Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Si chiama Deloitte 2016 Technology Fast 500™ ed è la classifica delle aziende tecnologiche appartenenti a più di venti Paesi dell’area EMEA che hanno registrato il più alto tasso di crescita dei ricavi negli ultimi 4 anni.
È il settore software il più rappresentato nella classifica di quest’anno, che vede la presenza di aziende appartenenti a 28 Paesi europei e una crescita media dei fatturati pari a 967 punti percentuali. Le società con la percentuale di crescita cumulativa più alta appartengono ai settori Hardware (962%), Media (644%) e Clean Technology (471%).
La Top 10
La Francia – per il sesto anno consecutivo – è il Paese con più aziende nelle 500 classificate (ben 94), seguito da Regno Unito (70), Olanda (54), Norvegia (50), Svezia (50), Israele (27), Finlandia (23), Germania (23), Belgio (22) e Turchia (21).
L’azienda “vincitrice” è la svedese Fingerprint Cards, società high-tech quotata in borsa, attiva a livello globale, che sviluppa, produce e commercializza tecnologie biometriche che consentono, attraverso l’analisi e la verifica della congruenza delle impronte digitali di un individuo, di verificare l’identità di una persona. Fingerprint produce il proprio hardware esternamente e si rivolge principalmente al mercato smartphone/tablet e altri mercati verticali, come smart card, PC, IoT, in cui i prodotti della società possono essere integrati.
Quali le aziende italiane?
Fonte: Deloitte
L’Italia è rappresentata da 10 aziende: Beintoo, Marketing Arena, Caffeina, Afinna One, Filoblu, Motork Italia, Sardex, Eis, 01s e Crestoptics. La prima azienda italia, al 45esimo posto della classifica, è Beintoo, Mobile Data Company nata nel 2011 che ha sviluppato una Data Management Platform Mobile proprietaria, utile a costruire campagne di Mobile Advertising. Seguono Marketing Area, un’agenzia che si occupa di digital marketing, e Caffeina, Digital Creative Agency specializzata in progetti di Digital Marketing.
Siamo ancora lontani dalla testa (12º posto in quanto a presenza di aziende in classifica per Paese) ma sicuramente il trend è positivo. Basti pensare che tra il 2005 e il 2009 nemmeno un’azienda italiana era presente tra le 500.
“Le dieci aziende italiane che rientrano nei Fast500 sono la conferma che il nostro Paese è in grado di competere in un contesto internazionale caratterizzato da una forte tendenza a innovare – ha affermato Alberto Donato, Partner Deloitte e responsabile italiano Technology Media & Telecommunication (TMT).
Via Tech Economy
Malgrado nell’ultimo anno sia cresciuto l’utilizzo della rete (+6%) restiamo ancora molto indietro rispetto alla media europea. L’indice di penetrazione di internet a livello nazionale raggiunge appena il 78% se confrontato al 94% raggiunto nei maggiori Paesi europei (Regno Unito, Germania, Francia e Spagna). L’ultimo Rapporto European Digital Behaviour Study 2016, realizzato da Contactlab, descrive i risultati di una ricerca condotta attraverso l’analisi comparativa tra Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Corea, Shanghai, e le aree metropolitane di Tokyo, New York, Mosca e San Pietroburgo con un focus speciale in relazione al nostro Paese, per indagare i maggiori trend sul comportamento digitaledella popolazione internet europea ed Extra-europea.
L’USO DELLA RETE IN ITALIA
Nel 2016 il numero di individui che regolarmente ha utilizzato la rete, almeno una volta a settimana, ha raggiunto quota 30,5 milioni di persone con una penetrazione del 78% per la popolazione italiana compresa nella fascia d’età tra i 16 e i 65 anni. Nel corso degli ultimi dieci anni gli utenti di internet sono passati da meno della metà a quasi tre quarti della popolazione: la crescita complessiva dell’utenza del web nel periodo compreso tra il 2007 e il 2016 è stata pari a +28,4%. Questo dato è confermato anche dal 13° Rapporto Censis-Ucsi sulla Comunicazione, presentato lo scorso settembre in cui si registra un nuovo record nell’utilizzo di internet da parte degli italiani. La penetrazione di internet è infatti aumentata di ben 2,8 punti percentuali nell’ultimo anno e l’utenza della rete ha toccato un nuovo record, attestandosi alla quota di 73,7% di italiani e nel caso degli under 30 al 95,9%. L’adozione di strumenti mobile come smartphone e tablet per la navigazione aumenta costantemente e ad una velocità doppia (+13%) rispetto all’uso della rete stessa che registra una crescita del +6%. Diminuiscono gli utenti dei telefoni cellulari basic, ovvero in grado solo di telefonare e inviare sms (-5,1% nell’ultimo anno), mentre continua la crescita impetuosa degli smartphone, utilizzati dal 64,8% degli italiani e nel caso dei giovani tra i 14 e 29 anni arriva alla quota dell’89,4%.
Sebbene si segnali un aumento nelle attività di acquisto online e servizi bancari e finanziari home banking l’uso del web, nel nostro Paese, è nella maggior parte dei casi ancora in modalità basic il nostro indice di interattività (elaborato da ContactLab) raggiunge infatti solo la quota di 39/100 rispetto al 51% raggiunto dal Regno Unito e il 49% della Spagna.
Fonte: ContactLab, 2016
ACQUISTI E SERVIZI ONLINE
Secondo il 13° Rapporto Censis nel nostro Paese abbiamo assistito ad un boom dei consumi tecnologici anche negli anni della crisi, con una crescita del 190%. L’andamento della spesa per consumi delle famiglie conferma il trend anticiclico dei consumi tecnologici in un decennio caratterizzato da una lunga e profonda recessione: tra il 2007 (anno prima dell’inizio della crisi) e il 2015, mentre i consumi generali flettevano complessivamente del 5,7% in termini reali, decollava la spesa per l’acquisto di apparecchiature telefoniche che raggiungeva la quota di +191,6% per un valore di 5,9 miliardi di euro, e computer (+41,4%).
I cittadini italiani hanno evitato di spendere su tutto, ma non sui media connessi in rete, perché grazie ad essi hanno aumentato il loro potere individuale di disintermediazione. Usare internet per informarsi, prenotare viaggi e vacanze, acquistare beni e servizi, guardare film o seguire partite di calcio, entrare in contatto con le amministrazioni pubbliche o svolgere operazioni bancarie, ha significato spendere meno soldi o anche solo sprecare meno tempo e quindi in ultima analisi guadagnare qualcosa. L’indagine europea di Contactlab ha evidenziato che nel nostro Paese oltre il 47% ovvero 14,3 milioni di utenti hanno effettuato acquisti online spendendo all’incirca 1.600 euro l’anno. Malgrado la crescita del 30% rispetto agli anni passati ancora non è stato raggiunto appieno il potenziale del mercato. Rispetto all’anno scorso oltre un milione e 600 mila persone hanno effettuato acquisti nel settore della moda e di beni e servizi raggiungendo la quota della maggioranza degli utenti online (+51%); nello stesso periodo l’acquisto dei biglietti online per il trasporto è stato utilizzato da oltre 6 milioni e 300 mila utenti. Paypal (57%) e le carte di credito prepagate (52%) restano la modalità di pagamento preferito per gli acquisti online.
Fonte: Contactlab 2016
QUALI SOCIAL MEDIA? QUALE IL DIVARIO GENERAZIONALE?
Nell’ultimo anno il coinvolgimento degli utenti in termini non solo di marketing ma di brand identity è stato effettuato da parte delle aziende nell’80% dei casi attraverso le diverse piattaforme di social media. Facebook rimane il social network più popolare usato dal 56,2% degli italiani, raggiungendo la quota di 89,4% di utenza tra i giovani under 30 e il 72,8% tra le persone più istruite, diplomate e laureate. L’utenza di YouTube è cresciuta dal 38,7% del 2013 al 46,8% del 2016 raggiungendo oltre il 73% tra i giovani. Instagram ha raggiunto nell’ultimo anno il 16,8% degli utenti (e il 39,6% dei giovani). E’ soprattutto l’applicazione WhatsApp che ha conosciuto un vero e proprio boom: oggi è usato dal 61,3% degli italiani e l’89,4% dei giovani.
Nel nostro Paese tra i giovani under 30 la quota di utenti della rete arriva al 95,9%, mentre è ferma al 31,3% tra gli over 65 anni; l’89,4% dei primi utilizza telefoni smartphone, mentre lo fa solo il 16,2% degli over 65. L’89,3% dei giovani ha un account Facebook rispetto ad appena il 16,3% degli anziani. Il 73,9% dei giovani usa YouTube, rispetto all’11,2% degli ultrasessantacinquenni. Oltre la metà dei giovani (il 54,7%) consulta siti web di informazione, rispetto ad un anziano su dieci (il 13,8%). Il 37,3% dei primi ascolta la radio attraverso il telefono cellulare, mentre lo fa solo l’1,2% dei secondi. E se un giovane su tre (il 36,3%) possiede già un tablet, solo il 7,7% degli anziani lo usa. Su Twitter poi c’è un quarto dei giovani (il 24%) e un marginale 1,7% degli over 65.
La modalità di marketing diretto è ancora riconosciuta come la più efficace anche attraverso l’integrazione delle piattaforme multicanale (newsletters, social network, pubblicità online) malgrado un terzo degli italiani abbia un atteggiamento neutrale verso tali modalità di comunicazione.
Via T ech Economy
Dopo anni di tagli, la spesa del Governo sul digitale è tornata a crescere dello 0,5%, sono stati fatti notevoli investimenti sull’Agenda Digitale e messe in atto politiche per riqualificare la spesa in tecnologia della PA ma nonostante questo l’Italia è ancora agli ultimi posti nella classifica Digital Economy and Society Index o DESI (25ª su 29 Paesi europei), un indice composito che sintetizza gli indicatori rilevanti sulle performance digitali dei Paesi europei e segue l’evoluzione degli Stati membri dell’UE in materia di competitività digitale.
Questo dice che gli sforzi compiuti nell’attuazione dell’Agenda Digitale non sono ancora sufficienti a colmare il divario con gli altri Paesi europei. Questi i risultati di una ricerca dell’Osservatorio Agenda Digitale della School of Management del Politecnico di Milano presentata al convegno “Pubblico e privato: un patto per l’Italia digitale”, che mostrano come la strategia italiana non riesca ad incidere sui punti chiave della classifica.
Su tutti, la banda larga, che vede l’Italia tra gli ultimi Paesi in Europa, con solo il 53% delle abitazioni che usa una banda larga ad almeno 2 Mbps, solo il 3% a 30 Mbps e addirittura solo lo 0,5% a 100 Mbps (l’obiettivo europeo è almeno il 50% entro il 2020). Solo il 12% delle imprese viaggia a 30 Mbps. In Francia sono il 21%. In Germania e Spagna il 29%.
Fonte: The Digital Economy & Society Index (DESI)
Oltre al piano sulla banda ultra larga, l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) si è concentrata sui tre principali progetti infrastrutturali dell’Agenda Digitale: il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) che nei primi 7 mesi ha visto l’erogazione di oltre 130.000 identità digitali; il Sistema dei pagamenti elettronici (PagoPA) che conta 9.500 PA, 90 prestatori di servizi di pagamento e quasi 600.000 transazioni effettuate; l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) che è stata sperimentata in 26 comuni pilota con circa 6,5 milioni di cittadini coinvolti.
Nonostante ciò, il nostro Paese è al penultimo posto per connettività, al 25° per competenze digitali, all’ultimo per uso di internet da parte dei cittadini, al 21° per digitalizzazione dell’industria, al 18° in digitalizzazione della PA.
Unica nota positiva la crescita registrata dal 2013 al 2015 (+19,7%) è tra le più alte. Se sarà sufficiente questo ritmo (se verrà mantenuto) a colmare il gap con altri Paesi lo scopriremo solo vivendo.
Via Tech Economy
Quali sono le abitudini digitali degli italiani? A trovare una risposta a questa domanda, ci ha pensato l’Agcomnel rapporto “Il consumo di servizi di comunicazione: esperienze e prospettive” pubblicato recentemente.
Internet in mobilità è la chiave di volta
Propedeutico all’uso di servizi di comunicazione è il possesso di device. L’analisi dell’Agcom evidenzia l’ampia penetrazione tra gli individui di smartphone e/o cellulari (94,1%), seguita dal telefono fisso (88,4%). Meno diffusa tra gli individui è la disponibilità di smart tv (27,7%). La rapida diffusione delle tecnologie di connessione a internet in mobilità, rende molto interessante l’analisi della disponibilità di strumenti che forniscono accesso alla rete (smartphone, tablet e pc portabili) in qualsiasi luogo e momento: il 30% circa di individui dispone di tutti e tre i dispositivi.
Accesso alla rete: giovani vs. anziani
Dal confronto intergenerazionale proposto nell’analisi, si osserva come l’età rappresenti uno dei principali fattori che rende l’esperienza di consumo dei beni e servizi di comunicazione differente tra gli utenti: tra i più giovani sono diffusi i comportamenti più innovativi. C’è inoltre un diverso livello di conoscenza e di consapevolezza sia degli strumenti e delle loro potenzialità d’uso, sia delle caratteristiche qualitative dei servizi offerti dai fornitori. Per i più maturi, invece, si evidenzia il rischio di esclusione digitale: infatti, prendendo in esame i dati sull’accesso a internet, mentre nella classe più anziana della popolazione solo un terzo degli individui accede a internet, in quella più giovane sono più di nove individui su dieci ad accedervi. A livello generale, la rilevanza della rete nella vita quotidiana è universalmente riconosciuta tra i consumatori. L’accesso alla rete, infatti, è ritenuto un servizio indispensabile per oltre il 90% degli individui, indipendentemente dall’età. A tal proposito è interessante notare che l’88% dei cosiddetti “Matures” riconosce l’importanza di internet anche se questa rappresenta la categoria che vi accede di meno.
La carenza di conoscenze è una “barriera all’accesso”
Le evidenze empiriche suggeriscono che il solo fattore “età” non è in grado di spiegare il gap che l’Italia mostra, rispetto ad altri paesi dell’Europa, nella diffusione tra la popolazione dei più moderni strumenti di comunicazione. In particolare, la carenza di conoscenze e di dimestichezza con gli strumenti tecnologici rappresenta, per il consumatore, una sorta di “barriera all’accesso”. Le analisi mostrano, infatti, come le caratteristiche legate alla conoscenza producano un significativo impatto sulla diffusione della cultura digitale. A parità di classe di età, un più elevato livello di conoscenza, aumenta la probabilità di un maggior uso delle tecnologie digitali. Ciò si traduce nella necessità di limitare alcuni effetti distorsivi, i cosiddetti “fallimenti di mercato”, generati dalla presenza di asimmetrie informative tra consumatori e i fornitori di servizi. Ad esempio, in Italia, così come in gran parte d’Europa, il 45% degli individui non conosce la velocità raggiunta nel collegamento a internet. Si osserva, però, che l’ignoranza circa la velocità di connessione a Internet si riduce al crescere del titolo di studio dichiarato ed è decisamente minore tra i più giovani. Questo risultato testimonia che mancanza di conoscenza e mancanza di informazione spesso sono correlate. Non senza sorpresa, quindi, emerge che circa il 40% degli utenti non è a conoscenza dell’esistenza di software utilizzabili per testare la velocità di connessione e che oltre il 50% non è disponibile a pagare qualcosa in più per ottenere una connessione più veloce.
Le donne non rinunciano alla voce…
In merito alle modalità di acquisto dei servizi, emerge che oltre il 60% degli individui sceglie di abbonarsi a bundle di servizi che comprendono cioè sia i servizi vocali sia i servizi dati. Anche in questo caso si evidenzia che oltre il 70% dei più anziani resiste nel mantenere la linea telefonica (fissa e/o mobile) senza internet. Una tendenza simile si evidenzia a livello di genere, dove si riscontra che le donne, a prescindere dall’età, preferiscono sottoscrivere abbonamenti che prevedono solo servizi vocali.
…E gli uomini a WhatsApp e Skype
Lo studio Agcom analizza, infine, l’esperienza dei consumatori nei confronti degli strumenti di comunicazione introdotti più di recente, con particolare riferimento alla diffusione tra la popolazione dei servizi di messaggistica come WhatsApp o Messenger, dei servizi alternativi alla telefonia vocale tradizionale, come le chiamate effettuate tramite Skype, e dei servizi postali online. Ai servizi alternativi ricorrono maggiormente gli uomini, tuttavia, il divario è legato più all’età che al genere, soprattutto nel caso dei servizi alternativi di messaggistica.
Via DailyOnline
L’interazione tra impresa e consumatori passa, oggi, attraverso molteplici canali che sono sempre più rappresentati da mobile. La ricerca “Shopping (R)evolution” – promossa da Nielsen, School of Management del Politecnico di Milano e Connexia, in sinergia con Hubility – mette inevidenza come siano in forte ascesa anche gli “eShoppers” italiani. I risultati confermano come la multicanalità abbia cessato di rappresentare un fattore occasionale o opzionale all’interno del Customer Journey: i comportamenti si sono evoluti e i consumatori italiani sono ormai abituati a vivere la rete in logica everywhere e in ottica seamless, ovvero come un ambiente unico composto da una molteplicità di canali cui attingere.
Un primo dato rilevante riguarda la crescita esponenziale degli Internet Users (63%) che si connette da smartphone (+43% rispetto al 2012). Crescono anche gli utenti che utilizzano il tablet per accedere al Web (+14% rispetto al 2012), mentre diminuiscono gli accessi da PC (-15 % rispetto al 2012). Conseguentemente muta anche il ruolo giocato dal punto vendita fisico, non più e non solo touchpoint per la vendita diretta, ma anche punto di riferimento per il reperimento di informazioni, spazio per l’erogazione di servizi integrativi e ambiente privilegiato per la relazione brand/consumatore.
Ad esser mutato non è solo lo scenario, ma il consumatore stesso.
A questo proposito la ricerca ha voluto analizzare due diversi profili di consumatore moderno: InfoShopper ed eShopper. Il primo rappresenta quell’individuo che utilizza touchpoint digitali unicamente per ottenere informazioni su prodotto e/o marca: 11 milioni di italiani, che formano il 35% degli Internet Users e si caratterizzano per il grado di diffidenza verso l’utilizzo del digitale per finalizzare le loro transazioni online. L’eShopper, invece, rappresenta colui che utilizza la rete sia per informarsi che per effettuare acquisti: 20,5 milioni di italiani, pari al 65% degli utenti.
Il gruppo di Ricerca dell’Osservatorio Multicanalità ha operato una seconda segmentazione rispetto al solo gruppo degli eShopper, rifacendosi a due variabili: la maggiore o minore propensione di questi soggetti all’utilizzo di canali digitali in fase d’acquisto e la propensione degli stessi all’utilizzo di Internet per fornire o condividere feedback. Da questa segmentazione sono emersi 4 differenti profili: Everywhere Shopper, Money Saver, Cherry Picker e Pragmatic.
Everywhere Shopper (5,5 milioni di persone)
Formati prevalentemente da soggetti appartenenti a Generazione X (50%) e Millennials (41%) e sono il gruppo più affine alle dinamiche multicanale. Utilizzano, infatti, i touchpoint digitali ovunque e in qualsiasi momento: per confrontare prezzi, aggiornarsi sulle offerte online, fornire o consultare feedback su prodotti e aziende. Sono particolarmente attenti ai prezzi, alle offerte personalizzate e alle novità.
Money Saver (5,2 milioni di persone)
Anch’essi formati da soggetti appartenenti a Generazione X (49%) e Millennials (34%), utilizzano la rete con un’unica spinta propulsiva: risparmiare. I Money Saver non sono alla ricerca dell’engagement da parte dei brand: il loro scopo è unicamente quello di acquistare un prodotto al miglior rapporto qualità/prezzo. Conseguentemente prediligono strumenti di comparazione online dei prezzi, consultano volantini digitalizzati e verificano i pareri di altri utenti, spesso attraverso i social network sites.
Cherry Picker (5,1 milioni di individui)
Costituiti principalmente da individui della Generazione X (47%), Baby Boomers (27%) e Millennials (26%) sono abitudinari, amanti delle tradizioni e legati al concetto di famiglia. Per informarsi ricorrono alle fonti tradizionali e al punto vendita classico, all’interno del quale vanno alla ricerca della relazione personale con gli addetti dello store. In fase di pre acquisto preferiscono vedere e toccare con mano i prodotti. I Cherry Packer possono essere attratti dalla possibilità di acquistare online solo nel caso in cui i prodotti da loro selezionati non fossero disponibili presso i canali tradizionali.
I Pragmatic (4,7 milioni di individui)
Composti prevalentemente da esponenti della Generazione X (56%), Millennials (24%) e Baby Boomers (21%), ricorrono alla rete come strumento in grado di garantire loro un considerevole risparmio in termini di tempo. In fase di acquisto, amano la celerità e acquistano online quando questo li agevola nel risparmio e nella possibilità di accedere al servizio in orari non percorribili attraverso i canali di vendita tradizionali.
Quanto sono pronte le aziende a cogliere le opportunità dell’Everywhere Commerce?
Le aziende che dichiarano di non raccogliere dati sui propri clienti sono poche, solo il 7%. I più attivi sono gli Istituti Bancari, le aziende dedicate ai Servizi Finanziari e Assicurativi e le aziende del settore Largo Consumo. I settori che sembrano, invece, interpretare in maniera meno efficiente il cambiamento sono i player delle Utility e il settore dei Trasporti: pur avendo la possibilità di raccogliere una mole rilevante di dati, dimostrano di non saperne sfruttare le potenzialità.
Le principali fonti di acquisizione degli stessi da parte delle aziende sono: programmi di loyalty digitalizzati e i profili social ufficiali (45% del campione). In futuro, inoltre, la geo localizzazione in real time su dispositivi mobile costituirà una risorsa preziosa.
È evidente come sia in corso una vera e propria rivoluzione nel mondo del business, dovuta principalmente all’ingresso di digital e mobile nelle logiche e nelle dinamiche di consumo. I nuovi consumatori prediligono offerte immediate e personalizzate, casse self-service, controlli rapidi per verificare la disponibilità del prodotto, garanzia di WI-FI all’interno dello store e assistenti alle vendite in grado di accettare pagamenti in mobilità, senza dover necessariamente passare dalla cassa.
I media digitali stanno conquistando la comunicazione corporate e nei prossimi cinque anni cresceranno più di tutti gli altri canali. Lo dice un’indagine Doxa su 100 responsabili comunicazione promossa da iCorporate, società di consulenza per la comunicazione corporate e la gestione della reputazione offline ed online, che conferma la centralità del digital per costruire e difendere la reputazione aziendale e l’immagine del capo-azienda. L’interesse delle aziende per i social media, dunque, è sempre più orientata all'obbiettivo di farsi conoscere e di avviare un dialogo diretto con clienti e consumatori. Nei prossimi cinque anni, i manager e dirigenti intervistati vedono nei social network lo strumento che più di ogni altro è destinato a crescere per importanza (67%), seguito dal sito web aziendale (58%) e dai blog (48%). Per contro, ben oltre la metà (64%) pensa che l’importanza dei media tradizionali rimarrà invariata o, addirittura, diminuirà. Già oggi la totalità delle aziende intervistate dichiara di utilizzare i canali digitali per gestire la comunicazione corporate. In particolare, probabilmente per la natura fortemente relazionale di questa disciplina, lo strumento più utilizzato a tal fine è quello delle Digital Pr (72% dei casi), seguite a ruota dal sito web aziendale (69%). Ma i social media non sono da meno, con ben il 66% delle aziende che già comunica la propria dimensione istituzionale attraverso presidi attivi suFacebook (82%), Twitter (76%) e LinkedIn (62%). CORPORATE STORYTELLING. Perché le aziende vedono nei canali digitali una risorsa irrinunciabile per l’affermazione della propria reputazione? Tre le ragioni fondamentali. Innanzitutto, perché permettono di condividere più contenuti, con maggior frequenza e autonomia rispetto ai media tradizionali, più costosi e “selettivi”; in secondo luogo, per l’immediato accesso a feedback e insight provenienti dalla Rete; terzo, più in generale, per la possibilità di accrescere la visibilità complessiva dell’azienda, affiancando ai canali di comunicazione tradizionali anche quelli digitali e aumentare così la share of voice. «Lavorando ogni giorno al fianco di aziende, imprenditori e top manager, assistiamo a una progressiva presa di coscienza: la comunicazione digitale ha un potenziale immenso, ma, specialmente quando si toccano le corde della reputazione aziendale, è necessario gestirla con un approccio altamente professionale e orientato alla massima qualità», commenta Sergio Pisano, direttore generale di iCorporate. «I leader più illuminati sanno quanto sono esigenti i loro pubblici, anche sui social media, e per questo stimolano l’organizzazione per creare contenuti sempre più rilevanti e modalità di gestione delle relazioni sempre più innovative, all’interno del processo dinamico di affermazione del profilo corporate dell’azienda, on e offline». TOP EXECUTIVE IN PRIMA FILA. Il ruolo crescente della comunicazione corporate digitale è confermato anche dall’importanza che i capi-azienda vi attribuiscono: l’89% presta molta attenzione alle potenzialità offerte dalla Rete per costruire, consolidare e difendere la reputazione aziendale, e nel 59% dei casi hanno già aperto profili personali sui social media (Facebook 79%, LinkedIn 59% e Twitter 52%) per finalità puramente aziendali: ampliare il proprio network di contatti, creare opportunità di business e promuovere l’azienda in prima persona. Solo il 44% dei capi-azienda che ha aperto profili sui social media li gestisce personalmente: la maggior parte tende ad affidarsi a collaboratori fidati e specializzati,interni all’organizzazione o consulenti esterni. Francesco Foscari, Executive President di iCorporate, aggiunge: «Ricorrere a strumenti digitali per la comunicazione istituzionale non significa abbandonare la comunicazione offline. Questo i leader aziendali lo sanno bene. La sfida è riuscire a costruire un giusto mix tra canali tradizionali e digitali, adatto alle proprie specificità, individuando di volta in volta il canale più efficace per veicolare diversi contenuti. Con l’obiettivo di stabilire relazioni durature e di successo con tutti gli stakeholder e rafforzare la percezione dell’identità aziendale». Da ultimo, grazie anche all’ampia disponibilità di strumenti per l’analisi della web reputation che consentono di misurare i ritorni dell’azione con precisione e tempestività, la comunicazione corporate digitale è una modalità generalmente considerata molto efficace: innanzitutto, per influenzare i comportamenti di acquisto (secondo il 93% dei rispondenti) e per raggiungere le “online communities” (91%); inoltre, sempre di più, per ingaggiare partner di business (86%) e altri stakeholder chiave quali gruppi di opinione e di pressione (86%), autorità e istituzioni (81%), giornalisti (80%). Via Business People
Nell’agenda digitale delle Destinazioni Turistiche vi sono vari punti - fin troppi - non ancora affrontati adeguatamente e tra questi spicca il governo dei “flussi turistici digitali”, intesi come i movimenti dei viaggiatori attraverso i canali digitali durante tutta l’esperienza turistica (dal “pre-viaggio” al “post-viaggio”). Questi flussi sono oramai fondamentali per i turisti nazionali e internazionali nelle diverse fasi di decisione pre-viaggio (dall’ispirazione fino alla scelta, passando per la prenotazione), ma in prospettiva lo saranno sempre più anche durante e dopo il viaggio (quando si condivide l’esperienza con altri potenziali viaggiatori e si costruisce l’idea di viaggio successiva). Pensiamo sia perciò utile riportare qualche dato che evidenzia come si comporta il Turista Digitale Italiano, sapendo che è tra i meno “digitalmente avanzati” in quest’ambito, anche rispetto ai paesi in via di sviluppo come la Cina o l’India. Il Turista Digitale italiano (colui che ha fatto almeno un’attività online durante un viaggio di durata superiore a 3 giorni nella nostra indagine) è particolarmente attivo su Internet in tutte le macro-fasi del viaggio: nei momenti pre-viaggio, l’88% ricerca informazioni e l’82% prenota o acquista qualcosa (alloggio, mezzo di trasporto o attività da fare a destinazione); durante il viaggio il 44% acquista su Internet qualche attività e l’86% utilizza applicazioni in destinazione a supporto dell’esperienza; il 61% fa attività digitali nel post-viaggio. E’ evidente che in ciascuna di queste fasi la “Destinazione Illuminata” (o, abusando degli inglesismi, la “Smart Destination”) può intervenire digitalmente per portare avanti i propri obiettivi. Entrando brevemente nel dettaglio, la prima fase di un’esperienza di viaggio è l’ispirazione, dove viene incubata l’idea di viaggio e dove la destinazione può incidere molto, considerando che in questa fase non è stata data ancora una risposta alla domanda fondamentale del turista: “dove vado?”. Nella maggior parte dei casi l’ispirazione sembra essere influenzata da servizi disponibili sul web: il 33% ricorda di essere stato ispirato da commenti e recensioni letti su Internet, il 19% da articoli online di testate specializzate in viaggi, il 12% da post su social network, il 9% da newsletter e solo il 2% da banner online. Da non trascurare però il fatto che molti sono comunque influenzati da fattori tradizionali: il 46% ha dichiarato di essere stato suggestionato dai consigli dei conoscenti (su cui incidono fortemente i social network), mentre il 22% dalla nostalgia di una vacanza passata. Questo dato evidenzia come sia fondamentale anche un governo omnicanale dei flussi, e non semplicemente multicanale. Per le destinazioni è anche importante sapere che la maggior parte dei Turisti Digitali inizia la ricerca partendo da una motivazione esperienziale (il 31% infatti dichiara di essersi basato su una certa idea di vacanza: avventurosa, rilassante, culturale etc.), ma ben un turista su quattro (il 25%) parte proprio dall’attrazione per una certa destinazione. E’ fondamentale, quindi, da un lato che la destinazione agisca sulle leve della reputazione per attrarre i flussi digitali sui propri canali, ma allo stesso tempo che, una volta attratti, i turisti trovino gli strumenti e i contenuti che li portino a sceglierla per il viaggio, piuttosto che migrare su altre proposte più appealing. A livello temporale, la ricerca su Internet inizia 3 mesi prima della partenza per il 37% dei turisti digitali (per il 13% 6 mesi prima), da 1 a 3 mesi prima per il 40%, da 15 a 30 giorni per il 12% e il restante 11% si attiva solo due settimane prima della partenza. Per quanto riguarda la prenotazione, invece, il digitale implica uno spostamento sempre più a ridosso della vacanza, tanto che più del 24% dei turisti acquista le attività da fare a destinazione nell’ultima settimana prima della partenza, o addirittura durante la vacanza stessa. Addirittura il 48% dei turisti digitali prenota la propria sistemazione una volta giunto nella località e il 60% di questi lo fa su Internet. Quasi la totalità dei viaggiatori acquista a destinazione servizi ‘aggiuntivi’ come titoli di viaggio per i trasporti locali e biglietti per attività culturali. Il canale preferito in questi casi è quello offline, ma il 44% degli intervistati conclude almeno un acquisto online. I turisti digitali condividono inoltre la propria esperienza di viaggio sia una volta tornati a casa (30%) sia già durante la vacanza stessa (24%), con una componente rilevante di questi che lo fa in entrambi i momenti (10%). E’ interessante anche notare che un 4% dice di pubblicare video e/o foto in merito alla vacanza ancor prima di esser partito, aspetto ancora poco compreso e sfruttato dagli attori del mercato. La scrittura di recensioni invece e un’attività svolta principalmente al rientro dalla vacanza (33% dei turisti digitali). Il 12% lascia i propri commenti anche sui social network e il 6% sui siti di prenotazione e comparazione di alloggi; solo il 2% lo fa direttamente nel sito web del fornitore del servizio acquistato. Il 92% di chi scrive recensioni dichiara di farlo per aiutare possibili clienti futuri e il 32% per spingere i fornitori a migliorarsi. Questi dati, dal nostro punto di vista, evidenziano in modo lampante che la competitività delle destinazioni dipenderà dalla capacità di gestire e/o guidare i flussi digitali. Per farlo servono competenze adeguate sommate al desiderio di imparare e mettere in discussioni pratiche consolidate negli scorsi decenni. Il messaggio è ricorsivo, ma metterlo in pratica non lo è assolutamente. Sfortunatamente, abbiamo avuto modo di interagire con alcuni attori responsabili di destinazioni che mostravano un rilevante gap di competenze, di efficienza e di “buona volontà”. Le eccezioni ci sono, ma è ancora lunga la strada perché diventino la normalità. Via Agenda Digitale
Lo spunto per questo contributo viene dall’interessante evento Digital Analytics Day cui ho avuto modo di partecipare qualche tempo fa dove, non a caso, la questione delle reportistiche per una logica data driven è stata toccata in molti interventi.
Tra gli altri cito quello di David McCandless, da cui ho tratto l’immagine sotto e che qui racconta appunto che cosa serve per una buona data visualization.
Il valore della data visualization
Il punto di partenza è semplice, abbiamo montagne di dati e, posto di gestirli già in modo corretto, non è facile renderli leggibili e interessanti. Ecco che la visualizzazione diventa un mezzo potente ed efficace per comunicare ma anche per mostrare in maniera intuitiva le correlazioni più o meno nascoste.
L’obiettivo diventa quindi di raccontare storie ricche di senso e per essere di facile lettura, la presentazione deve essere creata da chi capisce i valori del business di riferimento e diventa quindi più complessa la skill per la preparazione dello storytelling.
Sicuramente questo si innesta anche nel grande trend della prevalenza del modo visivo di fruire le informazioni, testimoniato dalla diffusione delle infografiche ma anche di molti social largamente visivi come Instagram o Pinterest.
L’imperativo di rendere i dati azionabili e utili
Ecco quindi perché la visualizzazione assume sempre maggiore importanza: i dati ormai sono percepiti come centrali in molti ambiti aziendali, nel marketing come nell’HR management, e quindi il tema diventa sempre più quello di avere i dati corretti nel momento corretto, piuttosto che un grande volume che risulta invece non azionabile.
Come salta all’occhio dal grafico qui sopra, tratto da un report di Econsultancy, decresce infatti la percentuale di aziende che dicono che l’analisi dei dati produce sicuramente raccomandazioni attuabili che fanno la differenza per la propria organizzazione: solo il 23% degli intervistati, rispetto al 40% dello scorso anno, un pesante calo del 43%. Quindi il bisogno di capire meglio i propri dati urge, decisamente.
Citando un recente documento di SAS, ecco che la data visualization viene in aiuto dato che “levisualizzazioni aiutano la gente a vedere cose che non erano loro evidenti prima. Anche quando i volumi di dati sono molto grandi, i modelli possono essere individuati rapidamente e facilmente. Effetti grafici trasmettono le informazioni in modo universale e rendono semplice condividere idee con gli altri. Consentono alle persone di chiedere ad altri: vedete quello che vedo io?”.
La cultura del dato, a che punto siamo?
Riprendo infine su questa domanda quanto scrissi quasi un anno fa, parlando dei risultati dell’Osservatorio Big Data e Business Intelligence del Politecnico di Milano, in attesa a fine mese del nuovo rapporto. All’epoca solo il 17% delle aziende lamentava infatti carenze di software adeguati, mentre nel convegno e nella ricerca si parlava molto di Data scientist e Chief Data Officer, che perònon erano previsti nemmeno nel futuro dal 73% delle organizzazioni e hanno invece un ruolo formalizzato nel 2% (è presente in qualche modo in altro 11%).
Vedremo se quest’anno le cose cambieranno, almeno dei numeri. E nel mentre, speriamo che un nuovo modo di vivere e presentare il dato possa aiutare l’adozione di una nuova cultura data driven, che usi creatività e scienza in modo dinamico e combinato.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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