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  mymarketing.it: perchè interagire è meglio!... di Admin
 
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Errare è umano, ma per incasinare davvero tutto è necessario un computer.

Arthur Bloch
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\\ : Storico (inverti l'ordine)
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 

A giugno 2016, secondo Statista, le App ufficialmente disponibili sui cinque principali "app store" erano ormai quasi 6 milioni:  2,2 milioni su Google Play, 2 milioni sull'Apple App Store, 700mila sul Windows Store, 600mila sull'Amazon Appstore, e oltre 230mila sul BlackBerry World.

Il mondo delle Mobile App è ormai un business mondiale da oltre 41 miliardi di dollari, di cui 9 generati dal mercato europeo (Fonte: App Annie 2016), che addirittura entro il 2020 secondo gli analisti raddoppierà, anche perché la base utenti di smartphone e tablet continua a crescere.

E in Italia? Anche qui i numeri sono impressionanti. Secondo l’ultimo report Haamble in Italia, nel 2016, il mercato delle app ha costituito il 2,5% del PIL ed entro il 2018 sarà la principale fonte di entrate nei settori digitali. Gli italiani hanno in media 30 app installate sullo smartphone, ma ne utilizzano 5 ogni giorno e 13 in un mese (Fonte: Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano).

Ed essendo oggi il Mobile ormai parte fondamentale di una strategia Marketing completa, rilasciare mobile app di qualità diventa quanto mai fondamentale per il successo di una strategia di CRM evoluto.

Secondo un sondaggio di Compuware, su oltre mille persone tra USA, UK, Francia, Germania, India e Giappone, l’85% degli utenti smartphone preferisce scaricare una app dedicata che utilizzare un sito mobile. Oltre la metà dei consumatori ritiene che una app sia più conveniente (55%), ma anche più veloce (48%) e più facile da navigare (40%).

Le app infatti non sono solo giochi e contenuti multimediali, ma anche "finestre" con cui il consumatore entra in contatto con aziende di molti settori:  banche, organizzatori di eventi, compagnie aeree, provider telefonici, retailer, canali televisivi o squadre sportive. E aiutano queste aziende a rafforzare la relazione con i consumatori e a capirli meglio in base alla misurazione delle interazioni e dei feedback diretti o indiretti.

Per misurare il successo di una app gli esperti si focalizzano sulla user experience e, in particolare su due elementi diversi e concomitanti: il coinvolgimento (engagement) e la app retention.

Secondo una ricerca di Localytics un consumatore su 4, dopo che ha scaricato una app, la usa una volta sola. Il motivo principale della disaffezione pressoché immediata è che l'app "non funziona bene", o "non funziona affatto". Solo il 16% usa l'app scaricata più di due volte perché funzionante. Insomma, malgrado realizzare app sia un business, c’è poca attenzione al risultato del servizio se è vero che più di 6 utenti su 10 hanno dichiarato di aver avuto problemi.

Un altro elemento che consente di capire il successo di una app è quante volte sia stata utilizzate negli ultimi 30 giorni. L'effetto down, ovviamente, sta a significare che qualcosa non va nel verso giusto.

Le ricerche più aggiornate dicono che il 12% delle app viene eliminata dall'utente dopo il secondo tentativo di utilizzo. Su 500 applicazioni analizzate dai ricercatori di AppFlyer su 20 milioni di dispositivi Android e iOs tra settembre e ottobre, il 30% è stata disinstallata (33% di app Android rispetto al 16% di app iOs). Secondo gli esperti questa disaffezione al sistema di Google si deve alla ridotta capacità di storage della maggior parte dei dispositivi Android che impatta sulle performance applicative. E in effetti nei Paesi emergenti, dove gli smartphone entry-level a bassa capacità di memoria dominano il mercato, si registrano i tassi più alti di disinstallazione.

Dato che per i programmatori (e i committenti) realizzare una app comporta tempo, denaro ed energie, occorre studiare bene come creare una app di successo, che piaccia e venga utilizzata da un gran numero di persone. Ci vuole abilità di programmazione ma anche una notevole capacità di marketing per ottenere valutazioni altissime sugli store.

Lo sapevate, ad esempio, che Apple da settembre 2016 ha limitato a 50 il numero di caratteri che può avere il nome di una app? O che le app che hanno una keyword nel titolo hanno il 10,3% di probabilità in più di indicizzarsi rispetto alle app che non ce l'hanno? E, sempre pensando al SEO, che è molto meglio essere tra i primi 5 risultati su parole chiave intermedie che ritrovarsi nelle top 100 delle parole chiave principali? (Fonte: dotcominfoway)


A parte SEO, posizionamenti e promozioni, il punto di partenza per una app di successo, scaricata, condivisa, consigliata dal passaparola è che sia utile, e che funzioni molto bene. Per realizzare questo obiettivo, prima di rilasciarla è necessario testare tutte le modalità di interazione e verificare che tutto funzioni con velocità ed efficienza su qualsiasi piattaforma e da qualunque tipo di dispositivo.

Non basta infatti immaginare una buona alberatura delle funzionalità e una distribuzione delle call to action strategica. Ecco sette punti di attenzione per evitare di mettere a prova la pazienza dell’utente e favorire la app retention:

1) Testing multidispositivo e multipiattaforma

La progettazione di una app deve assolutamente prevedere una fase accurata di test prima del rilascio. Questo per evitare il rischio che si blocchi in continuazione, si avvii lentamente o debba essere continuamente riavviata, impattando sulla user experience. È importante verificare che a ogni click corrisponda la giusta funzione ma anche che l'applicazione non sfrutti troppe risorse del dispositivo per evitare la corsa alla disinstallazione. Anche se c'è ancora poca cultura in merito, sono proprio i test più accurati a evitare cattive recensioni e passaparola negativi, contribuendo alla qualità e quindi al successo di una app. Non a caso, in Italia il 58% delle aziende ha una figura o addirittura un’area preposta al controllo qualità del software.

2) Login e registrazione semplificati

Accettare un login da un social network per consentire il download  permette agli utenti di bypassare lunghi e complessi form di registrazione. Non tutti, però, gradiscono condividere contenuti o cliccare mi piace su una pagina Facebook per poter accedere alle funzioni dell’applicazione. È sempre bene quindi offrire un’alternativa: non tutti gli sviluppatori però lo fanno, perchè tramite l’iscrizione via social network possono ottenere facilmente molte informazioni personali sugli utenti. Certo è che una procedura di registrazione troppo lunga e complessa allontana dal download dell'app ben il 68% dei mobile user.

3) Attenzione alla Privacy

Alcune app richiedono permessi come l’accesso alla rubrica o alle foto del telefono, senza alcuna motivazione legata al proprio funzionamento. Se l’utente ha la sensazione che lo sviluppatore stia violando la propria privacy, cancellerà immediatamente l’app senza pensarci due volte. 

4) Advertising ma con cautela

La pubblicità è necessaria per chi vuole realizzare app gratuite, tuttavia occorre saperla implementare nell’app senza infastidire gli utenti. I messaggi a schermo intero sono percepiti molto negativamente soprattutto se bisogna guardarli per vari secondi prima di poter accedere alle funzioni dell’applicazione. Per contro una pubblicità ben costruita, non invasiva e che non consumi troppe risorse del cellulare/tablet non è quasi mai un problema. Può essere d’aiuto considerare la percentuale di CTR (click trough rates) di un’app: quante persone effettivamente cliccano sul messaggio pubblicitario dopo averlo visualizzato? 

5) User experience, anzi interaction design

Non si pretende che un buon sviluppatore di app abbia anche eccellenti doti di grafica: tuttavia bisogna garantire uno standard minimo di layout e funzionalità. Anche in questo caso l’ottimizzazione della user interface passa attraverso dati ottenuti dagli utenti: quali font sono più leggibili? Le icone sono comprensibili? I colori risultano gradevoli? 

6) Non sottovalutare (e non sopravvalutare) le notifiche

Secondo gli esperti di Localytics le notifiche push possono aumentare il coinvolgimento anche dell'88% ma comunque secondo varie indagini la metà degli utenti di app pensa che siano noiose a prescindere. Anche se lo sviluppatore ha reso la loro disattivazione il più facile possibile, molte persone non hanno voglia di navigare fra le schermate del menu per trovare come eliminarle. Una buona prassi è rendere le notifiche utili per l’utente e testare a chi/quando è meglio mandare una notifica e riguardo a cosa.

Via Mobile4Innovation
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L’87% degli italiani che navigano in internet dichiara di fare acquisti online. Tuttavia il ruolo del negozio fisico rimane decisivo. Ciò avviene soprattutto nel comparto degli alimentari freschi, dove il 38% degli italiani afferma che le visite “in store” risultano indispensabili per la formulazione della decisione di acquisto. I dati emergono dalla Global survey di Nielsen Connected Commerce effettuata su un campione di 30.000 individui in 63 Paesi, tra i quali l’Italia.

Consumatori informati

“L’ecommerce – ha dichiarato l’amministratore delegato di Nielsen Italia Giovanni Fantasia – sta ridisegnando il concetto stesso di fare acquisti e le sue declinazioni. Occorre inserire l’acquisto in un più ampio processo all’interno del quale sono rintracciabili esperienze valoriali differenti. Ci riferiamo soprattutto all’esigenza dei consumatori sempre più consolidata di richiedere un maggior numero di informazioni relativamente a ciò che devono acquistare rispetto al passato. Ci troviamo davanti – ha sottolineato Fantasia – alla sfida di dovere considerare che i confini tra digitale e fisico risultino sfuocati. Per esempio, si passa dalle recensioni online del prodotto, alla lettura di volantini, al passaparola e, soprattutto, a quanto si possa reperire all’interno dello store fisico dal personale addetto alla vendita. Come si vede, si tratta di strumenti a cavallo tra il fisico e il virtuale. Come emerge dalla ricerca, l’obiettivo che si pone attualmente la grande distribuzione deve essere quello di favorire l’engagement e la soddisfazione dello shopper attraverso molteplici touchpoint durante il percorso d’acquisto. Solo in questo modo – ha concluso l’a.d. di Nielsen Italia – si può sostenere e corroborare la propensione al consumo del cliente, che deve essere sempre più accompagnato nel “sentiero” che porta al prodotto”.

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Sotto esame i prodotti più acquistati

All’interno della survey, si prendono innanzitutto in considerazione quelli che sono i prodotti maggiormente acquistati online. Spiccano tra questi le categorie dei beni durevoli o di svago: i viaggi (acquistati via web dal 47% degli italiani), insieme a libri e supporti musicali (47%). Seguono gli articoli di moda/abbigliamento/accessori (40%), biglietti per eventi come concerti/sport/mostre (35%), elettronica di consumo (34%) e informatica (28%).

In crescita la richiesta di prodotti di bellezza

Per quanto riguarda la tipologia dei prodotti di consumo, è da rilevare il trend positivo dei prodotti di bellezza e della cura della persona, acquistati in rete dal 28% degli intervistati, in linea con quanto registrato in Spagna e Francia (27%), anche se al di sotto della media UE (33%).

Rimangono bassi i dati relativi ai prodotti freschi

Rimane ancora inferiore la quota di coloro che si avvicinano online agli alimentari freschi (frutta, verdura, carne) che vengono acquistati sul web solo dal 6% della popolazione. Vino e bevande alcoliche fanno invece registrare dati superiori anche se di poco (11%) analogamente ai prodotti alimentari confezionati (12%). Anche per quanto riguarda il settore della ristorazione (pasti a domicilio), emerge che gli italiani sono ancora cauti nell’utilizzo del canale virtuale (7% vs media UE pari al 19%).

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Comunicazione

Se queste sono le dinamiche che stanno influenzando il mercato dell’online in Italia, risulta nello stesso tempo interessante prendere in esame le strategie di comunicazione che possano favorirne lo sviluppo.

Per ciò che concerne i prodotti di largo consumo, la garanzia di rimborso nel caso di consegne non corrispondenti all’ordine risulta decisiva per il 36% degli italiani, mentre il 32% sottolinea l’importanza del servizio di sostituzione in giornata. Il 29% ritiene essenziale la pianificazione precisa delle consegne.

Garanzie per i prodotti freschi

Dal punto di vista particolare dei prodotti alimentari freschi, il 32% del campione richiede la garanzia di rimborso abbinata al rimpiazzo gratuito del prodotto alla spesa successiva, nel caso in cui il medesimo non soddisfi le aspettative del consumatore, mentre il 30% è orientato al solo rimborso. Le preoccupazioni sulla qualità e freschezza dei cibi si traducono in una particolare attenzione alle informazioni/descrizioni dettagliate riportate dalle etichette: queste costituiscono un ulteriore driver che può aiutare l’acquisto online per il 27% dei rispondenti, e il 25% evidenzia l’importanza di conoscere per quanto tempo saranno freschi i vari prodotti dopo la consegna.

La tecnologia in aiuto del consumatore

L’ecommerce, d’altra parte, è solo un aspetto dello shopping online. Parallelamente, vengono richieste esperienze digitali rese disponibili dal retailer. In particolare, dallo studio emerge che il 24% degli italiani utilizzi casse self service all’interno dei supermercati, il 13% scanner per evitare le code, l’11% ordini i prodotti online con consegna a domicilio, il 10% ricorra a buoni sconto/coupon digitali.

Questi dati dimostrano che la tecnologia utilizzata dal distributore può costituire uno strumento di avvicinamento dei consumatori al mondo virtuale. Tanto è vero che il 69% di questi dichiara che utilizzerebbe il QR code dal cellulare qualora si rendesse disponibile tale modalità di accesso alle informazioni sui prodotti, il 68% utilizzerebbe scaffali virtuali per ordinare i prodotti tramite smartphone, il 66% scaricherebbe l’app dello store per ricevere offerte all’interno del negozio.

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A volte ritornano

La survey di Nielsen non manca di verificare se dopo un acquisto online i consumatori rimangano soddisfatti e tornerebbero a comprare via web. Ciò si verifica nel 71% dei casi per gli acquisti di viaggi in rete, in ragione del 60% per i biglietti di eventi, e nella misura del 48% per libri/musica. Per ciò che concerne le categorie della moda e dell’arredo/mobili non si può ripetere la stessa cosa. Infatti entrambe fanno registrare una quota del 41% di consumatori che dichiara di volere tornare nello store fisico.

Le fonti di informazione per Nielsen

Per concludere, lo studio Nielsen ha analizzato quali siano le fonti di informazione più efficaci nell’influenzare la decisione di acquisto dei consumatori italiani: i touchpoint tradizionali e in particolare le visite ai negozi fisici risultano fondamentali per tutte le categorie merceologiche, ma sono l’influencer principale quando si tratta di acquistare beni di largo consumo.

Gli alimenti freschi e i prodotti di bellezza e personal care fanno registrare rispettivamente il 38% e 31% degli shopper online che dichiarano di recarsi anche nello store fisico per acquisire informazioni aggiuntive. Lo stesso dato viene rilevato anche per il settore moda e per l’elettronica di consumo. Ulteriori touchpoint, o fonti informative, che vengono utilizzate per confortare l’acquisto virtuale, sono per gli alimentari freschi i volantini delle associazioni (21%) e il passaparola di conoscenti (18%), mentre per i prodotti di bellezza e personal care i suggerimenti del personale di vendita (20%) e il passaparola (19%). I siti web del negozio vengono consultati dal 28% degli shopper di prodotti di moda, che prendono come punto di paragone anche i siti dei brand (23%).

Il 34% dei consumatori, si legge ancora nella survey, visita il sito web del negozio se è interessato all’elettronica di consumo, il 31% il sito web della marca. Parallelamente, nell’acquisto di questa tipologia di beni vengono utilizzate in ragione del 28% le recensioni trovate online, del 25% i volantini e il passaparola, del 18% i social media. Quest’ultimo valore risulta doppio rispetto allo stesso registrato in Francia e Gran Bretagna (entrambe al 9%).

Via DailyOnline
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Di Max Da Via' (del 25/01/2017 @ 07:33:26, in Mobile, linkato 2746 volte)

Il mondo delle applicazioni mediche e sanitarie disponibili per smartphone e tablet è in continuo fermento. Un recente studio di Research2guidance ha stimato che sono cresciute di circa 100.000 unità solo nell’ultimo anno, raggiungendo la cifra record di 259.000. E’ cresciuto parallelamente il numero di sviluppatori (aumentati rispetto allo scorso anno di 13.000 nuovi protagonisti unità attestandosi a 58.000 in tutto il mondo) che evidentemente si attende molto da questo mercato. Che però stenta a decollare, o quantomeno stenta ad essere accettato seriamente dagli addetti ai lavori (medici, operatori sanitari, decision maker) e, per la prima volta, anche parzialmente dagli utenti (cittadini e pazienti).

Alcune spiegazioni sembra fornirle lo stesso studio, quando evidenzia come il numero più elevato di applicazioni non si traduce in una maggiore uso delle stesse. Il numero di download nel 2016 si prevede in crescita del 7% rispetto al 2015, ben lontano dalla crescita del 35% osservata nel 2015 rispetto al 2014 o a quella del 100% osservata nel corso degli ultimi 3 anni. Questo dato, pur essendo i linea con altre tipologie di applicazioni, riflette evidentemente un effetto “saturazione” del mercato. L’indagine ha inoltre evidenziato che solo il 28% delle aziende sviluppatrici delle app mediche opera nell’area medico/sanitaria, mentre il 51% di esse è rappresentata da industrie hi-tech e da sviluppatori senza alcuna esperienza pregressa in quest’area.

Il target preferito da parte degli sviluppatori è quello dei cittadini/pazienti. Medici, ospedali e aziende farmaceutiche suscitano meno interesse rispetto allo scorso anno, anche in conseguenza del fatto che una accettazione di tali strumenti da parte di questi attori è ancora complicata, soprattutto alla luce di una carente validazione scientifica e dimostrazione di efficacia. Lo studio getta un’ombra anche sulle applicazioni che hanno come obiettivo la modifica degli stili di vita. Sebbene questo sia ancora uno degli obiettivi a cui le aziende sviluppatrici puntano maggiormente, la loro percezione sul reale impatto di tali applicazioni è cambiata nel corso degli ultimi anni, anche in considerazione del fatto che molti cittadini, una volta installate sui propri dispositivi, smettono presto di usarle.

Al di là delle ragioni illustrate nello studio di Research2guidance, le ragioni per le quali il mercato delle app sanitarie stenta a decollare sono più profonde e riguardano tre specifici aspetti.


Il primo è quello della validità e della attendibilità delle app sanitarie e delle informazioni in esse contenute, soprattutto quelle che possono mettere a rischio la salute dei cittadini/pazienti. Il panorama è molto vario perché spesso le informazioni sono scarse e i controlli effettuati deludenti. Ad esempio, in uno studio condotto di recente sulle app disponibili sul sito del NHS inglese riguardanti la gestione dell’ansia e della depressione, solo 4 contenevano dati che ne attestavano l’efficacia e solo 2 utilizzavano indicatori validati. Anche la tecnologia indossabile non è esente dal problema, come testimonia la recente notizia di una class action intentata negli Stati Uniti nei confronti di Fitbit in seguito alla pubblicazione dei risultati di uno studio scientifico condotto da una nota Università americana che dimostra che due dei fitness tracker dell’azienda americana hanno fallito nel misurare i battiti cardiaci durante sedute di esercizio fisico moderato (con scostamenti anche di 20 battiti al minuto) nel confronto con una misurazione effettuata da un elettrocardiografo.

Il secondo è quello della mancanza nel campo della tecnologia della cultura della Evidence Based Medicine. Non basta infatti che le app (e i dati in esse raccolti e contenuti) siano attendibili, ma occorre dimostrare che il loro utilizzo si traduca in un vantaggio documentabile per i pazienti, medici, ospedali in termini di migliore prevenzione o gestione di malattie, di migliore qualità della vita o di riduzione dei costi. Mancano in questo contesto studi di efficacia sufficientemente affidabili che dimostrino su outcome clinici (o economici) la maggiore efficacia di questi strumenti rispetto a quelli tradizionali. Anche qui la letteratura è piuttosto eterogenea. Esistono studi che dimostrano che le app mediche/sanitarie possono favorire la riabilitazione e ridurre il numero di ricoveri ospedalieri nei pazienti sottoposti agli interventi di cardiochirurgia più semplici, aumentare l’adesione al trattamento farmacologico nei pazienti, e modificare gli stili di vita degli individui con implicazioni sulla prevenzione e gestione di malattie croniche come il diabete e l’ipertensione. Altri studi vanno invece in direzione opposta. Per esempio in un recente studio mirato a stabilire se un app (usata insieme a un fitness tracker) poteva essere d’aiuto a diminuire il peso in soggetti obesi, i dati ottenuti non sono stati migliori rispetto a un gruppo di controllo. Tuttavia gli studi condotti (sia quelli favorevoli, sia quelli sfavorevoli alle app e alla tecnologia indossabile) sono spesso limitati dal punto di vista della numerosità (coinvolgono spesso poche decine di individui) e da quello metodologico (poche sono le sperimentazioni cliniche controllate randomizzate che prevedono, oltre al braccio di intervento, un braccio di controllo), così come pure pare limitato il periodo di osservazione (in genere limitato a pochi mesi).

Il terzo aspetto riguarda la garanzia della privacy che dovrebbe accompagnare l’uso delle app sanitarie. Purtroppo il livello di sicurezza della privacy è piuttosto scarso. Lo aveva già dimostrato il Garante della Privacy italiano che nel settembre del 2014 aveva scoperto che il 50% delle applicazioni sanitarie non rispetta la normativa italiana sulla privacy e non mette gli utenti nelle condizioni di esprimere un consenso libero e informato al trattamento dei propri dati sanitari. Lo dimostra anche un recente studio condotto dall’Imperial College di Londra sulle applicazioni disponibili sul sito del NHS inglese. I ricercatori, analizzando le 79 app presenti nell’archivio, hanno scoperto che nessuna di esse codifica opportunamente sullo smartphone i dati relativi alla salute e che solo i due terzi di quelle che inviano dati personali attraverso Internet lo fanno usando sistemi di codifica cifrati. A ciò occorre aggiungere che solo il 67% delle app è dotata di policy sulla privacy, mentre il 20% di quelle che trasmettono dati sensibili su Internet lo fanno in assenza di alcuna policy.

In conclusione, è vero che, come sostiene il Green Paper del 2014 dell’Unione Europea, la mhealth (e specificatamente il mondo delle app mediche/sanitarie), offre numerose opportunità nel campo della promozione della salute, della prevenzione e della gestione delle malattie (soprattutto quelle croniche) e nella riduzione dei costi dell’assistenza, ma per coglierle completamente e per evitare che le app per la salute rimangano solo un mercato sono necessarie maggiori responsabilità e competenze medico-scientifiche da parte delle aziende sviluppatrici, maggiori garanzie del rispetto della privacy dei dati degli utenti, un’immediata regolamentazione da parte delle istituzioni italiane che obblighi le aziende a farsi carico del processo di validazione e certificazione almeno delle app mediche/sanitarie che mettono a maggiore rischio la salute dei cittadini/pazienti, una maggiore cultura tra gli addetti ai lavori della Evidence Based Health Informatics (la Evidence Based Medicine applicata all’informatica medica) e, soprattutto, una maggiore disponibilità da parte di aziende sviluppatrici, istituzioni, partner industriali a destinare fondi per condurre un corretta ed estesa ricerca in questo ambito.

Via Agenda Digitale
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Di Max Da Via' (del 24/01/2017 @ 07:21:42, in Advertising, linkato 2405 volte)

Concentrazione, specificità dei formati e mobile. Sono questi gli elementi critici del mercato del digital advertising individuati da Marta Valsecchi, direttore Osservatori Internet Media e mobile strategy degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano in un articolo pubblicato su LinkedIn. L’anno scorso, infatti, il comparto pubblicitario online è sì cresciuto, ma a una sola cifra, al ribasso rispetto alle iniziali aspettative e con percentuali inferiori se confrontate al resto d’Europa e del mondo.

Secondo Valsecchi ciò è dovuto principalmente alla tv: eventi sportivi e un abbassamento dei prezzi degli spot tv hanno impattato negativamente sul digitale. Per tornare ai tre fattori al centro dell’articolo, la concentrazione “è sempre più stringente”. In Italia, infatti, Facebook e Google hanno in mano il 68% del mercato online a fronte di un calo registrato “dagli operatori associati a FCP-Assointernet”. Quindi Valsecchi ha affrontato il tema dei formati, suddivisi in cinque categorie: display, search, classified, email e native. Ognuna di queste presenta caratteristiche e dinamiche proprie, ma è la display a fare la parte del leone, assorbendo il 57% degli investimenti (36% banner e 21% video); al secondo posto il search rimane stabile al 32% mentre il classified completa il podio al 9% mentre email e native fanno numeri ancora molto piccoli.

Valsecchi conclude parlando del mobile, vero e proprio traino del segmento grazie a una performance in ascesa del 54%, ma la sua quota è ancora lontana dai valori di traffico: solo il 30% degli investimenti contro “un tempo medio speso sul canale decisamente superiore a quello su Pc”. Di questo tema si parlerà il prossimo 9 febbraio, in occasione del Convegno dell’Osservatorio Mobile B2c Strategy.

Via DailyOnline

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Google is going to let advertisers target YouTube ads based on people's search histories, giving brands a whole new perspective into the consumer mindset.

On Friday, Google announced updates to its YouTube offering for advertisers, including a promise of new measurement tools to help marketers understand their campaigns. But it was the introduction of search data into the targeting of YouTube video spots that most intrigued advertisers.

Brands could start to consider pushing video ads to YouTube viewers who recently searched for a retail product, travel destination or movie show time.


"There has been targeting on YouTube based on what videos people watch there," said one top advertising exec, speaking on condition of anonymity because of a close relationship with Google. "Now, for anyone logged in, their search history can be applied to targeting on YouTube. There's some interesting possibilities there, and it greatly expands the audience advertisers could reach."

Google's search data is considered among the most powerful information for guiding advertising, but Google has kept it under tight wraps, careful when applying it toward ads outside the search experience.

Google faces extra scrutiny from regulators and privacy advocates when it comes to collecting consumer data and applying it to its ad products.

For years, the company kept a wall between search and other ad products, but increased competition from Facebook has made that commitment impractical.

Google declined to comment for this story, but did post a blog statement on Friday.

Google users can turn off ads personalization in their settings.

"As more viewership on YouTube shifts to mobile, we're making it easier for advertisers to deliver more relevant, useful ads across screens," Diya Jolly, YouTube's director of product management, said in the blog post. "Now, information from activity associated with users' Google accounts (such as demographic information and past searches) may be used to influence the ads those users see on YouTube."

Mr. Jolly described how someone searching for a winter coat could then see an ad in YouTube from a retailer.

Google said that more than 50% of YouTube video is viewed on mobile devices.

Google also revealed that it was working on a "cloud-based measurement solution" over the next year, to give advertisers more information into how their campaigns perform but balancing that with consumer privacy.

The measurement development appears to be a nod to the advertising uproar over the past few months, in which brands have begun to question the accuracy of the numbers coming out of the platforms like YouTube and Facebook.

"With this new solution, advertisers will have access to more detailed insights from their YouTube campaigns across devices, so they can better understand the impact of their campaigns on their highest-value customers," Mr. Jolly's blog post said. "For instance, a car manufacturer could get a rich understanding of how YouTube ads across devices influenced a specific audience (like previous SUV buyers)."

via Advertising Age
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Di Max Da Via' (del 21/01/2017 @ 07:16:58, in Retail, linkato 2353 volte)
“Shaping the Future of Retail for Consumer Industries” è uno dei più recenti report pubblicati dal World Economic Forum (in collaborazione con Accenture), visionabile e scaricabile qui gratuitamente.
Il prossimo decennio potrebbe essere l’età d’oro per i consumatori che hanno sempre più scelte e controllo sugli acquisti. Il retail si sta trasformando, la tecnologia abilita e spinge a nuove sfide nella relazione con il cliente, nei processi produttivi, si perdono le differenze tra distributore e fabbricante, si modificano i confini tra offline e online, si ridefiniscono modelli di business, si impone un ripensamento degli attuali sistemi di delivery.
Insomma, è un settore in grande rinnovamento, del quale il report offre insight per i prossimi 10 anni.
In particolare, il report analizza il futuro del retail attraverso le 8 tecnologie che avranno maggiore impatto nei prossimi anni e quali benefici e criticità porteranno:
1. Internet of Things (IoT)
2. Autonomous vehicles (AV)/ drones
3. Artificial intelligence (AI)/ machine learning
4. Robotics
5. Digital traceability
6. 3D printing
7. Augmented reality (AR)/ virtual reality (VR)
8. Blockchain
 
Figure 2: Eight disruptive technologies: Value chain applications and key benefits – Source: Accenture/World Economic Forum analysis
 
 
Figure 3. Current readiness levels of disruptive technologies and key enablers to reach full readiness
NOTE: White portion of Harvey ball indicates readiness
 

Via Startupbusiness
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Di Altri Autori (del 19/01/2017 @ 07:24:57, in Mobile, linkato 2170 volte)

È stato un 2016 d’oro quello vissuto dal mercato delle applicazioni mobile. A livello globale, infatti, l’anno scorso i consumatori hanno trascorso circa 900 miliardi di ore sulle applicazioni, 150 in più rispetto al 2015. A raccontare queste cifre impressionanti è il rapporto annuale di App Annie. La crescita è comune a tutti i Paesi ed è stata nell’ordine del 20% su base annuale. App Annie fotografa una mobile app economy in discreta salute: il tasso di utilizzo, che rileva per quanto tempo e quanto spesso i consumatori navigano una applicazione,  è un indicatore critico e i dati rilevati certificano il successo. Questo parametro talvolta è trascurato e si tende a pensare al comparto delle app guardando ai download, un’altra metrica chiave che va integrata e analizzata in relazione alla precedente.

Le app generano denaro per 127 miliardi di dollari

Nel 2016 i publisher hanno incassato 35 miliardi di dollari tra l’App Store e Google Play, per un incremento di circa il 40% sull’anno prima. Il giro d’affari delle app è stato di 127 miliardi di dollari, di cui 89 miliardi sono finiti nelle mani degli sviluppator – il 30% viene trattenuto da App Store e Google Play. La curva dell’App Store è stata positiva con valori in salita del 50%: su installazioni e vendite la parte del leone è stata fatta dalla Cina, un mercato sempre più fondamentale per la Mela. Sempre la Cina è stata responsabile dell’80% della crescita nelle installazioni di app su sistemi operativi equipaggiati con iOS.

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Oltre 90 miliardi di download

Complessivamente i download sono stati oltre 90 miliardi, 13 in più considerando l’App Store e Google Play. È stato quest’ultimo a fare da traino, specialmente nei mercati emergenti. Per gli smartphone Android, le tre categorie campioni per crescita sono state comunicazione, social e player video ed editori mentre il Paese leader per download sul sistema operativo è stato l’India, davanti per la prima volta agli Stati Uniti. Senza nessuna sorpresa, Facebook, WhatsApp, Messenger, Instagram e Snapchat sono state le app a maggiore crescita. Spotify, Line, Netflix, Tinder e HBO Now sono quelle che hanno assorbito la fetta più consistente di denaro.

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Tra le categorie il gaming è la più remunerativa

Al top per ricavi c’è sempre il gaming, che nel 2016 ha generato il 75% delle entrate di iOS e il 90% di quelle di Google. È interessante notare questa differenza: Big G sembra essere game-dipendente quando si parla della monetizzazione delle app. Su iOS solo la categoria ‘Giochi di ruolo’ ha prodotto la metà degli introiti nell’universo di riferimento. I giochi di maggior successo sono stati Pokemon Go, vicino per poco al miliardo di ricavi, e SuperMario Run, il cui modello di business è però ancora da rodare.

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Via DailyOnline
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Video, è stata questa la tendenza protagonista del mondo pubblicitario nel corso dell’ultimo anno. Eppure, stando a uno studio di eMarketer, in Italia il tasso di penetrazione di chi visualizza filmati online è il più basso dell’Europa occidentale, pari al 41,4%. Dati non troppo confortanti, che la società di ricerca dice essere legati a due principali fattori: il carattere rurale del nostro Paese da una parte; e la bassa velocità di connessione dall’altra. A livello euro-occidentale saranno circa 219 milioni i video viewers nel 2017 con una penetrazione del 68% mentre i Paesi più importanti a livello numerico sono Gran Bretagna e Germania.

I consumatori francesi, tedeschi, italiani e spagnoli, poi, mostrano ancora un grande interesse nei confronti della tv lineare, un freno nello sviluppo del segmento del digital video advertising. Nel 2016 la pubblicità video, stando agli ultimi dati resi noti dal Politecnico di Milano, in Italia ha raggiunto quota 500 milioni, un bel balzo in avanti del 38% rispetto all’anno prima, al 21% del totale investimenti. Dei 210 milioni aggiunti l’anno scorso, 140 sono andati al video. La crescita della spesa in quest’area è dettata da due tendenze: i social media e gli Over The Top, Facebook e YouTube in primis. Il contesto di fruizione è rappresentato sempre più dai dispositivi mobile, vero e proprio driver dell’erogazione di clip video.

emarketer video

La rilevanza del video nei piani degli operatori dell’industry è stata ulteriormente ribadita da una nuova operazione di mercato. Mediaset, infatti, ha annunciato settimana scorsa di essere entrata nel capitale di Studio71, multichannel network lanciato dal broadcaster tedesco ProSiebenSat.1 partecipato anche dalla francese TF1. Per Mediamond, la concessionaria pubblicitaria digitale del Biscione, si tratta di un tesoretto di circa 40 milioni di clip mensili, pronte per essere monetizzate.

Il commento di Andrea Lamperti

Con l’obiettivo di approfondire il tema, DailyNet ha intervistato Andrea Lamperti, direttore dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano.

Il problema non è il video, ma lo stato di internet

«A proposito dell’evidenza emersa dallo studio di eMarketer, vale a dire il basso tasso di penetrazione degli utenti che fruiscono video, ci tengo a precisare che il video, sia digitale sia tradizionale, riveste un ruolo centrale in Italia. I consumatori sono da sempre video-centrici. La tv ha svolto un importante ruolo sociale di aggregazione, che oggi riguarda anche il video online; ciò è ancor più valido per le fasce più giovani».

Quindi Lamperti ha sottolineato come il dato restituito da eMarketer «sia un valore che si rifà al totale della popolazione italiana nel suo complesso, non solo quella internet. Le due motivazioni di eMarketer, cioè il carattere rurale dell’Italia e la scarsa diffusione di internet nel Paese, sono reali, ma se prendiamo in considerazione il totale della popolazione online rilevata da Audiweb, circa 30 milioni di persone, il rapporto cambia e si alza attorno all’80%, un valore superiore a quello di altri Paesi». In sintesi, per Lamperti la fotografia scattata da eMarketer è figlia della scarsa diffusione di internet, non di una ridotta adozione del video. Che, anzi, piace e continua a evolversi.

Video, cresce la presenza online dei broadcaster

In merito, invece, allo sviluppo degli investimenti video, Lamperti ha evidenziato lo sforzo dei broadcaster. «Mediaset, Rai, Sky hanno cominciato da anni a rafforzare l’offerta di video on demand online, talvolta anche attraverso servizi ad abbonamento. A spingere questa tendenza sono la concorrenza estera, Netflix e Amazon Prime Video su tutti, e gli investimenti per la differenziazione degli introiti intrapresi dai broadcaster e dettati dalla migrazione dell’audience», ha spiegato. Per quanto riguarda la raccolta pubblicitaria i volumi sono ancora bassi. «È ancora presto – precisa Lamperti -. Tuttavia alcuni operatori hanno già una capacità e una proposta commerciale rilevanti anche sull’online. Le aspettative per questo segmento per l’anno appena iniziato sono positive».

Nuove soluzioni e formati

Quindi Lamperti ha affrontato il tema delle soluzioni video emergenti, come il live streaming e i filmati a 360 gradi, e le conseguenti opportunità per il marketing e la comunicazione. «Questi strumenti spesso sono utilizzati come effetto novità: non sempre però rimangono o mietono grandi successi. E soprattutto in ambito pubblicitario alcuni formati a grande impatto possono non essere performanti, seppur connotati da grande engagement. Insomma è difficile che convertano. In ogni caso sono tutte novità utili a generare innovazione, entusiasmo e interesse sui nuovi formati online».

Infine Lamperti ha segnalato le aspettative di monetizzazione in campo video non solo per attori tradizionali come Facebook e Google, ma anche per «piattaforme come Instagram, sempre di proprietà di Facebook, e altre minori». «E per 2017 – ha concluso -, ci aspettiamo grandi cose anche dai broadcaster».

Via DailyOnline
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Arriva la classifica The Most Innovative Companies stilata dalla Boston Consulting Group (BCG), multinazionale specializzata in consulenze di management. In cima alla classifica, per 12 edizioni consecutive, Apple inseguita da Google che negli ultimi tre anni si è sempre posizionata al secondo posto.

Un vero e proprio testa e testa, che con il recente ingresso nel mondo della telefonia di BigG potrebbe presto invertirsi. Secondo BCG dopo i due colossi c’è spazio anche per Tesla, la casa automobilistica dietro le popolari (ma lussuose) elettriche, seguita poi da Microsoft, in posizione stabile, e poi da Amazon, che avanza di quattro posti.

Si deve infatti arrivare all’undicesima posizione occupata dalla Bayern e poi scendere alla quattordicesima di BMW per trovare le prime due realtà del Vecchio Continente. La lista arriva poi fino alla 50a posizione, passando per realtà più digitali, come Expedia, Airbnb e Uber, e quelle più convenzionali, come Nike, Honda o BASF.

Presente anche Xiaomi, che però si ferma alla 35a posizione. Gli autori dello studio spiegano come le aziende entrate nella classifica si sono dimostrate “capaci di scandagliare, captare ed elaborare con efficienza e i segnali innovativi che giungono da mondi diversi e veloci nel portarli al proprio interno”.

L’evolversi della classifica denota invece come il margine di innovazione e rinnovamento sui settori più hardware, in senso lato, sia sempre più sottile. Non a caso le prime posizioni, salvo rare eccezioni, sono dominate da società fornitrici di servizi.

Via corrierecomunicazioni.it
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Di Max Da Via' (del 16/01/2017 @ 07:24:35, in Digitale, linkato 2226 volte)

Dai nuovi dati dell’Audiweb Database*, il nastro di pianificazione con i dati dell’audience totale di internet (total digital audience), risulta che nel mese di novembre 2016 la total digital audience ha raggiunto 30,1 milioni di utenti, il 54,7% degli italiani dai due anni in su, online complessivamente per 54 ore e 51 minuti per persona.

Nel giorno medio erano online 23,1 milioni di italiani, collegati tramite i device rilevati – PC e mobile (smartphone e tablet al netto delle sovrapposizioni) per 2 ore e 23 minuti per persona.
Hanno navigato da mobile 20,1 milioni di italiani tra i 18 e i 74 anni, in media per 2 ore e 5 minuti per persona.

audiweb1

A novembre era online nel giorno medio, sia da pc che da mobile (smartphone e tablet), circa il 60% della popolazione tra i 18 e i 54 anni e il 31,5% della fascia più matura tra i 54 e i 74 anni.

Dai dati sulla provenienza geografica degli utenti online il 45% degli italiani dell’area Nord-Ovest (6 milioni), il 42,6% dall’area Nord Est (3,7 milioni), il 41,2% dal Centro (3,7 milioni) e il 37,9% dall’area Sud e Isole (8 milioni).

audiweb2

Per quanto riguarda la distribuzione del tempo trascorso online, il 77,2% è generato dalla navigazione da mobile (smartphone e tablet), con quote maggiori raggiunte in generale dalle donne, con l’83,5% del tempo complessivo trascorso online da mobile, e dai giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno dedicato l’84,1% del tempo online alla navigazione mobile.

audiweb3

Più in dettaglio, dai dati sul tempo speso per persona, risulta che nel giorno medio hanno trascorso più tempo online i 25-34enni, con 2 ore e 41 minuti in media al giorno, seguiti dalla fascia più matura dei 35-54enni (quasi 2 ore e mezza).

Con 2 ore e 17 minuti online nel giorno medio, i 18-24enni continuano a preferire la fruizione di internet da mobile.

audiweb4

Per quanto riguarda, infine, le principali categorie di siti visitati nel mesi di novembre, il 93% degli utenti online ha navigato tra i siti e/o applicazioni della categoria “Search” (28 milioni di utenti), quasi il 90% tra i portali generalisti (“General Interest Portals & Communities”, con 27 milioni di utenti) e oltre l’80% degli utenti online ha visitato almeno un sito e/o applicazione tra le categorie “Internet tools / web services”, dedicati ai servizi e tool online (86%), “Member Communities” (85,6%) e “Video/Movies” (83%). Raggiungono valori interessanti anche le categorie “Mass Merchandising” con circa il 75% degli utenti online (22,6 milioni) e “Current Event & Global News” con il 65,4% degli utenti (19,7 milioni). 

audiweb5

via Spot and Web
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