Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Uno degli aspetti più difficili e interessanti del mio lavoro è dato dall’evoluzione in senso digitale dell’organizzazione aziendale e mi capita spesso di riflettere su come i mezzi che oggi abbiamo a disposizione possano influenzare il nostro modo di operare. E in molti casi trovo che ci sia una grande immaturità nel loro utilizzo. Sicuramente il contesto culturale italiano non ci aiuta, infatti siamo spesso portati a pensare che lavorare tanto, comprese le sere e i weekend, sia sinonimo di efficienza e produttività. Ovviamente questo non è vero, tantomeno per chi usa molto la testa e poco le mani, ma il fatto di avere sempre al seguito dei device perennemente connessi ci ha creato questo mito di poter agire in qualsiasi momento e, di conseguenza, di essere appunto produttivi.
Io credo che le cose siano invece un po’ diverse, e non parlo solo della qualità della vita (su cui si potrebbero spendere molte parole) ma di capacità di lavorare in una realtà moderna così competitiva e veloce. Che abilità servono?
1) saper programmare in modo nuovo quello che si deve fare e avere pronte delle alternative: essere sempre raggiungibili non vuol dire decidere al momento
2) avere la visione di insieme: quando si modifica al volo un tassello occorre la consapevolezza del fatto che ogni azione ha una ricaduta su altre realtà interconnesse nell’ecosistema
3) essere flessibili è un beneficio che si costruisce con fatica impostando strumenti e procedure che permettano velocemente un cambiamento improvviso o la gestione dell’emergenza. Se ogni variazione costa invece tanta fatica non è questione di impegnarsi di più: c’è un problema.
4) saper cambiare idea è un’ottima cosa se questo risponde a un’esigenza reale, supportata da fatti e dati. Altrimenti si chiama insicurezza, e non ha nulla a che fare con i benefici dei nuovi strumenti di lavoro.
5) bisogna saper collaborare: banale ma se proviamo fastidio davanti a software fatti apposta per questo e viviamo male il fatto di dover passare informazioni e lavorare in team vuol dire che il problema non sono gli strumenti, è la testa
6) non si può fare tutto solo a distanza: ogni tanto bisogna parlare guardandosi in faccia. Anche perché è più difficile fare certe di persona sparate e viene meno il coraggio di replicare le mail grondanti sangue per qualsiasi stupidaggine che si scrivono di notte quando si è sfiniti dalla sindrome da Burnout. E dunque ci si capisce meglio.
immagine tratta da Manageronline.it
Tutto questo non ha nulla a che fare con i software e gli strumenti in dotazione perché alla fine, come recita la legge di Conway, “any piece of software reflects the organizational structure that produced it“. E dunque il cambiamento deve partire dall’organizzazione e dalla cultura aziendale. Un recente report del MIT Center for Digital Business e di Capgemini è molto netto: “whether using new or traditional technologies, the key to digital transformation is re-envisioning and driving change in how the company operates. That’s a management and people challenge, not just a technology one.”
Voi che ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Tablet al posto dei quaderni, maxischermi al posto delle lavagne. Non è fantascienza, è la classe digitale. La prima è stata inaugurata oggi a Milano dal sindaco Giuliano Pisapia: protagonisti e pionieri sono gli alunni della terza elementare della scuola primaria Enrico Toti di via Cima, nel quartiere dell'Ortica.
Qui, alla periferia della città, nasce ufficialmente il progetto Smart Future, promosso dal gigante coreano dell'elettroniva di consumo Samsung per favorire lo sviluppo della digitalizzazione nell'istruzione delle scuole primarie e secondarie di primo grado. L'iniziativa coinvolgerà nelle prossime settimane altre 24 classi in sette regioni, e nei prossimi due anni sarà esteso a quasi 300 classi.
«A casa i bambini sono a contatto quotidianamente con la tecnologia - spiega Carlo Barlocco, senior vice president di Samsung Italia - la scuola non può restare indietro. Qui i bambini devono poter utilizzare strumenti moderni per imparare a fruire della tecnologia e non a subirla». Con questo obiettivo nasce il progetto che punta ad applicare la tecnologia all'istruzione, con strumenti e software studiati ad hoc per la didattica. «Siamo convinti - sottolinea Sun Wang Myung, presidente di Samsung Italia - che l'istruzione sia una leva strategica per la crescita del Paese».
I 26 alunni della terza elementare della scuola Enrico Toti studieranno su tablet collegati alla e-board grazie alla quale l'insegnante può caricare i contenuti delle lezioni, condividerli con gli studenti, realizzare attività di gruppo, effettuare quiz e sondaggi per verificare la comprensione dei bambini.
«I ragazzi - sottolinea Francesco De Santis, direttore dell'ufficio scolastico regionale della Lombardia - sono molto veloci nell'imparare a utilizzare questi strumenti. Quello che serve, oggi, è formare gli insegnanti, far sì che aggiornino il loro metodo di insegnamento struttando al meglio la tecnologia».
È quello che ha fatto Samsung Italia con il progetto Smart Future, che ha coinvolto prima di tutto i docenti, sottoposti a intensi corsi di formazione. «Solo quando i docenti sono pronti - spiega Barlocco - dotiamo la classe degli strumenti tecnologici, perché vogliamo essere sicuri che venga utilizzata al meglio».
Per verificare i risultati del progetto sarà attivato un monitoraggio attraverso l'osservatorio sui media e i contenuti digitali nella scuola del Centro di ricerca sull'educazione ai media, all'informazione e alla tecnologia (Cremit) dell'Università Cattolica di Milano. «Introdurre tecnologia nelle classi senza verificare sulla base di evidenze cosa poi realmente succeda - spiega infatti Pier Cesare Rivoltella, ordinario di Didattica generale e direttore del Cremit - non consentirebbe di capire né come orientare il progetto stesso né cosa suggerire per delle policy che intendano muoversi su più ampia scala».
Le scuole che saranno coinvolte nel progetto Smart Future sono state selezionate attraverso criteri all'insegna dell'integrazione: alto numero di alunni con disabilità, forte incidenza dei disturbi specifici dell'apprendimento (dislessia, disgrafia), territori socio–culturalmente disagiati, piccoli plessi.
«Con questo progetto - ha sottolineato Cristina Tajani, assessore comunale alle Politiche per il lavoro, Sviluppo economico, Università e ricerca - speriamo di scalare la classifica delle smart cities, che oggi ci vede al terzo posto».
Via IlSole24Ore.com
Nel 2013 in Italia si contano 6 milioni di oggetti interconnessi tramite mobile, in aumento del 20% rispetto al 2012. Il valore del mercato delle soluzioni Internet of Things basate su rete cellulare raggiunge i 900 milioni di euro, con una crescita dell’11%, in controtendenza rispetto alla flessione registrata dal mercato ICT. Tra gli ambiti in maggiore espansione, si segnalano in particolare quello della Smart Car, con oltre 2 milioni di auto connesse e un fatturato in crescita del +35%, e della Smart Home & Building in cui, oltre alla soluzioni tradizionali, si affermano nuove applicazioni orientate direttamente al consumatore. Sono questi alcuni dei risultati della Ricerca dell’c della School of Management del Politecnico di Milano1 presentata oggi durante il convegno “Aziende, Consumatori, Cittadini: cresce l’Internet of Things”.
Mercato Internet of Things “Nel 2013 l’Internet of Things ha visto alcune dinamiche di lenta evoluzione affiancarsi ad alcuni elementi di slancio e novità – afferma Alessandro Perego, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Internet of Things –. Da un lato, si assiste ad una crescita organica delle applicazioni più consolidate che ancora oggi rispondono al bisogno di connettività facendo leva sulla rete cellulare. Dall’altro, si muovono ambiti di applicazione meno consolidati. In particolare lo Smart Home & Building, che è il terreno di sbarco di una pletora di nuove soluzioni spesso rivolte direttamente all’utente consumer, dalla gestione domestica alla sfera personale. E poi lo Smart Car, in cui si assiste ad una accelerazione del percorso verso l’auto connessa, a fianco delle applicazioni più tradizionali”. “Con l’eccezione rilevante dei contatori elettrici, in Italia la maggior parte delle applicazioni IoT consolidate continua a sfruttare come interfaccia con il mondo fisico la connettività cellulare – spiegano Giovanni Miragliotta e Angela Tumino, Responsabili della Ricerca dell’Osservatorio Internet of Things -. Nel 2013 sono saliti a 6 milioni gli oggetti interconnessi tramite rete cellulare con una crescita del 20% rispetto al 2012, che conferma l’espansione a doppia cifra già registrata negli scorsi anni, +13% nel 2011 e +25% nel 2012. Tra questi, si contano più di 2 milioni di auto e diverse centinaia di migliaia di automezzi per il trasporto merci, ascensori e contatori gas”.
Nello specifico, il 47% del totale degli oggetti interconnessi via rete cellulare in Italia è costituito da autovetture (Smart Car), il 26% da applicazioni di Smart Metering e Smart Asset Management nelle Utility, il 10% da applicazioni di Smart Asset Management in altri contesti come il monitoraggio di gambling machine e ascensori (+18%), il 9% di Smart Home & Building, il 5% di Smart Logistics e il 2% di Smart City & Smart Environment.
Ambiti Internet of Things
Le Smart Car sono l’ambito dell’Internet of Things più dinamico e rilevante dal punto di vista numerico in Italia. Nel 2013, si contano oltre 2 milioni di auto connesse (+35% sia in termini numerici che di fatturato rispetto al 2012), il 95% delle quali attraverso applicazioni per l’utilizzo di box GPS/GPRS per la localizzazione dei veicoli privati e la registrazione dei parametri di guida a scopo assicurativo. E in futuro saranno sempre di più i veicoli con SIM cellulare a bordo: dall’8% del totale dei mezzi circolanti, si stima che nel 2016 le macchine connesse in Italia rappresenteranno circa il 20%, per un totale di oltre 7,5 milioni di auto. La crescita dello Smart Car nei prossimi anni sarà legata a un significativo aumento della diffusione di veicoli “nativamente connessi” anche grazie allo stimolo della normativa eCall, in base a cui da ottobre 2015 tutti i nuovi modelli immessi sul mercato dovranno poter effettuare chiamate automatiche di emergenza. Anche analizzando il fatturato complessivo, è lo Smart Car l’ambito che evidenzia il maggiore tasso di crescita (+35% rispetto al 2012) e che costituisce la quota più importante: con il 31% del valore totale del mercato delle soluzioni Internet of Things, supera lo Smart Home & Building (21%).
L’altro ambito che mostra un grande dinamismo in Italia è la Smart Home & Building, che rappresenta un quinto del fatturato delle soluzioni IoT. Accanto al consolidamento delle soluzioni tradizionali di domotica e automazione industriale basate su tecnologia cellulare, nel 2013 sono nate tante nuove soluzioni rivolte direttamente al consumatore che mirano al comfort e alla sicurezza. Nel prossimo futuro, sarà determinante l’impatto della tecnologia Bluetooth Low Energy (BLE), in grado di facilitare la connessione di oggetti intelligenti di uso quotidiano e dispositivi mobili in ambito domestico. Oggi, infatti, circa l’1% delle abitazioni in Italia è dotato di dispositivi per il telecontrollo del riscaldamento e/o l’antintrusione, ma con l’affermarsi delle tecnologie wireless all’interno dell’abitazione e con la crescente disponibilità di dispositivi BLE si arriverà a più di 3 milioni di oggetti domestici connessi nel 2016 in Italia.
La Smart City rimane uno dei principali campi di applicazione dell’Internet of Things. Ad oggi, però, in Italia, nonostante tante sperimentazioni, le applicazioni avviate sono ancora circoscritte a poche funzionalità dai ritorni certi. La presenza di benefici tangibili di efficienza e di qualità del servizio erogato, infatti, rappresenta il fattore chiave che spiega le implementazioni più diffuse e consolidate. La Ricerca dell’Osservatorio Internet of Things ha analizzato 116 città (51 in Italia, 65 all’estero), per un totale di 258 applicazioni Smart City abilitate dalle tecnologie IoT. L’illuminazione pubblica intelligente rappresenta l’ambito trainante, con oltre 200 città che hanno installato applicazioni per il telemonitoraggio e il telecontrollo dei lampioni negli ultimi tre anni (13% delle applicazioni totali, 30% delle città analizzate), per un totale di oltre 400.000 lampioni connessi a fine 2013. Nel 2013, con 12 milioni di euro, l’illuminazione intelligente rappresenta il 18% del valore complessivo della Smart City in Italia. Seguono le applicazioni di raccolta rifiuti per l’identificazione dei cassonetti e il supporto alla tariffazione puntuale (13% delle applicazioni, 28% delle città analizzate). Si diffonde una progressiva multifunzionalità, con oggetti che condividono la dotazione tecnologica tra più applicazioni: oltre il 30% dei progetti avviati in Italia e all’estero dal 2012 tocca almeno due ambiti applicativi, il 12% almeno tre. “Sulla Smart City in Italia siamo ancora nella fase iniziale di un percorso di trasformazione lungo e complesso – afferma Alessandro Perego – su cui continuano purtroppo a incidere in maniera negativa gli effetti indotti dall’attuale crisi economica, in particolar modo sulla capacità di spesa delle Pubbliche Amministrazioni. Osserviamo con soddisfazione, però, che sempre più spesso gli investimenti in progetti Smart City iniziano a inserirsi in una ‘regia comune’ cittadina, entro cui le singole applicazioni avviate anche da attori distinti possono inserirsi in modo coeso e più aderente ai bisogni e alle risorse della comunità”.
L’imprenditoria non sta a guardare: c’è grande fermento imprenditoriale attorno all’Internet of Things sia in USA che in Europa e la ricerca individua 110 startup innovative che hanno ottenuto finanziamenti negli ultimi anni. Il 57% di queste si rivolge al mercato business (B2b), offrendo alle aziende soluzioni hardware, software e servizi, spesso integrate (come Streetline, che offre una soluzione di monitoraggio dei parcheggi nelle città). Il 37% delle startup invece opera nel mondo consumer (B2c): nella maggior parte dei casi offrono sia componenti hardware che oggetti intelligenti, insieme ad applicativi software per configurare e visualizzare i dati (come SmartThings, Scoutalarm, WigWag). Il restante 6% si rivolge al mondo degli sviluppatori (B2d), con piattaforme e dispositivi per lo sviluppo di nuove applicazioni IoT (ad esempio Spark). E’ l’ambito Smart Home & Building ad essere al centro degli interessi delle startup: le iniziative in quest’area sono cresciute più del 200% nell’ultimo biennio e il 37% delle startup rilevate offre soluzioni in questo ambito. L’offerta è molto ampia e va dal monitoraggio dei parametri ambientali alla security, dal comfort al risparmio energetico, fino alla salute della persona. Negli ultimi anni, crescono in particolare le startup con applicazioni e soluzioni consumer (passate dal 27% al 45% nel biennio 2012-2013), secondo un modello basato principalmente sul canale di vendita online. Le startup B2c si polarizzano verso il mondo Smart Home e verso i cosiddetti “wearable objects”. Tratto comune è l’utilizzo di App su dispositivi mobili per la fruizione del servizio, con smartphone e tablet che diventano il mezzo principale attraverso cui l’oggetto intelligente si aggancia alla rete Internet.
Via Tech Economy
Smartphone, video e social network sono gli elementi trainanti la crescita degli Internet Media, ossia l’unico comparto che fa registrare performance positive (+18%) nell’intero mercato che soffre di in calo complessivo del 5%. E’ quanto emerge dalla fotografia scattata dall’Osservatorio New Media & New Internet del Politecnico di Milano.
Il mercato dei media, infatti, nel 2013 perde quasi altri 800 milioni di euro, a fronte del calo di tutti i gli attori più tradizionali – stampa (-13%), televisione (-4%) e radio (-9%). Gli Internet Media, in crescita del 18% rispetto al 2012, raggiungono nel 2013 un valore di 1,9 miliardi di euro, soprattutto grazie alle componenti innovative di smartphone, tablet, connected tv, social network, applicazioni, pay, video e data-driven advertising, che nel loro complesso prendono il nome di New Internet e che nel 2013 crescono del 73%.
“Nell’ultimo anno la contrazione del mercato complessivo dei Media, che include introiti pubblicitari e ricavi Pay, è stata pari al 5%. Ma non tutti i canali Media stanno registrando un trend negativo” afferma Andrea Rangone, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio New Media & New Internet. “Gli Internet Media, infatti, in 5 anni hanno duplicato il loro valore, passando da un’incidenza sul totale mercato Media del 5% nel 2008 a un’incidenza del 12%. Prevediamo che tra 5 anni, nel 2018, possano arrivare a pesare oltre il 20%.”
Il panorama è assai articolato: smartphone, tablet e connected Tv moltiplicano le occasioni di fruizione di Internet; i Social Network stanno sempre più diventando il luogo privilegiato di interazione digitale e la porta di ingresso ad Internet; le Applicazioni, nuova modalità di accesso ai contenuti a fianco del browser; gli iVideo, si stanno diffondendosi in modo pervasivo in Rete e, infine, nuovi emergono nuovi modelli di revenue basati sulla vendita di contenuti a pagamento a fianco della pubblicità. A partire da questa edizione dell’Osservatorio è stata aggiunta un’ottava componente che sta trovando un’iniziale applicazione in Italia: la pubblicità basata sui dati (Data-driven Advertising), che cambia profondamente la pubblicità Online rendendola più mirata e profilata grazie proprio all’utilizzo delle informazioni degli utenti.
“Il mercato Media abilitato dal New Internet ha registrato una crescita del 73% nel 2013, arrivando a superare i 600 milioni di euro” afferma Marta Valsecchi, Responsabile della Ricerca dell’Osservatorio New Media & New Internet. “Mentre la restante componente degli Internet Media, quella che definiamo Old Internet e che è composta dai formati più classici su Pc (come Standard Display Advertising, email Marketing, Search, Classified e Performance Advertising), mostra un incremento di soli 2 punti percentuali. Il peso del New Internet sul totale mercato Internet Media passa così dal 22% al 32% e prevediamo che nel 2018 arrivi a valere circa i due terzi”.
Nel dettaglio troviamo che:
i ricavi Media su Smartphone crescono del 167% superando i 200 milioni di euro; i ricavi Media su Tablet sono vicini al raddoppio (+94%) per un valore assoluto di poco superiore ai 50 milioni di euro; i ricavi Media su Connected Tv aumentano dell’85% raggiungendo circa 25 milioni di euro; i ricavi sulle Applicazioni segnano un incremento del 120% arrivando a valere circa 130 milioni di euro; la pubblicità sui Social Network registra una crescita del 75% e sfiora così i 100 milioni di euro; i ricavi legati ai Video Online crescono del 37% arrivando a 260 milioni di euro; i ricavi Pay aumentano del 43% per un valore assoluto di quasi 70 milioni di euro. Anche i dati di utilizzo da parte degli utenti delle diverse componenti del New Internet sono molto elevati e in forte crescita: il 75% degli Internet user usa almeno un device connesso (smartphone, pc, tablet) davanti alla Tv; il numero di applicazioni mediamente installate è superiore a 30 sia per smartphone sia per tablet, ma il reale utilizzo è concentrato su molte meno; il 40% circa delle applicazioni scaricate viene, infatti, usato solo una o due volte, mentre solo 4-5 vengono utilizzate tutti i giorni; sono ben 27 milioni gli utenti unici che mensilmente sono attivi sui social, l’82% degli Internet user, con Facebook che resta il social network più frequentato.
Via Tech Economy
Surfing the web: questa è la promessa che ha fatto vincere a Vurb la competizione TechCrunch Disrupt New York. Tra le 26 startup che si sono date battaglia ne sono state individuate 6 papabili: Boomerang Commerce, ISI Technology, Mimi, Mink, ShowKit e Vurb ed è proprio quest'ultima che ha convinto la giuria composta da personaggi di spicco dell'industria digitale e del mondo del finanziamento, tra questi Roelof Botha (Sequoia Capital), Marissa Mayer (Yahoo!) e Fred Wilson (Union Square Ventures). Il palco newyorkese è talmente prestigioso che il premio di 50mila dollari (35mila euro circa) passa in secondo piano rispetto all'essersi qualificati al primo posto.
Cosa fa Vurb Si tratta di un motore di ricerca "decisionale" web e mobile. In un'unica pagina, cercando ad esempio un film, si otterranno i nomi delle sale cinematografiche in cui viene proiettato, le recensioni, spoiler e anticipazioni multimediali (per il momento su Netflix). Oltre a ciò sarà possibile acquistare i biglietti online e, per concludere la serata, si potrà scegliere un ristornate limitrofo in cui mangiare le specialità desiderate. Informazioni che potranno essere condivise sulle reti sociali classiche.
Perché ha vinto L'obiettivo di Vurb è sfruttare i legami tra le informazioni fruibili e presentarle in un'unica pagina, cosa comoda per chi naviga da postazione fissa e quasi imprescindibile per chi fa uso di dispositivi mobili. Il modello su cui si basa tende a ridisegnare la ricerca, eliminando i link a cui siamo abituati e restituendo immagini o "mattonelle" più pratiche per chi naviga da mobile e più simili a quanto offre l'interfaccia grafica dei più comuni sistemi operativi. L'idea non è riuscita a convincere la giuria all'unisono: Fred Wilson si è mostrato reticente ma i suoi dubbi sono stati controbilanciati da Michael Arrington il quale, oltre ad essere uno dei fondatori di TechCrunch, ha anche finanziato Vurb.
Via IlSole24Ore.com
Omnichannel o multichannel che sia, il tema di questa infografica è assolutamente all’ordine del giorno per moltissime aziende e sta entrando di diritto negli hype mediatici anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. Il cliente infatti è online, ma ama ancora e molto gli store reali, creando dei percorsi articolati tra fisico e digitale.
Personalmente me ne occupo tutti i giorni, anche da tempi meno sospetti, come ogni inizio di settimana mi piaceva dunque prendere spunto dalla ricerca da cui viene tratta l’immagine per qualche considerazione.
La prima è che la customer experience si basa anche su fattori molto tecnici, dati e tecnologie: il risultato è una percezione del cliente ma per vincere la sfida con i competitors c’è dietro un grande lavoro dove l’estetica e la comunicazione sono assolutamente integrate con aspetti di altra natura. Una coerenza e una capacità di muoversi tra i canali che oggi viene richiesta al nuovo profilo di marketer.
La seconda è che, stando alla ricerca, anche dove ci sia un team dedicato all’omnichannel non mancano le difficoltà, perché averlo non basta se non si integra con il resto dell’azienda e della strategia.
C’è poi molto forte il tema del seamless, ossia del fatto che per il cliente tutti gli strumenti ormai sono vissuti in una continuità di azioni, e dunque l’aspettativa è quella di non trovare problemi passando da un device all’altro, come spiegavo qui relativamente alla navigazione web vs. mobile (ma vale per tutto).
Ultimo ma non ultimo, un grande argomento è quello della misurazione attraverso i vari canali. Se ne potrebbe parlare a lungo, e non ho qui lo spazio. Evidenzio solo che già oggi si misura poco il mezzo singolo, a partire dal web, mentre la cultura degli analytics è e sarà una delle prossime skill chiave.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
C’è chi dice che il neologismo “Internet delle cose” sia nato in P&G e chi invece parla dell’Auto-ID Center presso il MIT ma sulla data c’è abbastanza accordo: 1999. Non proprio ieri quindi, e mi ricordo bene che di temi collegati, come il machine2machine, si discute e lavora anche in Italia da almeno 10 anni.
Come tutte le rivoluzioni tecnologiche però il viaggio inizia da lontano e prima che un argomento diventi caldo sui media e nella percezione collettiva serve del tempo e dei passi intermedi, tanto che alcuni osservatori già dicono che sarà un cambiamento grande ma non così tanto come si dice in certi ambienti (siamo già all’hype?) e nell’analisi delle ricadute ottimismo e dubbi si alternano.
Nonostante tutto questo oggi i tempi sembrano maturi per la diffusione di tutta una serie di soluzioni, dai pagamenti mobile, alla domotica, alle Smart Cities, che dovrebbero cambiarci la vita.
Che cosa manca allora fare l’ultimo salto? Prima di tutto l’ecosistema. Prendiamo la possibilità dei pagamenti contactless fatti con chip RFID dei cellulari: inizialmente c’erano pochi cellulari con questa tecnologia a bordo ma anche quando il loro numero è aumentato non altrettanto si è potuto dire delle realtà commerciali pronte a ricevere questo tipo di transazioni. Vedremo se questo sarà l’anno buono.
Il percorso dell’ecosistema è esattamente quello che ha portato al successo la navigazione mobile, partendo dal wap (dove non c’era offerta di siti) per passare al 3G che ha reso tutto più veloce (e in seguito anche economicamente accessibile) fino all’avvento delle app.
Proprio le app mi portano a un secondo punto: scarseggiano ancora le killer application che rendano diffuso e imprescindibile l’uso di questi strumenti per la larga fetta della popolazione.
Terzo, il rischio è l’incompatibilità tra sistemi chiusi e proprietari, che è un po’ la negazione stessa di internet ma che già si è iniziata a sentire proprio con i sistemi operativi mobili. Per questo tecnologicamente guardo con simpatia a tecnologie che comunque hanno un certo grado di neutralità, come iBeacon, ma anche in presenza di queste ci vuole un’offerta di contenuto o servizio rilevante e trasversale. Un’ultima considerazione riguarda le persone: io sono convinto che la tecnologia funziona quando quasi non ci si accorge di usarla tanto è naturale ed allo stesso tempo se ci migliora la vita realmente. Uno scenario dove tutto è connesso e ci avvolge minando la nostra privacy e forse anche la capacità di decidere da soli non mi piace ma confido che non sarà proprio così, anche se alcuni problemi dovranno essere affrontati. Semplicemente, gli standard e i servizi che daranno beneficio alle persone si diffonderanno realmente, mentre tante altre cose resteranno nicchie. Per questo chi sta disegnando questi mondi deve pensare alla customer experience ed ai bisogni delle persone. Voi che ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Spendiamo di più e sappiamo quello che vogliamo da device, smartphone e tablet. È quanto risulta dall’indagine Samsung dedicata al rapporto lifestyle-tecnologia in Europa Gli italiani riservano un budget di 559 euro per comprare elettrodomestici e device mobili, per uso ricreativo e social, contro i 360 euro degli spagnoli. Più parsimoniosi invece i tedeschi che spendono circa 323 euro, seguiti dagli inglesi con 274 euro e dai francesi con 223 euro.
Dalle stime del Technomic Index di Samsung, emerge anche che in media nelle famiglie italiane si attestano 16 dispositivi mobili, in linea con la media europea di 18 e che passiamo in media 8 ore davanti ai display di tablet, smartphone. Secondo le preferenze del campione italiano di intervistati, tra i 18 e i 65 anni, è la Tv la protagonista dei salotti (80%), seguita poi dalle lavatrici utilizzate almeno una volta alla settimana (76%), e dagli elettrodomestici per la cucina (81%). Inoltre, secondo i dati dello studio condotto, gli italiani non possono fare a meno di: tablet (50% in rapporto al 53% degli altri paesi intervistati), che risulta il device più regalato (16%); fotocamere (35% vs il 26% in Europa), le preferite per scattare foto.
Per gli smartphone abbiamo gusti precisi: secondo Samsung, ci aspettiamo che siano performanti e all’avanguardia (26%) e veloci ed efficienti (32%). Poi siamo molto sensibili al fattore mobilità per device: scegliamo nuovi tablet (19%) o macchine fotografiche (15%) perché più leggeri e più piccoli. Pc, tablet e smartphone li impeghiamo per navigare nella Rete (91%), per utilizzare app (79%), scattare foto (79%), per fare shopping online (70%), per vedere un film o ascoltare musica in streaming (58%), per social network (71%) e messaggistica istantanea (72%). Infine, per operazioni di online banking preferiamo il pc (98%) o il cellulare (70%).
Infine la tecnologia ha un ruolo importante per le nostre relazioni sociali, permettendoci di restare in contatto con i nostri familiari (80%) e di aumentare amicizie e relazioni con l’instant messaging (70%), tendenza in linea con la media europea.
Via Business People
Con l’ampliamento delle tecnologie digitali, i rivenditori hanno a disposizione potenzialità inedite per creare applicazioni ad hoc per conquistare la clientela. È quanto emerge dal rapporto Accenture Retail Technology Vision 2014 che esamina le principali tendenze della tecnologia in questo campo e delinea il loro impatto sul settore retail.
Gli ultimi cinque anni hanno cambiato il panorama delle vendite al dettaglio: oggi, ogni cliente è un cliente digitale, con delle crescenti aspettative circa la qualità e l’ubiquità della sua esperienza di shopping che dalla dimensione online si protrae fino alle attività in-store. È un cliente consapevole, che sa come gestire le transazioni e ne conosce ogni aspetto. Diventa quindi necessario mettere in campo risorse aggiuntive per conquistare il cuore di una clientela sempre più spesso corteggiata da un numero sempre crescente di operatori.
Allo stesso modo, le nuove forme di analisi e raccolta delle informazioni messe a disposizione dalle tecnologie stanno aumentando il livello di comprensione dei comportamenti dei clienti. Il continuo miglioramento delle infrastrutture permette infatti di supportare enormi quantità di dati e di analizzarli ed elaborarli in tempo reale. I rivenditori che vedono queste tendenze come opportunità hanno la possibilità di impostare il proprio business su più elementi: oltre a rafforzare le loro relazioni con i clienti, possono sfruttare efficacemente i dati a disposizione e ottimizzare le risorse professionali.
Secondo lo studio sono tre i fattori abilitanti che possono fare la differenza in questo campo.
La crescita dei device. La popolarità di tablet e smartphone è innegabile – di fatto, nel giorno medio il 79% dei consumatori parla al telefono o lo ha vicino per due ore nell’arco della loro giornata – e insieme a questo andamento positivo si registra un aumento dell’interesse dei consumatori intorno ai dispositivi indossabili come gli smart watch e i Google Glass.
Considerato questo radicamento dei dispositivi mobile nella vita quotidiana, i rivenditori hanno la possibilità di investire in applicazioni ad hoc al fine di fornire un “ponte”, senza soluzione di continuità, per consentire ai clienti di continuare le proprie esperienze di acquisto dallo shopping generico on-line a quello condotto all’interno di applicazioni brandizzate. Questo permetterà ai retailer di costruire relazioni più personalizzate e meglio differenziarsi dalla concorrenza.
Il ruolo dei social media. I rivenditori leader del settore utilizzano i dati sociali per analizzare i mercati locali su ampia scala, seguire le tendenze, identificare gli influencer e rispondere in modo intelligente alle diverse esigenze di pubblici eterogenei. Ma questo è solo il punto di partenza. Un uso intensivo dei social media può permettere di prevedere la domanda di determinati prodotti e influenzare la propria presenza sugli store on line per creare offerte più convenienti e personalizzate.
Gli store tecnologicamente avanzati. La presenza di store online costituisce una fortissima concorrenza per gli store “fisici” ma grazie alle nuove tecnologie i rivenditori possono arricchire l’esperienza di shopping nei propri negozi. Stampa 3D, tecnologie immersive, come la realtà virtuale, e applicazioni mobili possono trasformare rapidamente l’esperienza di acquisto e contribuire ad una differenziazione dei differenti venditori.
Saranno queste la chiavi del successo? La presenza di negozi, off line e on line, che offrono un servizio rapido, coerente, senza soluzione di continuità e attraverso canali multipli. In caso contrario, un altro rivenditore è solo ad un clic di distanza.
Via Tech Economy
Apple mira a controllare l'universo dei pagamenti mobili, diffondendoli, a scapito di Google e degli operatori mobili: grazie a un mix speciale di sicurezza e usabilità. È questa la lettura che un po' tutti gli esperti stanno dando ad Apple Pay, sistema annunciato il 9 settembre con l'iPhone 6 e l'Apple Watch. Per ora è previsto solo negli Stati Uniti (a ottobre), ma è quasi certo che il sistema arriverà in Europa e quindi (forse) anche in Italia. E sarà così: avviciniamo il nuovo iPhone (il sesto) al Pos del negoziante, poggiamo il dito sul lettore di impronte digitali integrato e usciamo, senza fare altro.
Abbiamo già pagato: con la carta di credito ospitata, in modo criptato, su un chip speciale del cellulare (il Secure Element); lo scambio di informazioni con il Pos avviene tramite onde radio (tecnologia Nfc). Ma con l'impronta digitale e Apple Pay potremo comprare anche online, al posto di digitare password o numeri di carta, come già possibile con Samsung. Certo, Apple non ha inventato nulla di nuovo. «Ma a dispetto dell'opinione comune, Apple non inventa mai un mercato. Piuttosto, si inserisce in quelli esistenti per ridefinirli, riuscendo a portarli verso il pubblico di massa», dice Ian Fogg, analista di Ihs.
È stato così con le app e gli smartphone. Forse Apple riuscirà nell'impresa anche con i pagamenti mobili di prossimità (Nfc), che finora sono rimasi in una nicchia. Gli utenti stentano ad adottarli anche negli Usa, dove c'è da tempo Google Wallet. I motivi principali, notano vari analisti (tra cui Gartner) sono due: dubbi sulla sicurezza del sistema e usabilità non eccelsa. Gli utenti cioè non colgono davvero il vantaggio a pagare in questo modo, in termini di comodità e risparmi di tempo, rispetto all'uso della carta fisica. Ecco perché Apple si focalizza su usabilità e sicurezza. Sulla prima perché fa pagare senza bisogno di app dedicate (che ci saranno ma saranno facoltative) e senza nemmeno bisogno di guardare il display (una vibrazione conferma l'avvenuto pagamento).
Sulla seconda perché Apple Pay fa tutto con crittografia e non usa mai i veri dati dell'utente. Sull'iPhone la carta è rappresentata da un Device Account Number, assegnato dal servizio, unico per ogni utente. Quando l'utente paga, viene scambiato con il Pos il Device Account Number insieme con un codice di sicurezza dinamico, specifico per quella transazione. Tecnicamente, è un «pan dinamico con tokenizzazione». Apple non ospita i dati sui propri server, a differenza di Google Wallet che usa il cloud. I servizi degli operatori mobili e le banche italiane hanno nella sim, invece, il secure element e poi fanno pagare con un'app dedicata. Di fatto però solo quest'anno i servizi arriveranno a maturità.
È recente l'arrivo di Tim Wallet e Vodafone Wallet, mentre per Wind dovremo aspettare il 2015; per 3 Italia fine anno o inizi del prossimo. Per di più, Tim Wallet funziona solo con carte di credito della banca Mediolanum e la prepagata della stessa Tim. Quello di Vodafone solo con la sua prepagata e, a breve, con Mediolanum. L'analogo servizio di Poste Italiane è vincolato ai conti Bancoposta. L'app di Intesa San Paolo funziona invece solo con le sim di Tm e di Noverca. Tutti gli attori lavorano ad accordi per ampliare il servizio a partire già dai prossimi giorni. «Bisognerà vedere l'impatto di Apple Pay sul mercato italiano e come reagiranno le banche, che hanno già investito su proprie app», dice Valeria Portale, che si occupa di pagamenti mobili presso gli Osservatori digital innovation del Politecnico di Milano. Apple Pay, a differenza di quanto si pensava, non dovrebbe scavalcare le banche: negli Usa funziona solo con le carte di credito di banche con cui Apple ha fatto accordi. «Il motivo è forse che c'è bisogno della collaborazione della banca, durante il pagamento, per confermare che il dato criptato corrisponde effettivamente a quella carta di credito», dice Portale. «Le banche italiane però non potranno opporsi al servizio di Apple, poiché grazie agli iPhone possono diffondere il nuovo metodo di pagamento», aggiunge. I principali sconfitti rischiano di essere insomma gli operatori mobili. Scontano ora di aver indugiato troppo per il lancio dei servizi, attendendo di accordarsi con le banche.
Via IlSole24Ore.com
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