Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Riprendo, per parlarne anche a un pubblico diverso, un post che ho scritto per il blog di Digital PR.
Si chiama Real Time Marketing ed è una delle opportunità più interessanti che il marketing digitale ha messo a disposizione delle aziende. Come spesso capita si tratta di un’evoluzione di modelli pubblicitari tradizionali – classicamente l’annuncio pubblicitario realizzato in gran fretta e pubblicato sul quotidiano 24 o 48 ore dopo un “evento”, in genere sportivo.
L’idea è quella di reagire, questa volta davvero in tempo reale, a uno stimolo, un’opportunità di comunicazione che ci permetta di fare notizia, di diffondere un messaggio che faccia impatto, sorprenda, diverta, dimostri la nostra smartness.
Gli esempi non mancano – famosissimo quelli di Oreo al Superbowl che ha saputo approfittare di un imprevedibile blackout, ma anche quelli “costruiti” con cura gettando reti per poi raccogliere opportunità, come nel caso di Kleenex, che ha individuato in rete un piccolo numero di persone raffreddate e le ha coccolate inviando un “kit”. Ottenendo una vasta amplificazione mediatica, nettamente superiore in valore al costo dell’operazione e soprattutto dimostrando concretamente intelligenza e coolness (o, in forma un po’ più “blanda” e più in campo User Generated Content, l’operazione che ha visto Wendy trasformare in diretta in canzoni i tweet degli utenti, oppure Old Spice trasformarli addirittura in spot pubblicitari personalizzati).
In sostanza si tratta o di mettersi in agguato, sperando succeda qualcosa (possibilmente di probabile) e intervenendo con una propria comunicazione nel giro di pochi minuti, ad esempio presidiando un evento famoso come la cerimonia degli Oscar , che sappiamo essere molto popolare e la cui popolarità e seguito possiamo provare a intercettare entrando nella conversazione, proponendo una nostra visione (interessante, divertente, critica…).
A volte il tempo di reazione dev’essere rapido, anzi rapidissimo.
Citando un caso che abbiamo gestito direttamente, prendiamo l’esempio del down di Whatsapp del 2 aprile 2014. 50 minuti in cui i server della più popolare applicazione di messaggistica gratuita sono andati in crash. In quanto agenzia di Social PR di LINE, abbiamo deciso di intervenire in tempo zero con un messaggio chiaro e semplice su Twitter: “#whatsappdown Vi aspettiamo a braccia aperte! #LineUp”.Anche su Facebook abbiamo voluto dire la nostra, guidati da quel tocco di irriverenza con cui abbiamo da subito caratterizzato la comunicazione di LINE: “#whatsappdown Niente panico… Ci siamo noi!”.
In quel pomeriggio abbiamo deciso di dialogare un po’ con i nostri futuri potenziali clienti e abbiamo deciso di fare un po’ di sana infiltration anche su altri dialoghi tra utenti Twitter.
I risultati in termini social sono stati ottimi: oltre 150 menzioni su LINE, più di 100 interazioni su Facebook e, soprattutto, un grande impatto sul business: nella sola giornata del 2 aprile, LINE ha accresciuto del 30% la media dei nuovi iscritti, con un netto aumento degli unique browsing (persone che utilizzano l’app almeno una volta al giorno)
Aspettarli al varco
Un’altra possibilità/ modalità di intervento è invece costruire dei progetti in cui sappiamo già che qualche utente dirà una certa cosa (possibilmente un certo numero di utenti), predisponiamo una reazione un po’ eclatante e attendiamo che si verifichi l’evento che ci permette di scatenare la nostra azione (tipicamente, come nel caso di Kleenex, si tratta di attendere che una persona qualsiasi, ad esempio su Twitter, dica una certa cosa e far partire un progetto già predisposto accuratamente).
Specialmente nel primo caso, quello in cui ci si trova davanti una inaspettata opportunità di comunicazione, entrano in gioco una serie di fattori per riuscire davvero a farcela. In primis una capacità creativa dell’agenzia, ovvia; ma soprattutto l’essere in continuo monitoraggio della Rete – con i conseguenti budget allocati per un’attività che impegna risorse dell’agenzia e quindi comporta costi. Può comunque capitare che l’opportunità si manifesti anche per caso; che anche se non si sta monitorando in tempo reale e continuamente la Rete, balzi agli occhi di azienda o agenzia un messaggio, uno spunto da cogliere subito (e qui ci va anche un po’ di fortuna).
Qui diventa critica la capacità di essere flessibili, sia per l’azienda che per l’agenzia. Di sviluppare immediatamente un messaggio appropriato e potente, Di azzerare i tempi delle approvazioni, di essere fuori nel giro di minuti, non di giorni, sennò diventa molto meno interessante. Avere un sistema che riesce a mettere da parte le “procedure burocratiche”, il dover reperire il management, fissare appuntamenti per il giorno dopo. Avere la capacità di operare (anche) per rapidi colpi di mano, prendendosi magari qualche ragionevole rischio, in modo guerrigliero e quindi più sorprendente ed efficace. E soprattutto avere la capacità di non volerlo fare a tutti i costi. Come quando si vuole a tutti i costi raccontare una barzelletta, e la si racconta comunque, fuori contesto: non fa ridere, non funziona. Come molto spesso capita quando le marche cercano di forzare la mano non avendo una buona idea in mano (si veda questo articolo di Mashable).
Spesso vengono proposte in rete interessanti infografiche sul cliente che potremmo dover gestire tra 5 o 10 anni, questa volta invece vi propongo per un breve commento una versione che parla invece del 2015. Ossia dell’anno prossimo.
Personalmente sono d’accordo con la maggior parte dei temi proposti nell’immagine, con una grande considerazione di fondo: queste rivoluzioni si stanno sviluppando in modo costante e sistematico da anni, senza strappi eclatanti ed improvvisi, e ora si iniziano a vedere davvero in atto.
In particolare l’utilizzo dei device mobili per essere sempre connessi ormai è un dato assodato (anche in Europa e in Italia) che è cresciuto lentamente ma inarrestabilmente mentre nella business community si discute da tempo di “anno del mobile” (e molte aziende intanto non sono ancora pronte al “mobile first”). Questo ha permesso lo sviluppo di fenomeni come lo showrooming e presto consentirà una diffusione più ampia di interazioni digitali in contesti fisici, come i negozi.
Un altro grande tema, non nuovo, è quello del trust: l’importanza di una reale fiducia in un brand che va (anche) oltre l’advertising si consolida nel tempo, e se UGC e peer review esistono da anni la loro importanza è ormai giunta a maturazione. Questo non vuol dire però agire solo sul social media e sul valore dei fan/follower, ma anche ragionare in una logica di sistema dove la nostra coerenza è totale attraverso tutto gli strumenti ed i comportamenti.
Potrei continuare a lungo, anche perché sono temi che ho trattato spesso in passato, quello che mi piaceva però lanciare come riflessione con questo post è la consapevolezza che i grandi cambiamenti indotti dalla tecnologia sono ormai presenti, con continuo e lento avanzamento. Questo obbliga oggi le aziende ad essere attente ed anche umili osservatrici dei fenomeni in corso che vanno capiti e cavalcati (sulla base dei bisogni dei clienti) prima che diventino così forti da segnare un ritardo incolmabile.
Servono competenze, una nuova cultura con le persone al centro e la possibilità per gli innovatori interni di agire con il committment dei vertici e il supporto di tutta l’azienda. Perché intanto la rivoluzione senza clamore continua.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Con l’avvicinarsi dei mondiali di calcio in Brasile sia i tifosi che i produttori di beni e servizi sono in fermento cercando di trarre ogni possibile vantaggio pubblicitario dall’evento.
E per evitare ogni forma di abuso, la FIFA ha emesso delle linee guida ad hoc volte a limitare l’utilizzo dei propri marchi da parte di società che non siano gli sponsor ufficiali dei mondiali. Questi marchi non comprendono unicamente i più ovvi loghi dei mondiali, della mascotte e l’immagine della coppa del mondo, ma anche termini quali “World Cup” o “Brazil 2014″ e la FIFA ha adottato un’interpretazione molto restrittiva in merito al loro utilizzo sollevando nei commentatori dei quesiti circa l’effettiva validità di tali restrizioni.
Brasil 2014
Il criterio utilizzato per accertare se l’utilizzo di un segno distintivo simile ad un marchio di un terzo sia lecito si basa sulla possibile confondibilità dello stesso da parte del pubblico. Allo stesso modo, i diritti di esclusiva attribuiti su di un marchio non si estendono ai casi in cui lo stesso sia utilizzato con finalità descrittiva e quindi, ad esempio, nel caso in cui una società debba descrivere i prodotti che offre.
Tali problematiche devono ora essere analizzate nel nuovo contesto “social” derivante dalla diffusione dell’utilizzo dei social media che sarà ancora più accentuato durante un evento di portata mondiale come la Coppa del Mondo di Calcio. In tale contesto si porrà il problema relativo ai limiti in cui un soggetto che non è partner dell’evento può ad esempio utilizzare un hashtag che direttamente o indirettamente si riferisca allo stesso.
Cosa avverrà nel caso in cui un operatore di scommesse online intende pubblicizzare le proprie ultime quote sulle partite di calcio dei mondiali utilizzando un hashtag dedicato che riproduca uno dei marchi della FIFA? Ci troveremo di fronte ad una nuova tipologia di ambush marketing?
L’ambush marketing è definito da Wikipedia come “ipotesi di associazione indebita (non autorizzata) di un brand ad un evento mediatico; ossia quando lo stesso non appartenga ad uno degli sponsor ufficiali“. Questa forma di pubblicità ha avuto una notevole copertura mediatica durante gli scorsi mondiali in Sud Africa a causa della partecipazione alla partita Danimarca – Olanda di 36 ragazze vestite di arancione che a giudizio della FIFA erano state inviate dalla compagnia olandese Bavaria, mentre lo sponsor ufficiale dei mondiali era la compagnia danese Budwaiser. Senza svolgere ulteriori accertamenti, FIFA aveva cacciato dallo stadio le ragazze e tale “imprevisto” era stato così pubblicizzato che aveva comportato l’effetto opposto a quello voluto dalla FIFA. Ciò vale come ulteriore dimostrazione che in presenza di tali violazioni, la migliore soluzione da adottare non è sempre la repressione. E ciò potrebbe essere ancora più giusto in un contesto “social” dove, a causa della viralità della rete, la possibile limitazione dell’attività dell’autore dell’azione contestata potrebbe non raggiungere i risultati sperati.
Lo stesso problema, del resto, si potrebbe porre nel caso in cui i giocatori delle nazionali di calcio fossero sponsorizzati da marchi concorrenti a quelli ufficiali dell’evento e li pubblicizzino per esempio tramite il proprio account Twitter. L’esempio più recente di questo genere è stato il messaggio su Twitter del giocatore inglese Wayne Rooney in cui pubblicizzava la Nike tramite un commento che non era chiaramente riconoscibile come un messaggio pubblicitario. In quell’occasione le autorità inglesi hanno censurato la pubblicità della Nike perché i messaggi non erano trasparenti e potevano essere interpretati dal pubblico come le opinioni personali dal giocatore.
Tale tipo di condotta, qualora dichiarata in violazione della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e in materia di pubblicità ingannevole, avrebbe potuto portare a sanzioni fino a 5.000.000 euro da parte dell’AGCM in Italia.
Si potrebbe aprire una discussione infinita sull’argomento, ma per il momento possiamo solo aspettare cosa i pubblicitari avranno in mente e ovviamente tifare per l’Italia!
Via Tech Economy
I risultati di una nuova ricerca di marketing avviata dalla startup Crowdtap e dalla società di ricerca Ipsos fanno luce sulle modalità di fruizione delle notizie da parte della generazione più connessa, la cosiddetta generazione dei Millennials, definita in questo studio come i nati tra il 1977 e il 1995, che hanno grande familiarità con i media e le tecnologie digitali. Quando si tratta di fiducia, si legge dal rapporto, i Millennials scelgono quasi sempre fonti provenienti dai loro pari.
Gli user generated content (Ugc) sono contenuti mediali sviluppati dagli utenti. Possiamo includere in questa categoria gli aggiornamenti di stato sui social network, i post sui blog, i video su Youtube autoprodotti, le recensioni dei ristoranti, in pratica qualsiasi contenuto pensato e pubblicato da utenti non professionisti, spinti da nessuna specifica motivazione professionale se non quella di offrire la propria opinione nel vasto, e affollato panorama delle opinioni esistenti. Secondo lo studio della Ipsos e di Crowdtap i Millennials si fidano di questo tipo di contenuti al pari delle recensioni dei professionisti o dei contenuti più professionali.
Nello specifico circa la metà dei Millennials si fida delle informazioni che trovano sulle reti sociali (50%) e sui blog e bacheche (48%) a seguire su siti web (49%). Gli user generated content sono anche il 20% più influenti quando si tratta dei consigli d’acquisto e il 35% più incisivi rispetto ad altri tipi di supporti. Il fatto che i Millennials trascorrano più di cinque ore al giorno con questi contenuti chiarisce ulteriormente il quadro.
Via Tech Economy
Peter Sondergaard di Gartner afferma che entro il 2020 la nuova organizzazione dovrà farsi carico di cinque capacità fondamentali.
1) coordinare l’architettura di tutte le tecnologie digitali con i loro impatti.
2) definire l’enterprise information architecture considerando gli innumerevoli asset informativi sparsi dentro e fuori l’azienda
3) garantire la sicurezza per tutte le tecnologie digitali
4) gestire l’ecosistema digitalizzato sia dentro sia fuori l’organizzazione
5) sviluppare e promuovere la leadership digitale, nei vertici aziendali
Trovo tutti i punti interessanti ma in particolare mi attirano per questo post il 2 e il 4.
L’informazione, il dato, l’asset digitale sono elementi che spesso si dimenticano o si sottovalutano, mentre nella realtà diventano tanto più cruciali quanto più sono ormai numerosi e complessi.
Che si tratti di gestire comunicazioni interne andando oltre la mail o di creare contenuto verso il cliente finale il fatto di avere una circolazione fluida delle informazioni e una capacità di reperimento e di distribuzione dei contenuti su più piattaforme è un requisito cruciale.
Siccome poi parliamo di ecosistemi, è alquanto pericoloso chiudere le informazioni in dei silos perché al contrario tutto oggi può avere un valore sul piano dell’analisi strategica complessiva. Le statistiche sui big data sono certamente di ispirazione a tutti i livelli ma credo che prima di arrivare a qualsiasi soluzione tecnologica ci sia un tema di organizzazione e di cultura.
Quante organizzazioni infatti si preoccupano davvero delle inefficienze dovute alla cattiva circolazione delle informazioni e alla difficoltà di gestirle? E quante si fanno guidare in modo convinto dalla lettura di tutti i dati oggi disponibili? A mio avviso poche, anche se il tema non è nuovo e ne parlai già in tempi non sospetti.
E voi, pensando alle esperienze di tutti giorni, come vi sentite di giudicare le vostre realtà?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
I consumatori sono disposti a condividere i propri dati personali con i rivenditori, soprattutto se ricevono qualcosa in cambio. A rivelarlo un nuovo studio di IBM, condotto su oltre 30.000 consumatori a livello mondiale e pubblicato in occasione dell’edizione 2014 della National Retail Federation.
La percentuale di consumatori disposti a condividere la loro posizione con i rivenditori via GPS, ad esempio, è quasi raddoppiata anno su anno, toccando il 36%. Il 32% dei consumatori condividerebbe i propri dati “social” con i rivenditori e il 22% fornirebbe il proprio numero di cellulare allo scopo di ricevere sms. Questo perchè “Il consumatore è abituato ormai in molti settori – dall’assistenza sanitaria ai viaggi – a ricevere interazioni personalizzate attraverso diversi canali”, spiega Jill Puleri, IBM Retail Global Industry Leader. “Lo studio IBM dimostra che i consumatori sono disposti a condividere i dati che li riguardano, in particolare se ricevono in cambio un’esperienza personalizzata. È indispensabile che i rivenditori mettano in atto una strategia Big Data e l’analytics in grado di assicurare un saggio utilizzo delle informazioni dei consumatori, che consenta di conquistane la fiducia ed in cambio permetta di fornire loro dei vantaggi”.
showroomingIbm spiega che anche se le vendite omnicanale, ovvero la prassi di fornire ai consumatori un’esperienza connessa e personalizzata attraverso i canali online, il mobile commerce e il negozio tradizionale, sono l’obiettivo dichiarato di quasi ogni rivenditore, i consumatori non le richiedono in sé e per sé. Si aspettano semplicemente la possibilità di utilizzare la tecnologia in tutti gli aspetti della loro vita, incluso il modo di fare shopping. Lo studio, infatti, ha riscontrato che le cinque funzionalità più importanti per i consumatori sono: la coerenza dei prezzi tra i vari canali di shopping, la possibilità di ricevere direttamente a casa propria gli articoli esauriti in negozio, la possibilità di monitorare lo stato di un ordine, l’assortimento di prodotti coerente tra i vari canali e, infine, la possibilità di restituire gli acquisti online in negozio.
Lo studio IBM ha rilevato che i consumatori rientrano in quattro gruppi diversi, che si distinguono per il loro interesse e utilizzo delle tecnologie social, di localizzazione e mobile durante lo shopping. Il 19% dei consumatori intervistati resta indietro rispetto alla maggioranza della popolazione quando si tratta di utilizzare la tecnologia per fare acquisti. Un altro 40% di acquirenti si serve delle tecnologie social, di localizzazione e mobile per raccogliere le informazioni, ma tende a non utilizzarle per l’acquisto dei prodotti. Il 29% utilizza le tecnologie social, di localizzazione e mobile molto più diffusamente, dalla ricerca dei prodotti all’ordinazione delle merci. Il 12% dei consumatori intervistati rientra nella categoria degli “apripista”, ossia coloro che usano queste tecnologie tra vari canali e scelgono il rivenditore che offre questa possibilità.
E i dati di vendita confermano la tendenza crescente verso gli acquisti online. Nel 2013 l’84% degli acquirenti intervistati da IBM aveva scelto il negozio per il suo più recente acquisto, se si esclude la comune spesa alimentare. Quest’anno, la cifra è scesa al 72%. In altre parole lo “showrooming”, ossia l’abitudine di vedere e provare gli articoli in negozio ma di acquistarli poi via web, non è alla base di questa crescita delle vendite online. Anche se un maggior numero di intervistati ha fatto “showrooming” quest’anno (l’8% rispetto al 6% dello scorso anno), solo il 30% di tutti gli acquisti online è stato effettivamente frutto di tale pratica – con un calo di quasi il 50% rispetto allo scorso anno. Il 70% degli acquisti online è stato effettuato da persone che si sono rivolte direttamente al web.
Via Tech Economy
Ho scritto tante volte che quando si parla di digitale si tende a dimenticare il quadro strategico e si precipita nella tattica. Ho anche detto altrettante volte che il marketing ormai è digitale e che tutti quelli che se ne occupano non posso più temere la tecnologia ma devono invece saperla sfruttare con abilità senza diventare dei puri tecnici.
Una delle conseguenze di questi due temi irrisolti è che oggi si tende a pensare ai mercati e ai consumatori come a qualcosa di totalmente altro da 20 anni fa ed alle attività di marketing come lontane dalle teorie che hanno fondato la disciplina. Questo è vero nei modi ma non nei concetti, perché il marketing si occupa sempre di soddisfare bisogni, solo che non lo fa più per grandi gruppi omogenei di persone ma per individui informati, connessi e con aspettative differenziate. Ma che chiedono pur sempre di soddisfare delle necessità, esplicite o latenti.
La classica piramide di Maslow
I video online soddisfano infatti il bisogno di intrattenimento, le foto digitali quelle di documentare ricordi ed emozioni, gli smartphone e i social media quello di comunicare e tenersi in contatto e così via. Con le statistiche alla mano, gli esempi non mancano anche per i settori non prettamente tecnologici: il 43% degli italiani usa le nuove tecnologie per soddisfare il bisogno di informazioni sulle aziende, per quello di risparmiare tempo compiendo certe operazioni da casa (es. Il 30% di uso di home banking) o per quello di avere più scelta con gli acquisti online (24,4%).
Il primo grande errore dunque, legato al mancato utilizzo di una metodologia tipo quella POST, è di scambiare il bisogno da soddisfare con la tecnologia che utilizziamo, scegliendo un mezzo perché alla moda senza considerare le persone cui ci rivolgiamo e senza un obiettivo.
A rovescio poi molti grandi player sono caduti negli ultimi anni perché ciò che loro offrivano ai proprio clienti non era uno strumento ma il soddisfacimento bisogno che vi stava dietro, che è stato esaudito in modo migliore e diverso da terze parti, rispondendo però alla stessa richiesta del consumatore. Blockbuster, Kodak, BlackBerry, Nokia sono solo alcuni nomi della lunga lista che si potrebbe stilare.
La seconda grande opportunità che viene spesso perduta è poi quella di usare i nuovi strumenti digitali per ascoltare prima che per comunicare. Si tratta di un retaggio del marketing push, questo sì superato, basato su di una spinta unidirezionale dell’azienda verso i potenziali target. Il vero valore che giustifica le quotazioni miliardarie dei social media o dell’ecosistema di Google è invece data dalla montagna di dati che le persone ogni giorno mettono a disposizione dei brand sulla rete, spontaneamente. C’è per questo chi parla di figure come il Chief Data Officer e chi calcola in oltre 300 miliardi di dollari il costo di un cattivo customer service che invece da questo ascolto può trarre grande forza.
Qui il problema vero diventa filtrare il rumore di fondo, certo, ma quante realtà anche importanti si prendono davvero la briga di provare a capire che cosa le persone stiano chiedendo a loro e al mercato, senza trovare risposte? Nella maggior parte dei casi i brand si buttano anche loro nella mischia, partendo da ciò che credono unilateralmente e aumentando il rumore. Qui i dati tratti dal rapporto The State of Social Business di Altimeter Group.
A questi dati di fatto corrisponde senza dubbio un aumento della complessità e della velocità che non ha avuto probabilmente eguali negli ultimi anni, e che pone delle sfide che Chris Heuer, CEO di Alynd riassume così in un suo guest post: “The market leaders in the 21st century will need to focus on modernizing talent management, operational systems and organizational models for a fully connected society, where the social physics are fundamentally different than the one we lived in just over a decade ago. [...] This is compounded by a need for the organizations be more agile, so that they may respond in real time to both opportunities and threats, and to empower employees to serve as authentic ambassadors of their brands in both situations”.
Questo vuol dire dunque muoversi guardando sempre di più al cliente, visto che come scrive Rita Gunther McGrath le barriere all’ingresso della teoria del vantaggio competitivo sono sempre più labili e che i mercati sono delle arene dove si possono conquistare degli spazi anche fuori dai tradizionali confini del proprio business.
Questo può essere aiutato in modo dirompente dalla tecnologia, che secondo lo studio di IBM “The Customer-activated Enterprise” è diventata la priorità anche per i CEO. Ma se si confonde la tecnologia con il mercato si rischia di non essere rilevanti e di dimenticare che la missione del marketing è di essere significativamente differenti per essere scelti.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Qualche tempo fa ho avuto il piacere di essere ospite della Adobe Digital Academy a Padova per parlare di digital transformation e insieme ad alcuni colleghi e al pubblico presente abbiamo dato vita a un dibattito molto interessante che mi ha confermato molte delle idee che avevo espresso sul tema qualche giorno prima.
Una cosa mi è apparsa particolarmente evidente: in alcune aree di marketing (digital e non) è piuttosto chiara la percezione del cambio di un paradigma ma si tratta di un argomento estremamente vasto e pervasivo che va a toccare ovunque l’organizzazione. E che dunque non può essere affrontato e gestito solo da un manipolo di innovatori.
Lo scenario d’altra parte è chiaro: come scrive Scott Brinker sul suo blog la tecnologia cambia esponenzialmente mentre le organizzazioni lo fanno in modo logaritmico, ossia molto più lentamente. Un fatto comune probabilmente ma che non è da vedere in modo deterministico e irrimediabile.
Il punto però allora diventa: chi è che decide veramente sulla digital transformation? Se lo chiede anche Gartner. Di certo è necessario il committment dei vertici aziendali ma mio avviso questo non basta perché il cambiamento non può essere solo imposto ma deve essere adottato.
Prendiamo i 5 pilastri per il futuro che Brian Solis individua in suo recente lavoro:
1. Vision and leadership 2. Engaged customers 3. Empowered employees 4. Collaborative innovation 5. Internal agility in processes, systems, and decision making
In questi punti c’è tanto il vertice quanto il corpo dell’organizzazione e dunque, di nuovo, è impensabile che tale e tanta trasformazione possa avere successo se vissuta e gestita da un manipolo di digital marketers o di persone di IT.
Di certo poi non è solo un fatto di tecnologia, mezzi come il mobile e il cloud hanno cambiato il modo di lavorare in termini potenziali ma alla fine, come recita la legge di Conway, “any piece of software reflects the organizational structure that produced it“.
In positivo e in negativo.
Io credo che quindi oggi sia quanto mai necessario avere delle figure in azienda che abbiano il know tecnico per capire le nuove opportunità ma anche la capacità di raccogliere i bisogni delle persone che fanno parte dell’organizzazione per metterli a fattore comune con la strategia complessiva. Tali figure devono avere l’autorità per influire davvero sui processi e sulla mentalità e il tempo di lavorare a stretto contatto con tutte le aree interne per farsi portatrici del cambiamento.
Talvolta le organizzazioni hanno paura di semplificare ma in realtà è solo andando a risolvere gli aspetti organizzativi e motivando le persone a migliorare tramite la collaborazione e l’innovazione che si può poi essere pronti alle nuove sfide. Compreso il marketing integrato.
Voi che cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Stipulata una nuova partnership tra la nota catena di caffetterie StarBucks e il quotidiano americano New York Times, che permetterà ai clienti di sorseggiare caffè e leggere gratuitamente il giornale. Nelle caffetterie l’accesso al wi-fi è comunemente libero, ma da adesso, a chi si ferma per la colazione, sarà permesso anche sfogliare gratuitamente il New York Times che ha concesso anche ai non abbonati all’app, di leggere 15 articoli al giorno. Normalmente il giornale online americano consente a chi non ha un abbonamento di poter leggere 10 articoli al mese, limite oltre il quale scatta la tassa per il pagamento. Con il wi-fi di Starbucks, accessibile in relatà anche all’esterno dei locali, si potranno leggere tre articoli di cinque sezioni: Top News, Business, Tecnologia e Most E-mailed, ovvero quelli più spediti via e-mail; la quinta è a rotazione: il lunedì, per esempio, si potrà accedere alla sezione Sport, il martedì a quella di Scienza, il sabato agli articoli del Magazine. Yasmin Namini, vicepresidente del marketing del New York Times, ha riferito in relazione all’accordo: “Starbucks è il luogo ideale per valorizzare la nostra offerta digitale”. “I clienti scopriranno una diversa selezione dei contenuti del Times, aggiornati in tempo reale, dalle top stories del giorno agli approfondimenti e alle opinioni” ha aggiunto.
Via Tech Economy
Più passa il tempo e più lo scenario degli strumenti di marketing e dei punti di contatto con il cliente si fa complesso, veloce e difficile da comprendere in tutte le sue parti.
Molta di questa realtà è fatta da strumenti digitali, per i quali nelle organizzazioni solitamente si prefigura o un’area dedicata o un totale outsourcing, con il rischio però in entrambi i casi di percepire questo settore come un’entità a parte con obiettivi e strategia propria.
Gli analisti di Forrester invece prevedono (almeno per molti paesi) un contesto in cui il digital marketing diventerà semplicemente “marketing” in quanto sarà tutt’uno con gli altri strumenti rispetto al quale si avvia a diventare preminente. Per questo, secondo una ricerca IDC qui ben commentata, a livello internazionale nel 2013 il 50% dei nuovi assunti in area marketing avrà un background tecnico.
immagine tratta ed elaborata da http://venturebeat.com/2012/08/23/the-hot-new-cxo-chief-marketing-technology-officer-infographic/
Al di là degli aspetti organizzativi, di cui già mi sono occupato in passato, che cosa significa tutto questo? Io ho alcune idee.
1) Non si può più confondere il marketing con la sola comunicazione: ci sono dietro sempre più aspetti di analisi, di gestione dei dati, di visione di insieme dell’ecosistema di business (compresi gli strumenti tecnologici che lo fanno girare). Insomma, senza arrivare al big data, non è solo creatività.
2) È sempre più essenziale un’integrazione con le basi dati aziendali e con tutti gli altri strumenti: non è pensabile ancora a lungo che gli strumenti di marketing digitale delle aziende non dialoghino con i sistemi IT (e con i CIO) sia per prendere le informazioni necessarie a comunicare in modo mirato al cliente sia per fornire all’indietro preziosi insight per tutta l’organizzazione. Per non parlare poi della gestione degli asset digitali, ormai cruciale da razionalizzare e padroneggiare.
3) L’attenzione ai particolari non può essere più rivolta solo alla presentazione estetica: ogni dettaglio è fondamentale in un mercato super competitivo e l’attenzione va posta in tutto, compresa la velocità, correttezza ed efficacia delle informazioni e dei processi di marketing, digital e CRM. La “cosmesi” della facciata non può realisticamente nascondere a lungo i limiti di performance.
4) Non si può più temere la tecnologia: è un altro mio cavallo di battaglia, di cui ho già parlato e su cui sono in buona compagnia. Non è necessario essere dei tecnici per diventare delle valide persone di marketing ma altrettanto non si può più fare business senza un minimo di cognizione dei nuovi strumenti, solo perché “non ci capisco nulla”. Direste a un colloquio di lavoro “non ci capisco nulla”?
5) Siamo nell’era della condivisione e della visione di insieme: ci sono tutti i modi di comunicare all’interno delle organizzazione a patto di essere pronti a collaborare. Inoltre, i ruoli sono così fluidi e in divenire che la capacità chiave sta diventando quella di unire i vari elementi, non certo di produrre attività a compartimenti stagni. Ma senza collaborazione è piuttosto difficile.
Si potrebbe continuare ancora ma il punto penso sia chiaro, si spendono tante belle parole sulla teoria di marketing, che ancora assolutamente ci serve, ma ormai non si può ignorare che senza processi, informazioni, tecnologie e pragmatismo non si va da nessuna parte. Leggete un po’ questo decalogo… e poi scrivete i qui i vostri commenti!
Gianluigi Zarantonello via internetmanagerblog.com
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