Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Nel corso dell’ultimo anno e mezzo su Instagram sono apparse inserzioni occasionali e generiche, non profilate e identiche più o meno per tutti (uniche differenze finora sono su età, sesso e paese). Questo tipo di approccio all’advertising del social delle foto è destinato a cambiare radicalmente: presto infatti Instagram saprà se abbiamo 20 o 30 anni, se ci piacciono i gatti oppure le gite al mare, se amiamo il cioccolato o se invece siamo sensibili a cause di beneficenza e molto, molto altro.
Tutte queste informazioni verrano prese dai database di Facebook e incominciano ad essere più chiari alcuni dei piani che Mark Zuckerberg ha in serbo per Instagram, comprato nel 2012 per un miliardo di dollari: profilazione e advertising. Come scrive Business Insider, al momento solo brand di grandi dimensioni hanno la possibilità di fare advertising su Instagram, ma a partire dal mese di luglio, la società ha intenzione di ampliare il proprio range ed aprire anche alle aziende di dimensioni più ridotte.
Entro l’inverno infatti, gli strumenti per l’acquisto di spazi pubblicitari su Instagram saranno integrati con quelli di Facebook, consentendo ad ogni brand che pubblicizza sul social di Zuckerberg di acquistare annunci anche su Instagram. A questo proposito in un post sul blog ufficiale di Instagram è possibile leggere che la società sta lavorando ”per dare a tutte le imprese la possibilità di raggiungere le persone giuste” attraverso l’integrazione delle API di Facebook e Instagram.
Inoltre secondo la società, “le persone vogliono entrare in contatto con aziende di ogni dimensione su Instagram, dai loro negozi di abbigliamento preferiti vicino casa ai ristoranti, fino ai più grandi brand del mondo”. Secondo Forbes si tratta di un cambiamento epocale per Instagram: un primo serio tentativo di monetizzare la piattaforma da parte di Facebook a tre anni dall’acquisizione.
Via Tech Economy
Gli annunci Google I/O, con Brillo e Android M in evidenza, mettono in luce parte delle strategie aziendali del colosso della ricerca. Google, nata con il ‘search’ capitalizza la propria leadership indiscussa nel search, in ogni sua forma. Il capitale informativo di Google in questo senso è il più completo (nel mondo occidentale, intendiamoci, perché sappiamo bene che in altri Paesi come la Cina i valori di mercato sono sensibilmente diversi), ed è strategico per Google fare in modo che qualsiasi fonte di dati, qualsiasi ‘transazione’ informativa resti il più possibile sotto il proprio controllo. Pubblicità Da qui Brillo, la piattaforma derivata da Android per creare dispositivi connessi, con Weave (ma anche API di sviluppo, protocollo di comunicazione, set di schemi e programma di certificazione per assicurare interoperabilità di dispositivi e app), da qui gli sforzi di miglioramento di Google Now, della piattaforma per i pagamenti, e del subset Android per gli ‘indossabili’. Strategia chiarissima: poiché le informazioni arrivano dagli oggetti, Google ha bisogno di mantenere il controllo su qualsiasi cosa produca informazioni.
Google In questo momento il punto di forza di Google è proprio la pervasività Android e la bontà dell’esperienza possibile su diversi device, anche di natura diversa, il punto debole invece nell’ecosistema è non avere saputo offrire un’esperienza efficace e sostitutiva di quello che già c’è nell’ambito del computing aziendale tradizionale. ChromeOS infatti è al momento del tutto assente dalle realtà produttive importanti, e si ritaglia gli spazi – pochi – in ambito educational. Si può sostenere che quell’esperienza non è più centrale nella produzione di informazioni. Può essere, ma non siamo così convinti che questa sia una partita di secondaria importanza. Invece torna ad essere interessante la sfida in cloud con Amazon e Microsoft, che Google si gioca con Google Compute Engine e Google Cloud Platform. Google in pratica è forte in due ambiti su tre.
Apple Apple al momento è l’attore che assicura la migliore esperienza utente in assoluto negli ambiti in cui propone i propri device e il proprio software: smartphone, tablet e computing. In questo senso Apple chiude perfettamente il ciclo di esperienza utente. Tuttavia la proposta in ambito cloud non è proprio perfetta, Apple non ha la disponibilità di una piattaforma cloud aperta a tutti gli attori di mercato come Microsoft e Google (e inseriremmo sempre anche Amazon nella lista, se non fosse evidente la sua esclusione dall’agone dei grandi nell’offerta sui device per la mobilità). La ‘ricchezza’ di Apple, proprio dal punto di vista finanziario, e come liquidità, è stupefacente, ma non vediamo una strategia ‘superiore’ oltre device e intrattenimento multimediale. Insomma, Cupertino si è ritagliata un altro mercato, con al centro device e contenuti. E in questa fase sono più i competitor che per presidiare entrano con le proprie proposte nelle piattaforme iOs, mentre Apple monetizza le preferenze che gli utenti le concedono nei negozi quando comprano i device e computing, apprezzano la qualità del software, la sicurezza, ma magari poi in cloud scelgono soluzioni più aperte o che siano disponibili su tutte le piattaforme. Nella prossima era Iot la chiusura di Apple potrà costare molto cara. Anche in questo caso siamo a due task su tre ben completati: esperienza utente, e device Ok. Iot e Cloud no.
Microsoft E siamo a Microsoft. Redmond ha compiuto passi da gigante in ambito cloud con la proposta di una piattaforma come Azure, ha mantenuto livelli qualitativi molto alti nell’esperienza software in azienda con Office 365, ha retto le defaillance di Windows 8, anche per mancanza di concorrenza valida nel computing tradizionale (anche perché la concorrenza non ha investito più di tanto in un ambito che non è così centrale o in pieno sviluppo come l’ambito mobile), ha svolto un grande lavoro per ‘aprirsi’ e proporre soluzioni interoperabili. Allo stesso tempo ha mancato almeno due obiettivi: il primo è quello di una proposta smartphone convincente. Le quote di mercato sono disastrose, al momento. Doveva crescere di più.
La strategia duocentrica Arm/Intel non è mai stata chiara né chiarita. Non siamo per nulla convinti che senza avere una forte presenza con il proprio sistema operativo in ambito smartphone, nel wearable, e nell’Iot si possa reggere la partita. Windows nella sua declinazione ‘embedded’ sarà il sistema del futuro anche per gli oggetti? Vedremo. Quando Microsoft si definisce ‘platform vendor’, in un certo senso esorcizza i rischi di non essere più il riferimento nei livelli sottostanti, nella galassia mobile, come lo sono Google e Apple.
Amazon Basta un minuto di riflessione per ‘vedere’ le intuizioni geniali di Bezos e le occasioni mancate. Completamente fallito l’approccio mobile, Amazon ha letto prima di tutti gli altri le potenzialità del cloud. L’impero e-commerce ha rappresentato palestra quotidiana per un’offerta cloud del tutto temperata sulle esigenze reali delle aziende. Allo stesso tempo Amazon non ha mai voluto o saputo chiudere il cerchio per un’esperienza utente perfetta, interpretando anche la sua presenza nell’ambito dell’offerta dei tablet come dispositivi per la fruizione di servizi e prodotti, ma senza mai estendere a 360 gradi la propria proposta. E’ possibile ma non ancora evidente che l’importanza del device sia nulla. Lo sarà se tutti i vendor saranno pronti a posizionarsi su tutte le piattaforme e sarà loro consentito di farlo. Alla fine come è accaduto anche a Microsoft, sono le sue app ad essere diventate disponibili per gli altri OS, senza permettere ad Amazon di presentarsi come piattaforma completa per l’esperienza utente se non a un livello superiore. Proprio quei AWS che sono il fiore all’occhiello, attuale, dell’esperienza cloud. Il bilancio attuale è che per gli utenti, qualsiasi sia la loro scelta in ambito di servizi e device da utilizzare in mobilità, come in ufficio, non c’è ancora un protagonista assoluto in grado di offrire il meglio a 360 gradi. Ogni vendor ha un tallone d’achille nella propria strategia. In questo senso la situazione è ancora molto fluida e allo stesso tempo è anche possibile che si delinei uno scenario per cui non sarà mai necessario, per avere il meglio, scegliere un unico vendor per dispositivi, esperienza software e piattaforma cloud.
Via TechWEEKeurope
Negozi fisici e shop online sempre più complementari nelle abitudini di acquisto delle persone: il trend globale che emerge dall’analisi di PwC “Total Retail Survey 2015” è sempre più quello della “ricerca incrociata” comune a oltre il 70% dei consumatori intervistati. Si fa sia lo showrooming (ricerca in negozio-acquisto online), che il reverse showrooming (ricerca online-acquisto in negozio), a dimostrazione della sempre maggiore integrazione e complementarietà dei diversi canali. La ricerca ha analizzato i comportamenti di consumo online e l’attitudine alla multicanalità di 19.000 consumatori in 19 paesi, tra cui oltre 1000 italiani.
In Italia il panorama non è poi così diverso dal trend mondiale e la ricerca ha riscontrato quelle che chiama “quattro forze di rottura” che nel nostro paese assumono specifiche caratteristiche.
Il rapporto con il negozio fisico
Entrare in un negozio, provare e toccare con mano i prodotti è una abitudina che agli italiani continua a piacere: il 38% (36% a livello globale) si reca settimanalmente in negozio, contro il 25% che utilizza il PC, il 13% il tablet e il 12% lo smartphone. E il negozio fisico conquista anche un nuovo ruolo poiché i consumatori sono sempre più propensi ad utilizzarlo come vetrina per poi comprare online, spinti dalla convenienza di prezzo. Chi preferisce il negozio rispetto ai canali digitali, mette ai primi tre posti la possibilità di provare e testare il prodotto (65% Italia, 60% globale), la gratificazione istantanea dell’acquisto in negozio (52% Italia, 53% globale) e la maggior sicurezza sull’adeguatezza del prodotto nel soddisfare le proprie esigenze (33% Italia e campione globale).
Sempre più spesso però gli italiani utilizzano il negozio come vetrina, per poi comprare online: il 67% è spinto dalla potenziale convenienza di prezzo, rispetto al 56% a livello globale (e solo 48% per il consumatore tedesco). E’ anche più favorevole a ricevere offerte via email o SMS, testimoniando l’importanza del digital marketing. Chiede però una digitalizzazione più forte del punto vendita per facilitare il processo d’acquisto, il pagamento e anche la condivisione con i social media. Ci si attende che il Wi-Fi, servizio ormai non più negoziabile nel campo dell’ospitalità, diventi uno standard universale anche nel retail: è passata dal 33% del 2014 al 23% del 2015, rimane di grande peso relativo rispetto alle altre tecnologie in store.
Il Mobile
Il mobile, rivela la ricerca, è cruciale nella fase di pre-acquisto per il consumatore italiano: il 50% dei consumatori usa lo smartphone per fare comparazioni di prezzo o ricercare il prodotto. Le barriere più importanti sono la difficoltà nell’utilizzare i siti mobile, dovuta al gap infrastrutturale in Italia (accesso a mobile broadband o disponibilità di connessioni Wi-Fi negli store) e di user experience, abbinata ad una scarsa percezione di sicurezza nei pagamenti. Ciò dimostra che le tecnologie in store, dagli iBeacon alla sensoristica diffusa dell’IoE passando per nuove forme di mobile e digital payment sono tutt’altro che ininfluenti nella percezione del consumatore.
I Social media
L’Italia è il Paese che dimostra un impatto più elevato dei social media nelle decisioni d’acquisto, per il 63%. I consumatori visitano i profili dei brand sui social media per accedere a promozioni interessanti (50%) e per visualizzare nuovi prodotti (33%). Al terzo e quarto posto emergono tra le motivazioni la partecipazione a social contest (24%) e la possibilità di interagire con pari o esperti del settore e ottenere suggerimenti (21%).
I nativi digitali I “convertiti digitali” hanno più potere di spesa dei nativi digitali, ancora troppo giovani ma l’orizzonte per il cambiamento di scenario è tuttavia molto prossimo, spiega PWC: “nell’arco di un quinquennio, i giovani e giovanissimi di oggi entreranno infatti a far parte a tutti gli effetti della popolazione attiva e l’aumento del potere di spesa li renderà un target di primaria importanza. I retailer devono perciò comprendere che fin da oggi è necessario mettere in atto strategie e piani d’azione mirati a offrire ai nativi digitali un’esperienza unica per i loro acquisti.“
Via Tech Economy
È una generazione praticamente sempre connessa a internet e il suo dispositivo per eccellenza è lo smartphone, usato per oltre la metà del tempo per le sue funzioni online e non semplicemente per telefonare o inviare gli ormai “vecchi” sms. Sono i “Millennials”, 11,2 milioni di giovani italiani nati tra gli anni ottanta e gli anni duemila, che fin da piccoli hanno avuto a che fare con internet, il cui identikit è tracciato da una ricerca Yahoo! commissionata a Nielsen.
La generazione Millennials è rappresentata da ragazzi fra 18 e 34 anni: il rapporto indica che il 76% di loro è abitualmente connesso: ogni mese i Millennials trascorrono online 66 minuti e 34 secondi, gran parte attraverso dispositivi mobili. Il mezzo per eccellenza è lo smartphone, sul quale trascorrono 2 ore e 41 minuti ogni giorno. Così, tra social network, chat e app sono connessi a Internet il 69% del tempo. Solo per il 17% vengono utilizzate le app che non richiedono connessione online, come la fotocamera. L’utilizzo delle funzioni telefoniche rappresenta il 14% del tempo.
I Millennials sono caratterizzati da un’alta propensione alla spesa: la maggior parte (69%) sceglie in autonomia i prodotti da acquistare. Il 55% vive ancora in casa con i genitori ma non tutti lo fanno per reali esigenze economiche: il 26% fa questa scelta per potersi assicurare un miglior stile di vita e il 17% lo trova più comodo per non occuparsi della gestione della casa. Solo il 16% vive da solo, un altro 16% ha formato una nuova famiglia senza figli e il 13% ha uno o più bambini.
Via Tech Economy
Secondo le stime dell’Osservatorio eCommerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2015 le vendite online via smartphone cresceranno del 70% circa e supereranno 1,8 miliardi di euro, pari al 12% dell’eCommerce B2c. La situazione è piuttosto diversa da settore a settore. Il comparto con la più alta penetrazione delle vendite da Smartphone è l’Informatica ed elettronica con circa il 18%, seguito dall’Abbigliamento con il 17%.
Troviamo infine l’Editoria e il Turismo con il 15% e con l’8% rispettivamente. Se si considera invece l’apporto in valore assoluto, il Turismo contribuisce alle vendite con più di 440 milioni di euro, l’Abbigliamento con circa 390 milioni e l’Informatica ed elettronica di consumo con circa 370. Tra gli altri comparti si segnalano gli ottimi risultati del Couponing.
A sfruttare il canale mobile, sono oggi diverse categorie di iniziative. In primis, i siti delle vendite private (come ad esempio Amazon BuyVIP, Privalia, SaldiPrivati e vente-privee.com) e quelli del Couponing (come ad esempio Glamoo, Groupalia e Groupon) per un’evidente affinità con un modello di business in cui l’istante di acquisto conta. In secondo luogo, le compagnie di trasporto (come ad esempio Alitalia, Lufthansa, Meridiana, NTV e Trenitalia) dove contano sia l’istante che il luogo in cui l’acquisto viene effettuato. Vi sono poi alcune grandi Dot Com che fanno leva sul carattere personale del dispositivo, come ad esempio TicketOne che propone i biglietti per gli eventi degli artisti preferiti che sono presenti nelle playlist personali sullo Smartphone o sul proprio profilo Facebook. Ve ne sono altre che puntano sulla semplificazione del processo di acquisto, come ad esempio Amazon che nella sua App ha integrato il lettore del codice a barre per favorire la ricerca del prodotto senza digitazione presso i punti vendita dei retailer tradizionali. Ed infine ne troviamo altre ancora che provano a sfruttare al massimo i tempi morti (ad esempio negli spostamenti) laddove il contenuto informativo è particolarmente ampio e complesso (come ad esempio le agenzie online come Expedia, lastminute.com, i portali di hotel come Booking.com o venere.com).
Se invece consideriamo le vendite sia su smartphone che su tablet, la crescita è del 60% e porta i nuovi device a pesare per un quarto dell’intero eCommerce. Erano il 5% nel 2012, il 14% nel 2013 e il 18% nel 2014. Con un peso pari al 25% delle vendite online, l’eCommerce attraverso dispositivi mobili è sostanzialmente in linea con UK e USA (25%), Germania (22%), Spagna (20%) e Francia (17%).
Cosa è lecito aspettarsi per il prossimo futuro? Secondo l’Osservatorio eCommerce B2c sono diversi gli elementi da tenere in considerazione per valutare lo sviluppo delle vendite online da dispositivi mobili. In primis, c’è la diffusione dei device. Nel 2014 si stimavano 45 milioni di smartphone e circa 11 milioni di tablet attivi nel nostro Paese, che dovrebbero arrivare nel 2015 a 52 (+16%) e 14 milioni (+25%) rispettivamente.
Negli anni successivi è attesa una crescita più importante per i tablet, che in molte attività di intrattenimento (soprattutto domestiche) andranno a sostituire il pc (desktop o laptop). In secondo luogo, si ritiene che lo smartphone avrà un ruolo sempre più significativo nell’unire il mondo fisico con quello digitale, spingendo percorsi di acquisto multicanale.
Percorsi multicanale saranno resi disponibili anche attraverso nuove funzionalità come la ricerca visuale lanciata da Amazon, che consente di fotografare un prodotto in store per verificarne disponibilità e prezzi online o l’acquisto tramite riconoscimento delle immagini e riconoscimento audio (sia all’interno dello store che sui media) offerto dal gruppo Miroglio (Motivi). In terza battuta, riteniamo che l’offerta su smartphone e tablet sarà sempre più completa, grazie alla progettazione di siti “responsive” (ossia che si adattano al display del device da cui vengono fruiti) e allo sviluppo delle App (oggi “solamente” il 22% dei merchant del nostro campione ha una applicazione di mobile Commerce). Infine, pensiamo che anche l’innovazione attraverso i social network, tipicamente fruiti da dispositivi mobili, potrà spingere ulteriormente le vendite. Amazon ad esempio negli USA dà la possibilità di inserire dei prodotti nella wishlist e nel carrello tramite tweet. Twitter stesso si è poi dotato del bottone “buy” e ha acquisito CardSpring, un’infrastruttura di pagamento che connette i venditori con i payment processor. Sempre in questo ambito si segnala l’accordo tra YOOX Group e WeChat, in Italia, USA e poi in Cina, che consentirà ai clienti di accedere a servizi e contenuti esclusivi (come ad esempio chattare con un assistente o consultare un personal stylist dedicato).
Via Agenda Digitale
Cresciuta tra gli agi ma diventata adulta in piena crisi, tecnologica ma senza esserne nativa: una nuova generazione di consumatori si presenta sul mercato. Come conquistarla? Non basta puntare sul digitale se si smarriscono le relazioni umane.
Sono oltre due miliardi i Millennials, la cosiddetta Generazione Y, i nati tra gli anni ’80 del secondo scorso e gli inizi del nuovo Millennio. Cresciuti nell’era dell’ottimismo dei Baby Boomers e della Generazione X, dove tutto era dovuto e il futuro non dava adito a preoccupazioni, hanno dovuto di recente fare i conti con una situazione sociale che mai avrebbero pensato di dover affrontare: crisi economica, alti tassi di disoccupazione e, soprattutto, un futuro tutto da costruire per se stessi e per i propri discendenti. I Millennials crescono insieme allo sviluppo della Rete, di cui ne accompagnano la genesi e le rapide evoluzioni degli ultimi vent’anni. A differenza dei nativi digitali, la cosiddetta Generazione Z, i nati dal 2005 in poi, i Millennials, soprattutto i più grandi d’età tra di loro, maturano il rapporto con i new media soprattutto per esigenze professionali, per poi trasferirne la conoscenza anche nell’ambito privato. A detta dei teorici del marketing e dei responsabili della comunicazione delle aziende, il digitale (siti, blog, social network e piattaforme mobile) rappresenta certo la piattaforma privilegiata per entrare in contatto con loro. Ma sarebbe errato dimenticare l’importanza degli spazi fisici, che i Millennials continuano ad apprezzare e presidiare. La regola aurea, in fondo, sia che si tratti di new media, sia di mezzi offline, rimane la stessa: perché l’approccio di una marca sia fruttuoso, il contatto deve essere diretto, one-to-one, pena la sua dispersione. È questo in fondo il tratto distintivo che differenzia questa generazione dalle precedenti e che la rende unica.
WEB E TERRITORIO. Ne è convinto Roberto Pietrantonio, Communications Director di Mazda Motor Italia, per il quale il digitale e un nuovo modo di comunicare più orientato alla capacità di emozionare rappresentano gli asset che permettono a un marchio di parlare con successo ai Millennials. Un target presidiato solo in parte dal brand giapponese. Anche perché questo pubblico è in genere trascurato dal settore automotive: è in fondo proprio tra i Millennials che la cosiddetta sharing economy ha preso di più piede, che il concetto di proprietà delle quattro ruote ha perso appeal, a vantaggio del car sharing e di servizi di condivisione dell’auto come Bla-BlaCar. «In Italia sarebbe prioritario cercare di diffondere tra le nuove generazioni una passione, quella dell’auto, che si sta perdendo», spiega Pietrantonio. «Lo si potrebbe fare ad esempio tornando a organizzare saloni dell’auto non solo pensati per l’esposizione: più prove su strada, più spazio alle auto da corsa e rally, al merchandising, solo così i costruttori possono pensare di emozionare il pubblico e soprattutto le generazioni più giovani». Per uscire dai binari dell’omologazione, ragiona Pietrantonio, la comunicazione del settore deve dunque percorrere nuove vie. «Il digitale, a cui Mazda riserva più della metà del suo budget pubblicitario, è di certo il medium che oggi non si può non presidiare. Il brand ha deciso però di puntare molto anche sul territorio, sempre nel tentativo di far appassionare gli automobilisti». Per il lancio della Mazda2, ad esempio, solo per citare l’ultima di una serie di iniziative finalizzate a far conoscere dal vivo le sue auto, il gruppo ha organizzato il “Mazda2 Connection Tour”, un evento in dieci tappe che ha visto la piccola ammiraglia immersa in un ambiente tipicamente nipponico.
OLTRE L'INFORMAZIONE. Anche per Gianluca Buzzegoli, Marketing Communication Manager del Gruppo Sant’Anna Fonti di Vinadio, l’arrivo dei Millennials e il boom del digitale sono fenomeni strettamente collegati. «Li conosciamo, sia dal punto di vista dei comportamenti di consumo, sia dal punto di vista socioeconomico. Ci rivolgiamo a loro con progetti specifici, veicolati in massima parte sui canali digitali, tenendo sempre a mente che non è più concepibile limitarsi a “informare”, ma bisogna andare oltre, cercando dialogo, offrendo ascolto e attenzione, intercettando le loro voci attraverso un panorama sempre più esteso di touch point», spiega Buzzegoli. Nonostante questo, anche per Gruppo Sant’Anna Fonti di Vinadio la comunicazione deve coinvolgere sempre le piattaforme offline con efficaci campagne integrate. «L’offline costituisce un complesso di touch point per noi importanti: pensiamo alle promozioni in-store, alle sponsorizzazioni sportive e cinematografiche, alla comunicazione sul prodotto, alla televisione, alla radio, alla stampa. Ciascun touch point non digitale rimanda ai touch point digitali. E viceversa». La società ha avuto l’intuizione di investire sui new media fin dai loro albori. «La nostra comunicazione si è evoluta, sia in termini di linguaggi sia in termini di scelta dei canali più appropriati, sostanzialmente sin dal primo apparire del Web. Basti pensare che il primo sito Internet di Sant’Anna risale alla fine degli anni ‘90, un portale 2.0 con cui il marchio ha potuto mettere in atto un primo contatto con i nostri clienti con attività di email marketing sì, ma in ingresso. Nel corso del tempo siamo riusciti così a costruire un database composto da consumatori fedeli, ai quali abbiamo poi rivolto le tipiche attività offline, come le promozioni e le raccolte punti, integrandole con operazioni on line». Negli anni più recenti Gruppo Sant’Anna Fonti di Vinadio ha dato sempre più peso ai social network in linea con i trend del mercato, con la volontà di mantenere un filo diretto con i Millennials. «Oggi possiamo contare su una comunità di fan e follower assai nutrita, in particolare su Facebook e YouTube. E da quest’anno potenzieremo ulteriormente altri canali molto popolari, come Twitter e Instagram. E non è tutto perché, con la volontà di confermare la nostra anima pionieristica, guardiamo sempre con attenzione a quei nuovi social oggi ancora non molto frequentati ma che un domani potrebbero affermarsi sul mercato».
IL RITORNO DELLA BIONDA. Assobirra, l’associazione dei produttori di bionde, ha puntato tutto sui Millennials; anzi, per essere precisi, sulle Millennials, quando qualche mese fa ha deciso di tornare a comunicare con una nuova campagna di spot, a tanti anni di distanza dai celebri filmati pubblicitari che avevano per protagonista Renzo Arbore. Il target della nuova campagna a sostegno del consumo della birra, già partita e destinata a proseguire nei prossimi anni, spiega il direttore Filippo Terzaghi, «sono le quasi 7 milioni di donne nate tra il 1980 e il 1996, con un’età dunque che va dai 18 ai 35 anni». Le giovani adulte italiane, ha messo in luce Doxa in una ricerca commissionata proprio da Assobirra, sono in maggioranza laureate o diplomate, e sono impegnate professionalmente, in percentuale molto di più rispetto alle loro mamme. L’amicizia, la socialità, la cultura e la realizzazione nel lavoro sono ai vertici delle loro priorità. Il matrimonio e la maternità invece sono scelte che tendono a rimandare. Spesso sono ambiziose, vogliono fare esperienza all’estero, sia per motivi di studio sia di lavoro. Web e soprattutto i social network sono gli strumenti attraverso cui l’associazione vuole presidiare questo target. «Birra, io t’adoro, questo il titolo della campagna, partita in tv, su stampa, cartellonistica e sul digitale», continua Terzaghi. «Ma è quest’ultimo canale, al quale abbiamo destinato il 20% del budget pubblicitario, quello su cui intendiamo investire sempre di più nei mesi a venire, sia con il blog, Birraiotadoro.it sia con i profili social aperti su Facebook, Twitter, YouTube, Pinterest e Instagram».
LEGGERE IL FUTURO. I Millennials contribuiscono anche alla composizione del business di Feltrinelli, pur non costituendo il core target del gruppo. Eppure, sottolinea Silvia Granata, la responsabile Marketing & Innovation del Gruppo, il loro peso è destinato ad aumentare. «Il luogo dove più ci confrontiamo è di certo il nostro sito di e-commerce, soprattutto la fascia più giovane di questo target», spiega. «La sua natura digitale si confà difatti a questi consumatori, ai quali comunichiamo, e non potrebbe essere altrimenti, attraverso i new media, dall’affiliation alle piattaforme social sino alla pubblicità sui siti internet frequentati dagli studenti universitari». Detto questo, prosegue il direttore marketing, se è vero che il digitale è il canale principe con cui parlare ai Millennials, «a loro intendiamo offrire risposte anche nel mondo fisico. Già lo facciamo con il servizio Prenota e ritira, che permette di ritirare negli store un prodotto acquistato in Rete. Presto lo faremo con servizi sempre più innovativi, offrendo ad esempio soluzioni di mobile payment, per evitare di fare la coda alle casse, e con l’attivazione di punti digitali di accesso alle informazioni sempre più evoluti». Per colpirli la comunicazione deve stabilire con loro una relazione costante, duratura, alimentata di continuo. «Per questo intendiamo investire molto sul customer relationship management, tenendo conto del milione di carte fedeltà attive di cui disponiamo». Il 30% dei possessori della nostra Carta Più Feltrinelli, tra l’altro, sono Millennials. «Tra di loro, soprattutto tra i più giovani, si è affermato un consumo casalingo del mondo Feltrinelli: amano leggere, studiare nei nostri store. Questi ragazzi coniugano però una frequentazione molto assidua a una bassa attitudine alla spesa. Non è dunque il profilo del consumatore più interessante dal punto di vista del business, ma è un pubblico per noi interessante: li consideriamo i lettori di domani e, dunque, siamo felici di stimolare in loro il piacere della lettura. Di recente, oltretutto, tra gli young adults, la fascia più giovane della generazione, abbiamo iniziato a notare un forte aumento delle vendite sul canale». I Millennials fanno parte di quel nuovo consumatore allargato che il gruppo vuole far sempre più suo. Lo scorso anno la società ha infatti inaugurato una nuova strategia di marketing. «Feltrinelli è una delle più importanti publishing company italiane. Con i nostri media, gli store, la televisione, l’ecommerce, i ristoranti vogliamo individuare il consumatore tipo e comunicargli il valore aggiunto del nostro marchio, il suo posizionamento unico. Stiamo dunque lavorando ad una campagna legata al mondo Feltrinelli e non più a comunicazioni legate ai singoli tasselli che lo compongono, considerando anche che nel 2015 cade il 60esimo compleanno del gruppo».
PERSONALIZZAZIONE AD ALTA VELOCITA'. Offerte e servizi sempre più personalizzati. Una comunicazione targetizzata e diretta. Anche Trenitalia non sfugge alle nuove regole del marketing, soprattutto se il target è rappresentato dai Millennials. «È già qualche anno che la comunicazione si è orientata ai nuovi media e, di conseguenza, a questa generazione. Negli ultimi anni, infatti, seguendo i trend di mercato, abbiamo progressivamente modificato il nostro approccio, e dunque il nostro media mix di comunicazione, concentrandoci in maniera decisa sui canali digitali investendo su sito Web, newsletter, banner advertising e social network», racconta Gianfranco Battisti, direttore della divisione passeggeri Long Haul di Trenitalia. «I new media sono uno strumento fondamentale per approcciare il target dei Millennials, così come d’altronde per parlare ai nativi digitali. L’utilizzo della comunicazione digitale ci consente di raggiungere i nostri clienti proponendo offerte e servizi il più possibile personalizzati. Per questo la quota di investimenti sui new media è cresciuta sensibilmente fino a essere rilevante. Nel futuro prossimo svilupperemo ancor di più l’approccio digitale, per dialogare e coinvolgere i nativi digitali, ma senza dimenticare il ruolo dei media offline, ancora oggi indispensabili per realizzare una strategia di comunicazione adatta anche alla cosiddetta X Generation e ai Baby Boomers». I Millennials rappresentano anche per Trenitalia dunque un importante target di riferimento. «Esprimono una quota interessante del nostro business», conferma Battisti. «Certo, questo target ha una spiccata propensione all’utilizzo dei canali digitali, ma non dimentichiamo che sa apprezzare anche i canali tradizionali». Per questo Trenitalia ha sviluppato una strategia che potesse intercettare queste due attitudini. Come? «Con il rinnovamento del sito Web, l’introduzione di nuove applicazioni e servizi, allo scopo di migliorare la relazione della marca con il consumatore anche in mobilità, e l’ingresso nei social, garantendo al contempo una piena integrazione con i canali fisici».
CLIENTI ASSICURATI. Gruppo Unipol guarda con attenzione ai Millennials, così come d’altronde ai nativi digitali. E lo fa soprattutto in prospettiva, tenendo conto dell’evoluzione in atto delle modalità di fruizione delle assicurazioni, sempre più orientate all’online. «Le nuove tecnologie sono entrate da tempo all’interno del mondo Unipol, sia per migliorar il servizio offerto ai nostri clienti storici, sia per acquisirne di nuovi, ma anche per migliorare i processi interni della nostra organizzazione. Questa politica ci garantisce benefici in termini di efficienza, dell’immagine e dell’ottimizzazione dei costi», spiega Alberto Federici, direttore comunicazione del Gruppo Unipol. Il business di Unipol rimane a oggi fisico (alla società fa capo tra l’altro il marchio Linear, attivo nelle assicurazioni online e via telefono).«Sul Web però investiamo molto, circa il 25% del nostro intero budget di comunicazione», come avvenuto ad esempio da febbraio con il varo della campagna “Incredibile, ma vero”, legata al lancio della polizza auto a rate mensili a tasso zero. «Gli spazi on line rappresentano per noi un veicolo fondamentale per portare traffico nelle nostre 300 agenzie presenti in tutta Italia. È così che oggi parliamo ai Millennials, con la consapevolezza che il settore è destinato a continuare a evolvere anche in relazione a quelle che sono le loro modalità di consumo».
Via Business People
Il tema è spinoso e sta sollevando un forte dibattito online: gli investitori pubblicitari, che puntano sulla rete per le loro inserzioni, insistono per pagare solo gli annunci che appaiono realmente sugli schermi degli utenti, rifiutandosi, invece, di pagare se la pubblicità è posizionata in zone delle pagine scarsamente visibili. E’ noto che non tutto l’advertising ha la medesima “viewability” sulle pagine online: spesso alcune posizioni sulla pagina pagano di più in termini di visualizzazioni rispetto a quelle in altre zone dove l’utente, spesso, non arriva neppure. Eppure, lato server advertising, insieme alla richiesta della pagina web, arriva anche la richiesta di tutti i banner che sono su quella pagina, il che vuol dire che il sistema segnalerà di aver distribuito una impression anche ai banner che, in realtà, non sono stati effettivamente visti. E i marketer pagano, quindi, anche se non hanno la certezza che quella impression sia effettivamente legata a una visualizzazione. Una situazione delicata ancor più se pensiamo al video advertising: che i video siano formati amati dagli utenti, è un dato ormai certo. E gli inserzionisti pagano cifre significative per pubblicità video a fronte di una viewability decisamente incerta.
Ed è Google, in queste ore, a evidenziare un dato rilevante per gli investitori: solo circa la metà degli annunci video, ovvero il 54%, è davvero viewable. Un dato elaborato sulla base delle evidenze emerse dalle piattaforme Google appunto, DoubleClick e YouTube, e tenendo conto dello standard fissato dal Media Rating Council e IAB, secondo cui una pubblicità online è viewable quando almeno il 50% dei suoi pixel è visibile sullo schermo per almeno due secondi consecutivi.
Ecco le principali evidenze emerse dalla ricerca:
sul web il 54% delle pubblicità video sono visualizzabili, eccezion fatta per Youtube nel qual caso la percentuale sale al 91% la pubblicità video ha maggiore viewability su mobile e tablet rispetto al desktop il che conferma il trend percui il mobile è oggi la chiave di accesso alla rete; lo stesso accade su YouTube su cui i livelli di viewability sono molto alti da mobile, pari al il 94%. della pubblicità non-viewable il 76% era posizionato in posizioni di fondo mentre il restante 24% viene abbandonato in meno di due secondi Le posizioni sulla pagina contano: spazi orizzontali e verticali sono direttamente correlati alla viewability. E’ chiaro che, essendo Youtube proprietà di Google, i presenti dati possono essere letti a diversi livelli. Ma la domanda è comunque lecita: che ne penseranno inserzionisti e pubblicitari?
Via Tech Economy
Più ricerche da mobile che da pc. E Google lancia nuovi tool per advertising
Google registra oggi più ricerche da mobile, tablet o smartphone, che dalla navigazione online da pc. Lo storico sorpasso è stato comunicato ieri quando l‘executive Jerry Dischler, in occasione del AdWords event, ha dichiarato che il passaggio è avvenuto su ben 10 mercati globali, tra cui America, Canada e Giappone ma non ha chiarito quali siano stati gli altri sette.
Si tratta di un dato di rilievo per il colosso che conferma il trend consolidato del mobile come principale chiave di accesso a servizi online, assunto che è alla base di molte scelte del colosso, non ultima quella di penalizzare, nel search da mobile appunto, siti web e pagine con compatibili con la visualizzazione da mobile. E’ il Mobilegeddon, come lo hanno definito gli esperti, che detterà necessariamente le nuove regole di presenza e business online.
Questo “sorpasso” rafforza, e a suo modo giustifica, anche l’annuncio di nuove forme di pubblicità fortemente visuali per mobile che il colosso ha fatto sempre ieri in occasione dell’evento. Google mette a disposizione un nuovo set di tool pubblicitari che include pubblicità specializzata per il comparto auto, hotel e mutui per la casa. “Sono tutte pensate per aiutare i marketer a rispondere alle necessità e motivazioni degli utenti nel momento in cui conta di più” spiega Dischler.
L’automotive ad, ad esempio, permette di pubblicare immagini sulle vetture, insieme ad altre informazioni di potenziale interesse per gli acquirenti. I risultati delle ricerche con le nuove pubblicità mostreranno un carosello di foto che gli utenti potranno sfogliare per vedere maggiori dettagli. Funzionalità simili sono previste anche per la pubblicità del comparto alberghi e hotel: i risultati delle ricerche sulle strutture ricettive daranno informazioni sulle disponibilità, stelle e recensioni ma anche foto dettagliate dai partner Google.
Di pari passo verrà ampliato anche il servizio Google Compare, uno strumento che aiuta a effettuare comparazioni dei prezzi di polizze assicurative per le automobili, che includerà presto anche i mutui di casa.
Tante le novità in campo e tanta l’enfasi che Google sta ponendo sul mobile in un momento in cui il colosso è nel mirino di molti stati e molte organizzazioni che l’accusano di abuso di posizione dominante proprio nel mondo del search online.
Via Tech Economy
C’era una volta il vinile, impiegato per decenni come unico supporto per l’ascolto dei dischi. Venne poi l’epoca dell’audiocassetta, che ha consentito a chiunque di prendere confidenza con il concetto di compilation e playlist personalizzate. Un approccio alla creazione e alla fruizione della musica evoluto ulteriormente con l’introduzione del CD prima e dei formati digitali successivamente, in particolare con la compressione offerta dall’MP3. L’ultima (almeno per il momento) innovazione che ha interessato il mercato discografico è rappresentata dalle piattaforme di streaming: la formula dell’acquisto è rimpiazzata da quella del noleggio in abbonamento e gli utenti possono accedere in modo istantaneo ad un catalogo ampio, smisurato, composto da decine di milioni di brani.
Streaming: nuovo modello, nuova musica La grande novità consta nel fatto che non si possiede la musica né in forma “solida” (CD, vinile, cassetta), né in forma digitale (sotto le sembianze di un file): quel che si possiede è semplicemente il diritto di accesso e fruizione al contenuto. La canzone può essere organizzata in playlist, eventualmente anche scaricata in locale, ma l’accesso alla stessa sarà sempre e comunque vincolato ad una durata. La cui scadenza è fissata con il termine del contratto di abbonamento siglato.
Il diritto di accesso si sostituisce al diritto di proprietà (sebbene quest’ultimo fosse in discussione già prima dell’arrivo dello streaming). Il primo nome a portare avanti con forza l’idea dell’abbonamento fu Napster, ma i tempi non erano ancora maturi e il nome che rese celebre la pirateria online dovette alzare bandiera bianca. Molte altre proposte ci hanno provato in seguito, cercando formule che sono state plasmate nel tempo fino alle odierne proposte con cui l’industria spera di riconquistare il mercato.
La formula dello streaming, infatti, piace tanto agli utenti (che a modico costo possono accedere a tutta la musica che vogliono, quanto alle grandi etichette, che in qualche modo riprendono in mano la situazione dopo aver passato anni alla ricerca di uno sbocco per uscire dalla crisi. E l’incedere delle soluzioni e della concorrenza spinge peraltro verso il basso i costi, stimolando l’esplosione del settore. Il mobile fa il resto, mettendo la musica nelle mani degli utenti ovunque vi sia una connessione.
Musica in streaming: quanto costa? I prezzi per l’accesso alle funzionalità premium offerte dai servizi di streaming musicale sono piuttosto allineati: 9,99 euro al mese nella maggior parte dei casi. Fanno eccezione allo standard la formula Elite di Deezer (14,99 euro al mese per dodici mesi) e quella a qualità elevata di TIDAL (20 dollari). Google Play Music, invece, offre ancora oggi l’accesso al catalogo di Unlimited a 7,99 euro per chi al lancio italiano nel 2013 ha scelto di abbonarsi fin da subito, garantendo così un risparmio non indifferente sul lungo periodo.
Molto o poco? Il prezzo è un fattore estremamente soggettivo, da valutarsi soprattutto con il tipo di rapporto che si ha con la musica. Occorre considerare in ogni caso come il costo possa essere generalmente molto limitato in virtù della possibilità di gestire playlist proprie, scegliendo in un bacino infinito di possibilità e potendo portare appresso la propria musica tanto in casa, quanto sullo smartphone, quanto durante l’allenamento, quanto ancora nei momenti di relax: ogni singolo brano è disponibile sempre e comunque, aprendo opportunità mai sperimentate fino ad ora. L’era del CD è lontana: ognuno può attingere dagli album in commercio per costruire compilation personalizzate, modificabili, condivisibili. E la componente social aumenta le possibilità di scoperta di nuova musica.
Molto o poco? Il giudizio sta alla scelta di ognuno, ma lo streaming sembra ormai imporsi come nuova grande opportunità per tutti coloro i quali vogliono avere una colonna sonora in grado di sottolineare ogni momento, ogni emozione ed ogni situazione della propria quotidianità.
via Webnews
Attualmente molti editori e molti quotidiani pubblicano i link dei propri contenuti su Facebook, che è diventato un’importante fonte di traffico. L’apertura dei link tramite un dispositivo mobile può essere però lenta e particolarmente frustrante dato che si arriva spesso a dover attendere fino ad 8 secondi: l’iniziativa di Facebook, nominata “Instant Article”, ha esattamente lo scopo di abbattere questi tempi di attesa. La società di Zuckerberg prevede di iniziare l’hosting di news e video da BuzzFeed, The New York Times, National Geographic e altri già a partire da questo mese, ma se la proposta ha attirato l’interesse di alcuni editori è anche vero che molti altri non sono convinti che legare così drasticamente Facebook ai propri contenuti sia una buona idea.
Per arrivare ai risultati sperati la società di Palo Alto sta corteggiando gli editori cambiando il tradizionale modello di revenue-sharing: quest’ultimi avranno la possibilità di mantenere le entrate derivanti dalle inserzioni che vendono sui siti di notizie ospitati da Facebook, ma il contenuto caricato più velocemente offrirebbe un incoraggiamento per gli utenti a passare maggior tempo sul social network, con non pochi benefici a lungo termine per l’azienda di Zuckerberg.
Non è chiaro però con quali modalità sarà veicolato l’advertising o se gli editori avranno la possibilità di posizionarlo e misurarlo a proprio piacimento. Inoltre alcuni di questi hanno espresso ulteriori preoccupazioni e perplessità perché vorrebbero continuare a monitorare l’user experience, così come vorrebbero continuare ad avere accesso ai dati sui loro lettori.
Gli accordi con i partner di lancio del servizio sono ancora in fase di definizione e la tempistica potrebbe cambiare, ma la società ha intavolato trattative anche con altri editori.
Via Tech Economy
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