ancora come One Force Tracker, permettono di avere una mappa in tempo reale, ricca dei più piccoli particolari, con la posizione esatta dei soldati. Tutto attraverso un piccolo, nero e lucido iPhone.
di Riccardo Barlaam su ILSOLE24ORE.COM
Sul social media marketing ormai si discute ovunque in rete, almeno fra tutti coloro che sono addetti ai lavori.
Sono molto meno convinto invece che questo dibattito arrivi alle orecchie delle piccole e medie imprese, che sono impegnate nel lavoro di tutti i giorni e non possono disporre di un reparto marketing strutturato (condizione per altro non sufficiente per una strategia sul web sociale).
Come discusso in un post precedente temo poi che gli esperti di settore, già raramente in contatto con questo target, non parlino una lingua concreta e comprensibile all’imprenditore qualora le due parti si confrontino.
Ma le pmi dovrebbero fare social media marketing? E se lo possono permettere?
Sul fatto di doverlo fare direi proprio di sì: il mercato online offre grandi opportunità e limita notevolmente le differenze tra grandi e piccoli, dato che “gli iperlink sovvertono le gerarchie” (Cluetrain Manifesto). Inoltre il non esserci non equivale a non subire critiche, che anzi in caso di assenza non si è pronti ad affrontare, con gravi danni alla propria immagine.
Ecco dunque qualche consiglio, che traggo da una mia presentazione di pochi giorni fa:
a) ascoltate tanto, con tool dedicati o anche con strumenti più semplici e gratuiti
b) scegliete uno o due tipi di social media e coltivate la relazione, senza voler essere ovunque
c) non delegate questo lavoro agli stagisti, è un aspetto strategico
d) fatevi consigliare dagli esperti ma non delegate a loro il lavoro, dovete essere voi i protagonisti.
Il social media marketing di fatto è un lavoro di pazienza, attenzione e strategia, dove la principale risorsa economica è il tempo, non il denaro cash.
Per questo può essere alla portata di chi fa il proprio lavoro con passione e competenza, in prima linea, e forse diventa perfino più facile metterci la propria faccia quando non si è nascosti dentro una direzione marketing numerosa.
Parliamo infatti di rapporti personali e di umanizzazione dell’entità azienda, che diventa persona, e l’imprenditore italiano in questo potrebbe essere davvero protagonista, con la sua storia e le sue passioni.
Certo, ci vuole tempo, confidenza con il mezzo e qualche buon consiglio ma credo sia un investimento che valga la pena di intraprendere. In fondo non si tratta di esserci o non esserci, ma di vivere da protagonisti il social web invece che subirlo, sfruttando la sua forza a proprio favore (in questo senso leggetevi il capitolo 2 di “L’onda anomala”).
Voi che ne dite
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
Concordano nell’importanza del canale, e lo monitorano da vicino, ma raramente decidono di sfruttarne tutte le potenzialità. E dunque sì ad e-mail promozionali, limitato l’uso dei social network.
È ciò che emerge da una ricerca commissionata da Webtrends e condotta in cinque Paesi, Italia inclusa.
Il 79% delle imprese analizza il traffico Internet, ma solo il 30% agisce di conseguenza, ovvero utilizza i dati rilevati per intraprendere azioni concrete. È quanto emerge da un’indagine effettuata nel 2008 da WebTrends, società specializzata in web analytics e marketing intelligence, in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Svezia e Australia su un campione di 300 aziende di diversi settori (50 in Italia) con oltre 250 dipendenti.
La precedente indagine del 2006 (che però non comprendeva l’Italia) rifletteva la fiducia degli intervistati (i responsabili marketing delle aziende) in un’economia in crescita, dove alcune debolezze a livello di analisi e azione da parte delle aziende erano bilanciate da buoni risultati di business. Ora lo studio ha evidenziato un clima decisamente meno positivo.
Il che non significa fuga dal web, anzi. Nel 2008, il 17% dell’investimento marketing globale è stato destinato al marketing online (è il 16% in Italia, e sale al 20% in Regno Unito e Australia mentre all’ultimo posto per investimenti c’è la Francia, con il 12%).
Le aziende che hanno investito di più sono quelle specializzate in media e marketing (17,6%), seguite dal settore pubblico e dei servizi (entrambe al 17%) e dalle imprese che operano nel campo dell’ospitalità e del tempo libero (14%). Inoltre, il budget destinato al marketing online è cresciuto per il 30% delle aziende intervistate ed è rimasto invariato per il 43%.
Numeri importanti, se si considera che nel 2006 la maggior parte delle aziende di Regno Unito, Francia e Germania (42%) aveva investito nel marketing online meno del 10% del budget di marketing complessivo. E il 27% degli intervistati considera l’Internet marketing come uno strumento utile per vincere le sfide poste dall’attuale crisi economica.
In aumento sembra piuttosto l’esigenza di migliorare la redditività degli investimenti online, in modo da assumere decisioni più informate e incrementare le vendite (un’esigenza sentita dal 65% degli intervistati).
La paura corre sulla banda larga? Detto fatto, il 79% delle imprese interpellate cattura e monitora tutti gli aspetti del traffico sui siti web, ma solo il 50% monitora i dati dei clienti generati da Internet.
La cultura dell’osservazione insomma sembra essere più diffusa rispetto a quella dell’apprendimento, e sono ancora poche le aziende che adottano misure concrete sulla base di tali analisi.
Solo il 42% infatti modifica spesso i contenuti basandosi sull’analisi del comportamento degli utenti e appena il 30% modifica il sito in base all’analisi del traffico. Gli strumenti di web analytics insomma sono ancora poco utilizzati o non sfruttati al massimo del loro potenziale (in Italia, solo il 20% delle aziende intervistate dichiara di utilizzarli sempre). Spesso manca una strategia precisa per il loro utilizzo, e le aziende si affidano ancora a software rudimentali con un basso livello di automazione.
Forse si investono poche risorse perché l’investimento online è percepito come più rischioso rispetto a quello tradizionale, a causa di una più difficile previsione dei risultati e di più elevate possibilità di fallimento. È così per il 47% degli intervistati (54% in Italia), mentre solo il 25% (12% in Italia) è del parere che i rischi siano inferiori.
Altro problema rilevato dagli esperti di marketing interpellati è la complessità di integrare il lavoro di marketing online e offline in modo che tali attività siano l’una il complemento dell’altra, anziché ostacolarsi a vicenda. Le principali difficoltà riguardano i cambiamenti dei processi di business (53%) e la gestione della risposta e della domanda dei clienti (38%).
Pochi investono nel web 2.0 L’evoluzione vissuta dal marketing online negli ultimi anni è in gran parte dovuta all’avvento dei social media. Eppure gli strumenti più utilizzati dalle aziende appartengono ancora alla “vecchia guardia” di internet: e-mail marketing, pubblicità online, web analytics e SEO (search engine marketing) la fanno tuttora da padrone, mentre il ricorso ai social media è sporadico. I dati indicano che blog, marketing virale, podcast e Twitter, sebbene sempre più utilizzati dai consumatori, non sono ancora stati presi in considerazione dalle aziende come strumenti di comunicazione o comunque sono sfruttati al minimo delle loro potenzialità.
Via Marketing Journal
Una percentuale che farebbe riflettere persino Marshall Mcluhan, il massmediologo divenuto celebre per l'espressione "Il medium è il messaggio", con cui indicò che i contenuti sono secondari rispetto al mezzo attraverso cui sono veicolati. Chissà cosa direbbe o profetizzerebbe ora lo studioso canadese dinanzi ai dati diffusi da Pew Internet & American Life Project secondo cui la percentuale degli statunitensi adulti (dai 18 anni in su) che guardano la tv via Internet o scaricano video dalla rete ha raggiunto una quota del 52%. Sale al 69% se tra gli adulti si considerano solo quelli che navigano.
Si osserva la tv dal pc in particolare per vedere commedie (si è passati dal 31% nel 2007 al 50% attuale), video educational (dal 22 al 38%), film o spettacoli televisivi (dal 16 al 32%), video politici (dal 15% al 30%).
Come mai? Questa impennata dei pc-teleascoltatori è dovuta - si apprende leggendo l'indagine dell'istituto di ricerche statunintense - alla crescita della diffusione della banda larga e, in particolare, dal forte appeal che i social network - come Facebook e Twitter - e la videocommunity YouTube esercitano nei confronti degli utenti del web. Molti video e filmati, infatti, sono veicolati attraverso queste agorà elettroniche.
Sette su 10 guardano video. Ma quanti sono quelli che, dall'altra sponda del web, caricano video online? Secondo Pew Internet & American Life Project attualmente la quota di uploaders di video si attesta al 14% dei naviganti adulti americani, quasi il doppio rispetto a due anni fa (8%).
di Vito Lops su ILSOLE24ORE.COM
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