Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il terremoto originato dall'avvento dei servizi di streaming non crea sconquasso presso tutte le piattaforme dedicate all'acquisto di musica digitale: Google, che offre dal 2013 il servizio di streaming Play Music All Access, pronto ad integrarsi nell'offerta di YouTube Music Key, e che può soppesare le tendenze sulla base dei propri dati relativi ai download dell'offerta di Play Music, afferma di non percepire i turbamenti che stanno mobilitando gli operatori di settore nella corsa allo streaming.
Se è vero che i numeri del mercato della musica digitale stanno iniziando a pendere a favore dello streaming e di un modello di fruizione della musica basato sul consumo piuttosto che sul possesso, la dirigente della divisione Global Music Partnerships di Google, Zehavah Levine, disegna una quadro meno radicale: "Non crescono solo i sottoscrittori di abbonamenti - ha dichiarato nel corso di un'intervista rilasciata a Techcrunch - ma crescono anche i numeri dei nostri download nonostante i trend in atto sul mercato".
Levine illustra le proporzioni tra i due servizi imitandosi a spiegare che lo scorso anno il 67 per cento del fatturato in ambito musicale è stato rappresentato dai download, non spiega se i successi dei download siano determinati da uno zoccolo duro di appassionati o se la loro crescita sia determinata da un diffuso interesse da parte di tutti gli utenti, né se i download premino particolari categorie di opere. Raffigura però la posizione di Google spiegando che, fra coloro che si sono abbonati a Play Music All Access, sono di più gli utenti che hanno cominciato a comprare musica dopo essersi registrati al servizio di streaming rispetto a coloro che hanno smesso di acquistare musica dopo essersi abbonati. "Non c'è cannibalizzazione" tra i due diversi tipi di fruizione, sostiene Levine, "c'è spazio per entrambi".
Ma Google rappresenta un soggetto del tutto particolare sul mercato: rispetto ad attori come Apple detiene il vantaggio di poter contare contemporaneamente su un servizio di download e un servizio di streaming, oltre al magmatico contenitore di musica rappresentato da YouTube, e il potere totalizzante della propria presenza in Rete non consente di confrontare la sua iniziativa musicale con altri operatori che si muovono nel solo mercato musicale. Tuttavia, lo ha spiegato la stessa dirigente di Google, lo streaming diventa profittevole solo se declinato su larga scala e Mountain View, proprio come Apple con Beats e proprio come SoundCloud, da tempo si sta attrezzando per proporre lo streaming in grande stile e per concretizzare le enormi potenzialità musicali della propria piattaforma di videosharing: in parallelo alla riorganizzazione dell'offerta musicale gratuita di YouTube, ha appena lanciato YouTube Music Key, proposta su abbonamento che si combinerà a Play Music All Access per una fruizione di contenuti audio e video capace di prestarsi a una fruizione meno macchinosa e più fluida rispetto a quella del Tubo.
Anche uno degli ostacoli principali al lancio del servizio, vale a dire la ferma opposizione delle etichette indie, che rivendicano eque retribuzioni per l'utilizzo delle opere, sembra essere stato scavalcato: secondo indiscrezioni raccolte dal Financial Time alla vigilia del lancio di YouTube Music Key, Merlin avrebbe strappato a Google un accordo più favorevole di quello che le era stato sottoposto nei mesi scorsi. La Grande G ha dunque ceduto laddove sembrava incrollabile, a dimostrazione della urgenza con cui ha perseguito l'allineamento con la concorrenza degli altri importanti fornitori di musica a consumo.
Solo dopo il rodaggio di YouTube Music Key si potranno verificare le previsioni di Levine, e si potrà osservare se il nuovo servizio rosicchierà la base di utenza che ora spende per acquistare la musica con la mediazione di Google Play. Mountain View per ora mostra di non temere per il mercato dei download: la dirigente spiega che per solleticare l'interesse degli utenti è possibile proporre certe offerte premium, così come è nei programmi di Apple, quali formati di alta qualità, probabilmente capaci di far pendere la scelta dei musicofili verso il possesso della musica e invitarla a non limitarsi al semplice consumo.
Via Punto Informatico
La corsa ai regali di Natale, si sa, per i più grandi marketplace del mondo è fatta di analisi e previsioni prima e di report e risultati dopo. eBay non vuole farsi trovare impreparata e annuncia i risultati di una ricerca commissionata a TNS sulle abitudini degli italiani a ridosso delle festività natalizie, comparandole con quelle del resto del mondo, tramite interviste ad un campione rappresentativo di oltre 10.300 individui.
Secondo la ricerca il 44% degli italiani cercherà ispirazione dai negozi online con un italiano su tre che ha dichiarato l’intenzione di acquistare i regali di Natale anche da un dispositivo mobile. Ben 1 italiano su 3 (34%) ha dichiarato che ha intenzione di usare un dispositivo Mobile per gli acquisti di Natale, percentuale più alta rispetto a paesi come Spagna (25%), Germania (23%), Australia (22%), Francia e Canada (entrambi 19%). Su eBay il trend è ancora più in crescita, infatti quasi una transazione su due (48%) viene toccata da Mobile.
In sostanza per Natale gli italiani prevedono l’acquisto di circa 9 regali, contro gli 8 di russi e francesi e i 10 dei più generosi canadesi. I più buoni saranno, a detta della ricerca, gli inglesi con 16 regali ognuno e gli americani con 13. Spagnoli e tedeschi faranno invece solo 7 regali a testa. La spesa media per ogni italiano è prevista per questo Natale 2014 sui 194 euro a persona, contro i 281 euro stimati dagli inglesi e i 272 euro degli americani.
Via Tech Economy
Due miliardi di dollari pagati agli artisti, ai detentori dei diritti: uno tra il 2008, anno del lancio di Spotify, e lo scorso anno, l'altro dal 2013 ad oggi, quando è cominciata l'ascesa della musica consumata come servizio. Risponde così il CEO del servizio di streaming a tutti gli artisti che ancora temono di affidare le proprie opere ad una piattaforma che sembra soddisfare le esigenze delle platee degli appassionati, che potrebbe rappresentare il grimaldello per valorizzare la leggerezza e l'immaterialità della musica digitale ai danni della pirateria.
Nel momento il cui i servizi di streaming stanno dimostrando tutto il loro potenziale, anche rispetto alla soluzione dei download e agli attori più importanti del settore, nel momento in cui tutta l'industria della musica sta tentando di convertirsi rapidamente allo streaming per accogliere la domanda dei cittadini della Rete, il CEO di Spotify Daniel Ek è intervenuto per abbattere le resistenze di coloro che affidano la propria carriera a certi "falsi miti" che aleggiano intorno al servizio.
Per dissiparli, il CEO Ek li analizza uno per uno. A partire dall'incomprensione che regna sulla musica fruibile gratuitamente: "non tutta la musica gratuita è uguale - spiega Ek ai detentori dei diritti - su Spotify la musica fruibile gratuitamente è supportata dalla pubblicità, e paghiamo per ogni ascolto". Spotify, secondo il suo CEO, è la perfetta mediazione tra i servizi fruibili solo su abbonamento e la pirateria: un modello freemium che prevede di affiancare l'advertising alla musica permette di attirare l'attenzione degli utenti con un assaggio delle funzioni e della qualità che il servizio a pagamento propone loro, senza per questo svendere le opere degli artisti, che vengono puntualmente retribuiti con una quota delle entrate garantite dagli inserzionisti. "Abbiamo 50 milioni di utenti attivi, 12,5 milioni dei quali hanno sottoscritto un abbonamento per 120 dollari all'anno - ricorda Ek - è tre volte tanto quanto un consumatore medio di musica spendeva all'anno in passato": l'80 per cento di questi abbonati sono stati utenti del servizio gratuito, la maggior parte di loro ha meno di 27 anni, è cresciuta negli anni d'oro della pirateria, "non si sarebbe mai aspettata di pagare per la musica".
La seconda credenza che Ek tenta di smontare con i numeri è quella secondo cui Spotify non garantirebbe un adeguato sostentamento economico gli artisti che ospita, una convinzione radicata anche presso artisti come Thom Yorke, che da tempo si scaglia contro mediatori troppo avidi per ricompensare opportunamente gli artisti. "Poniamo che una canzone venga ascoltata su Spotify 500mila volte - questo il paragone tracciato dal CEO della piattaforma - e che venga suonata da una stazione radio statunitense che abbia 500mila ascoltatori": negli States, dove a differenza di altri paesi del mondo non si prevede un meccanismo di pagamento delle royalty per i diritti connessi degli interpreti, l'esecutore non guadagnerebbe nulla dal passaggio in radio, mentre 500mila ascolti su Spotify garantiscono una cifra fra i 3mila e i 4mila dollari. Taylor Swift, e l'esempio non è casuale dopo che il management dell'artista ha scelto di ritirare il suo catalogo da Spotify, sarebbe stata vicina a superare i 6 milioni di dollari all'anno: cifre che potrebbero raddoppiare, se le tendenze che animano il mercato dello streaming non subissero battute di arresto. "Paghiamo una enorme quantità di denaro alle etichette e alle edizioni a favore degli artisti e degli autori - spiega Ek, confermando stime già elaborate nel mesi scorsi - e decisamente più di quanto facciano altri servizi di streaming"i. Ek elegantemente non sottolinea quello che Bono, frontman degli U2 attivamente impegnato sul fronte della musica digitale, afferma esplicitamente: "Le persone criticano Spotify e si limitano a dire che dà solo il 70 per cento delle entrate ai detentori dei diritti, ma quello che le persone non sanno è dove davvero vanno a finire questi soldi, perché le etichette non sono mai state trasparenti".
Ek seziona poi la terza accusa che certa parte dell'industria della musica muove contro Spotify, che porta lo stesso stigma della pirateria, responsabile delle mancate vendite: il successo del servizio di streaming e i cali delle vendite di musica, sia fisica che digitale, non sono legati da una relazione direttamente causale, sostiene il CEO di Spotify, ma sono determinati dalle esigenze del pubblico. A dimostrazione di ciò, Ek cita l'esempio del Canada: i download languono, e Spotify non si è ancora affacciato su questo mercato. Spotify non serve il Canada, ma esistono numerosissime risorse per il consumo di musica in streaming: dalla pirateria al modello scelto ora da un attore dal passato turbolento come Grooveshark, dai servizi in evoluzione di Soundcloud a YouTube, importante fonte di approvvigionamento di musica in Rete, è chiaro che gli utenti stanno scegliendo di consumare la musica senza impegnarsi nell'acquisto del singolo album, della singola traccia di successo, distaccandosi dalle dinamiche distributive imposte per anni dall'industria tradizionale.
Il mercato dello streaming non è dunque uno scenario nel quale è pensabile misurare il proprio successo con parametri tradizionali quali i record di vendite, né sembra prestarsi ad accogliere modelli di business ibridi che cerchino di replicare i meccanismi a finestre che scandiscono il mercato dell'intrattenimento tradizionale: Spotify risulta dunque ben più di un esperimento, come lo ha definito Taylor Swift, scegliendo di non prendervi parte, ma è uno dei numerosi interpreti delle esigenze di un pubblico radicalmente cambiato dall'abitudine alla Rete.
via Punto Informatico
Dalle poesie pubblicate su Facebook agli scatti d'autore che fanno impazzire Instagram, fino ai filmati di visual art che si possono trovare su Vine: i social network sono un terreno fertile per una nuova generazione di artisti che pensa, crea e distribuisce interamente nel mondo digitale. Si tratta di creativi 2.0 che nella rete hanno trovato non solo una popolarità globale ma, soprattutto, nuove forme di business. Basta indagare la vicenda del trentaquattrenne newyorchese Daniel Arnold che secondo il magazine online «Gawker» è il miglior fotografo che si possa trovare su Instagram. I suoi scatti sono finiti dalla rete alla tipografia e venduti per 15mila dollari l'uno, Vogue America lo ha voluto come reporter ufficiale nelle feste più esclusive dell'ultima settimana della moda a Parigi. Arnold ha messo da parte la sua costosa macchina fotografica per lavorare con la lente digitale di un iPhone, ha abbandonato i costosi set di moda per farsi consumare le suole dalle strade della Grande Mela. «Lavoravo come assistente in uno studio di Manhattan – racconta il giovane artista –, da un giorno all'altro ho cominciato a pubblicare in rete ritratti di newyorkesi incontrati per caso lungo la Quinta Strada, erano per lo più barboni e immigrati di prima generazione ma la poesia dei loro volti mi è valsa un buon successo sui social network». Oggi Daniel vanta oltre 70mila seguaci su Instagram, la rivista «Wired» lo ha definito il «Paparazzo degli sconosciuti» e tra un post e l'altro si prepara a condividere il database del suo smartphone attraverso una mostra in una delle gallerie più famose di Londra.
C'è poi chi come Teju Cole è riuscito persino a far interagire la propria arte con gli utenti della rete. Questo scrittore trentanovenne invece di andare alla ricerca di una casa editrice, ha deciso di condividere «Hafiz», il suo terzo romanzo, in rete. Un racconto di fantascienza si è trasformato in un esperimento social che ha coinvolto oltre 1.500 utenti. Cole ha infatti inviato privatamente a ognuno dei suoi follower Twitter una frase del suo romanzo chiedendo di pubblicarla sul social network di Jack Dorsey. L'autore ha poi messo insieme i singoli cinguettii ritwittandoli nell'ordine del romanzo originale. «È stato come una caccia al tesoro – confessa Cole –, ci sono volute oltre quattro settimane prima che venissero pubblicate tutte le parti della storia, più saliva l'attesa più le persone mi esortavano a non lasciare il racconto in sospeso». Certo l'artista avrebbe potuto pubblicare direttamente sulla propria timeline il romanzo 140 caratteri alla volta, ma l'effetto non sarebbe stato lo stesso. «Il risultato è quasi una scrittura collettiva – dice Teju –, una frase è stata twittata da un amico che vive a Singapore, quella successiva da mia sorella a Los Angeles». Anche per questo l'hashtag #Hafiz è rimasta nel ranking Twitter per oltre una settimana e l'opera è arrivata nelle librerie con una scia di oltre 50mila lettori che ne avevano già sentito parlare in rete.
Per oltre tredici anni Meagan Cignoli ha cercato di portare le sue opere d'arte visiva nei musei di tutto il mondo. All'ennesimo rifiuto la decisione è arrivata in modo spontaneo: smettere con la distribuzione tradizionale e pubblicare le proprie animazioni artistiche sul web. La piattaforma scelta è stata Vine, il software per condividere filmati di sei secondi di cui Twitter è proprietario. «Il successo è stato immediato – dice Meagan –, solo con i primi video ho collezionato più visualizzazioni di quanti sono i visitatori di una grande fiera d'arte». Dalla rete il successo si è espanso nel mondo reale e oggi questa artista trentenne continua a produrre mini-filmati come direttrice di un'agenzia che da lavoro a 8 giovani creativi. «Lo spirito è rimasto sempre lo stesso – dice Cignoli –, ossia creare video animati dalla forte impronta artistica, solo che oggi anziché farli gratis li realizzo per campagne pubblicitarie di aziende come Puma ed eBay».
Una storia simile è quella di Eddie Rossetti, giovane studente di design che dopo un master in disegno del prodotto ha deciso di condividere su Pinterest il suo portfolio. Grazie all'applicazione inventata da Ben Silbermann, che nel 2013 ha dichiarato di aver incrementato le proprie iscrizioni del 50%, Rossetti ha conquistato l'attenzione e i complimenti di oltre 82mila follower. «La popolarità è arrivata con una linea di camice da uomo disegnata a partire da vecchi ritagli di giornali – racconta il giovane originario del Connecticut –. Le grandi riviste di moda hanno notato il movimento che si era creato attorno al mio profilo e mi hanno inserito nelle loro rassegne». Tra i fan di Ben ci sono tutte le più grandi case di abbigliamento del mondo, dalla spagnola Zara con la quale è nata anche una collaborazione agli italiani Versace e Ferragamo. «Con o senza social il processo creativo rimane lo stesso – dice il disegnatore –. Il lavoro di ricerca e di analisi è rimasto invariato rispetto a venti anni fa, quello che cambia è l'effetto che si ottiene condividendo in rete un'idea. Oggi si è in grado non solo di distribuire un prodotto ma anche di riceverne in tempo reale le reazioni del pubblico, quindi anche di cambiare direzione se necessario».
Via IlSole24Ore.com
Buon lunedì. Mi è capitato recentemente e per vari motivi di leggere diversi report sul social caring e la capacità di risposta delle aziende, come questo di Blogometer e altri, anche di provenienza straniera.
Al di là di numeri e trend quello che, secondo me, dovrebbe balzare più all'occhio è il fatto che questi canali molto spesso sono ancora trattati in modo separato dal customer care tradizionale e dal CRM.
Viene persa quindi una grandissima opportunità di arricchire la conoscenza che abbiamo dei nostri clienti (nurturing) che spesso invece sono disponibili a condividere molte informazioni con noi a patto di essere ascoltati e supportati. La logica di ecosistema si porta dietro anche il concetto di single customer view ed i social media, spesso in bilico tra sopravvalutazione e disincanto eccessivo, sono un canale bidirezionale e quindi ideale per attingere dal dialogo. Al di là delle varie metriche, è questo il loro reale valore, non certo il numero totale di fan/follower acquisiti in modi magari non leciti.
Ovviamente tutte queste informazioni poi devono essere in qualche modo rese disponibili a tutti coloro che ne possono trarre informazioni utili al business (basta con i silos!), per dare valore agli inevitabili investimenti che questo tipo di collezionamento comporta.
È ovviamente un tema di tecnologia per gestire tutto questo ma anche e soprattutto di processo interno all'organizzazione. E voi, che esperienze avete in merito?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Se la Delorean di “Ritorno al futuro” potesse portarci indietro di quindici anni almeno, in un mondo pre social media di massa, le scelte per un piccolo imprenditore italiano in campo pubblicitario appaiono alquanto limitate. Volantini, annunci pubblicitari sul quotidiano locale, cartelloni pubblicitari e per i più coraggiosi banner su internet e pay-per-click. Forse più che limitate, sarebbe più corretto definirle onerose. Basti pensare al tempo e alle risorse spese non solo per impaginare e stampare volantini ma anche per distribuirli oppure i costi e le tempistiche dei piccoli giornali e nessun modo per misurarne l’efficacia se non contare l’aumento di clienti senza poter attribuire in maniera certa, in molti casi, se ció fosse proprio dovuto all’investimento pubblicitario.
Una via d’uscita Ma un salto veloce sulla Delorean ci porta avanti di qualche anno e l’arrivo dei social media, Facebook in particolare, che sconvolge la cultura italiana per sempre. Il piccolo imprenditore vede finalmente la possibilità di farsi pubblicità gratis (parola magica!). Non serve nemmeno un sito web, la pagina Facebook diventa in molti casi il baluardo online della piccola impresa. Like dopo like, il piccolo imprenditore può comunicare con il cliente direttamente (nel bene e nel male) senza aver bisogno di capacità specifiche o risorse aggiuntive.
Una bolla pronta a esplodere, perché questo scenario c’é qualcuno che non ci guadagna abbastanza. E così Zuckerberg & co, algoritmo dopo algoritmo, azzerano o quasi le chance del piccolo imprenditore. Prima con l’EdgeRank, che da solo ha fatto vittime anche fra i grandi marchi (si pensi a Eat24 o Copyblogger) poi con modifiche successive che portano in vista contenuti di prima classe. Sono ormai scomparsi dal blog di Facebook e dai feed le menzioni dei programmi per piccole imprese o i vari esempi di campagne di successo, persino i coupon ed offerte come opzione pubblicitaria sono passati in secondo piano.
Content is king Facebook adesso promuove lo storytelling come maniera efficace per non annoiare i consumatori con pubblicità invadenti. Propone esempi di campagne di McDonald’s e Coca Cola, come la recente realizzazione di video con patatine fritte in stop motion che certamente avrà avuto un budget notevole.
Un miglioramento per i consumatori certamente, ma un cambiamento di direzione che dovrebbe far riflettere i piccoli imprenditori sulla validità dei social come mezzo di promozione. Storytelling e content marketing su i social media tempo, risorse ed esperienza in maniera costante, non tutti gli imprenditori ne hanno a disposizione.
Alla luce di tutto ciò, gli esperti cominciano a tentennare e quello che era un must, adesso diventa un optional.
L’ultimo avamposto In un mondo in continua evoluzione, dove social media come Ello o Rooms (la nuova app targata Facebook) cambiano le regole del gioco in continuazione, forse ha senso rivalutare il sito web. Google attesta con abbondanza di dati che effettuiamo ricerche su internet più che mai e questo accade con maggior frequenza con gli smartphone. Un sito web semplice e responsive, ottimizzato e contenente tutte le informazioni necessarie può essere valido per anni a venire, un investimento che vale la pena fare piuttosto che inseguire i mulini a vento dei social media.
Via Republic+Queen Magazine
Un marchio forte, si sa, è un bene estremamente prezioso. Le aziende di consumo, in particolare, dedicano molto tempo e risorse al consolidamento del proprio marchio. Secondo la ricerca annuale condotta da Forbes sui marchi più importanti del mondo, Apple si guadagna il primo posto con un valore di 124,2 miliardi di dollari , il doppio rispetto alla seconda classificata Microsoft con i suoi 63 miliardi di dollari.
Il valore di Apple è cresciuto del 19% rispetto all’anno precedente, confermando la forza guadagnata nel tempo dal colosso su alcuni settori strategici: telefonia, tablet, lettori mp3 e musica. Si appresta ora ad aggredire nuovi mercati come quello degli smartwatches con Apple Watch e dei pagamenti attraverso Apple Pay. Apple ha venduto 39,3 milioni di iPhone nell’ultimo trimestre e 12,3 milioni di iPad, generando un margine di profitto superiore del 33% rispetto all’anno precedente .
Al secondo posto tra le aziende con più alto valore troviamo Microsoft, in crescita dell’11% dopo tre anni di stasi ed una strategia volta a conquistare il mercato del mobile. Grande successo anche grazie alla scelta di fornire licenze di utilizzo del software in ambiente cloud. Microsoft sta puntando inoltre sulle sponsorizzazioni, come dimostra l’accordo da 400 milioni di dollari firmato nel 2013 con la NFL – National Footbal League, con il marchio Surface a bordo campo e l’uso di tablet Microsoft per l’instant replay. Medaglia di bronzo a Google con un valore di 56,6 miliardi di dollari, in crescita del 19% rispetto all’anno precedente. Negli ultimi 12 mesi ha generato utili per 16 miliardi di dollari ed è uno dei più grandi spender pubblicitari in tecnologia con 2,8 miliardi nel 2013.
Per determinare i most valuable brands Forbes ha analizzato oltre 200 marchi globali, ponendo come requisito la presenza negli Stati Uniti, eliminando dalla classifica aziende multinazionali come Vodafone o China Mobile. L’analisi è realizzata sugli utili degli ultimi 3 anni, assegnando un punteggio percentuale in base al settore (alto per i beni di lusso e bevande, basso per compagnie aeree e petrolifere). I 100 marchi più prestigiosi coprono 15 paesi in 20 settori industriali. I marchi di aziende con sede negli Stati Uniti costituiscono poco più della metà della lista, seguiti da Germania (9 marchi), Francia (7) e Giappone (5). Le aziende del settore tecnologico dominano la lista con 16 marchi in totale, di cui 5 tra le prime 10 e 11 tra le prime 25. Seguono le aziende automobilistiche con 16 marchi nella top 100, guidate da Toyota al nono posto con un valore di 31,3 miliardi di dollari. IBM con un valore di 47,9 miliardi di dollari in calo del 5% rispetto all’anno precedente si piazza al quinto posto tra due colossi del settore alimentare Coca Cola, al quarto posto con un valore di 56,1 miliardi di dollari in crescita del 2%, e McDonald’s al sesto con un valore di 39,9 miliardi di dollari, in crescita dell’1%.
Il miglior risultato tra tutti i valuable brandes di Forbes lo ottiene Facebook, classificato al diciottesimo posto ma con un aumento del 74% rispetto all’anno precedente e un valore di 23,7 miliardi di dollari. Buoni risultati anche per Amazon al 24° posto con un aumento del 45% ed un valore di 21,4 miliardi di dollari.
I numeri di Forbes rafforzano quanto già sostenuto da Eurobrand agli inizi di ottobre.
Via Tech Economy
Kindle Unlimited signfica per i possessore di un ebook Kindle l’accesso illimitato a oltre 15.000 titoli in italiano e oltre 700.000 in altre lingue da tutti i dispositivi a 9,99 euro al mese. Funziona così: i titoli disponibili sono contrassegnati dal logo Kindle Unlimited, entrando nella pagina di dettaglio del singolo eBook si clicca su Leggi gratis con Kindle Unlimited. È possibile iniziare oggi il proprio periodo di prova gratuito di 30 giorni su www.amazon.it/ku-provagratuita.
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In fondo è la vittoria dello streaming e di un modello di business che punta sull’accesso al servizio. L’idea di Amazon è quella di Spotify e dei moltissimi servizi di streaming video (Infinity, SkyGo, Apple iTunes, ecc). Si paga l’accesso e non il possesso. Quando si smette finisce l’esperienza d’uso. Quello dell’abbonamento flat è un cambio di paradigma per l’utente. Un incubo per i collezionisti e gli amanti dell’oggetto fisico. Un sogno per chi invece con pochi dollari può restare sintonizzato con le novità di mercato. Prima o poi qualcuno cercherà un modo di far parlare questi due mondi apparentemente lontani.
Via IlSole24Ore.com
Audiweb ha rilasciato i nuovi dati dell’audience mobile e della total digital audience del mese di agosto 2014: in questo periodo sono stati 27,4 milioni gli italiani dai due anni in su che si sono collegati a internet almeno una volta, online in media per 42 ore e 49 minuti per persona. La total digital audience nel giorno medio è rappresentata da 19,5 milioni di utenti collegati per 1 ora e 56 minuti.
La fruizione di internet da device mobili (smartphone e tablet) nel giorno medio supera ancora l’accesso alla rete tramite computer. Sono, infatti, 15,5 milioni gli italiani tra i 18 e i 74 anni che ogni giorno hanno dedicato in media 1 ora e 37 minuti alla navigazione in mobilità, mentre l’audience online da PC registra 10,5 milioni utenti unici (2+ anni) online per 1 ora e 13 minuti a persona.
Con 1 ora e 43 minuti nel giorno medio e 45 ore e 53 minuti di tempo speso in media per persona nel mese, le donne confermano un maggiore consumo di internet da mobile rispetto agli uomini. Oltre il 62,5% dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni era online nel giorno medio ad agosto (7 milioni), principalmente da device mobili. Più in dettaglio, risultano 2,6 milioni i giovani tra i 18 e i 24 anni che nel giorno medio hanno usato device mobili (smartphone e tablet) per accedere a internet (il 60,2% dei 18-24enni), mentre l’accesso da PC vede solo 962mila utenti unici di questa fascia d’età (il 22,6% della popolazione di riferimento).
Dai dati sull’uso dei differenti device utilizzati per accedere a internet, risulta che il 66,4% del tempo totale speso online è generato dalla fruizione di internet da mobile e, più in dettaglio, il 55,7% del totale dalla fruizione tramite mobile applications.
Via Tech Economy
C’è un equivoco che ancora ha molto seguito nel marketing e nelle aziende, specie quando ci si sposta sui mezzi a vocazione più digitale: bisogna essere su quel canale o utilizzare quella tecnologia perché ci daranno un vantaggio o solo perché altri ci sono già.
Certo grazie alla diffusione di internet, degli smartphone e a mille altri fattori sono cambiate molte cose negli ultimi anni rispetto agli strumenti per comunicare, e in particolare:
a) si sono pesantemente ridotte le barriere all’ingresso per la produzione di contenuti, sia in termini di competenze tecniche sia sul piano dei costi;
b) i privati ormai posseggono in molti casi una tecnologia pari o perfino migliore di quella aziendale e non è raro che la sappiano padroneggiare meglio;
c) in termini teorici la distribuzione su vasta scala è accessibile a tutti.
Fermiamoci un attimo: rispetto a quanto sopra nella gran parte dei casi il nostro pubblico come privati sono degli amici per i quali ciò che creiamo ha un significato che nasce dal contesto, dalle relazioni, da una storia e che prescinde da qualità e mezzo di produzione. Ma se siamo delle aziende, quali dovrebbero essere i motivi per cui dovremmo avere successo ora che la fruizione dei media è frammentata tra tanti device, asincrona e personalizzata? Per quale (abbondante) mancanza di umiltà noi dovremmo essere per forza interessanti nel frastuono della conversazione collettiva?
Senza un palinsesto unico dei media che ci dia una mano a dettare l’agenda e i tempi, come avveniva per la tv tradizionale, e con tanti stimoli continui che arrivano nello stesso momento da fonti disparate per livello, qualità e vicinanza il solo esserci non serve. E anzi è controproducente.
La domanda giusta infatti non è tanto “dove devo essere” ma che cosa voglio fare e rispetto a chi. L’ormai storico acronimo POST viene rispettato infatti inconsciamente dagli utenti, per i quali la tecnologia è qualcosa di indifferente purché sia comodo per fare ciò che vogliono, ma non dalle aziende.
Un contenuto di qualità e rivolto alle persone giuste quindi è la prima chiave. La seconda è la capacità di gestirlo attraverso i canali e nel tempo: fondare una strategia su di un singolo media, specie se earned, vuol dire essere a rischio ad ogni nuovo arrivo nell’ecosistema. In più, la possibilità (tecnica e organizzativa) di rilavorare e adattare in tempi brevi ad ogni nuovo mezzo le storie ciò per cui veniamo scelti dal cliente è il secondo pilastro di una sana capacità di cavalcare l’evoluzione frenetica dei nostri tempi.
Contenuto può poi volere dire tante cose ma al centro ci sono sempre le persone, le storie, le aziende, i bisogni, l’immaginazione: è questo che riempie di senso un libro come un post di Facebook. E allora si capisce che partire solo dal supporto non è davvero una buon idea.
P.s. Tutto ciò si applica alla grande anche agli strumenti di collaboration, ma lì c’è materiale per più di un altro post!
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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