Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Sono tante e diverse le incombenze da sbrigare prima di poter partire per una vacanza, e buona parte di queste spesso richiedono tempo e creano problemi che in genere si preferirebbe evitare. L'apporto della Rete in queste situazioni è tra quelli più apprezzati dagli utenti, proprio per la possibilità di ridurre intere procedure a pochi passaggi online, con l'ulteriore vantaggio di affrontare meglio anche gli imprevisti sul momento, sfruttando la connettività mobile. Il quadro che ne scaturisce presenta alcuni aspetti interessanti a livello IT, elaborati da Oxford Economics su richiesta di Amadeus e presentati nel corso di State of the Net, evento internazionale dedicato allo stato dell’arte della Rete, quest’anno incentrato sul tema della Smart Life.
I dati relativi agli USA rivelano come nel corso del 2013, tre utenti mobile su dieci abbiano prenotato viaggi attraverso il proprio smartphone e più del 50% abbia almeno cercato informazioni per la stessa via. Sempre oltreoceano, nel 2015 una prenotazione di hotel su tre verrà effettuata via mobile. In Europa, nello stesso anno una prenotazione di viaggio su cinque passerà da smartphone. Nel complesso, dal 2012 al 2014 il mercato globale dei viaggi generato dalle prenotazioni via mobile si prevede ammonterà a 25,8 miliardi di dollari.
Il settore del turismo contribuisce in maniera importante a determinare il PIL globale, con un tasso annuale di crescita del 5,4%. Grazie a questo, l’intero mercato nel 2023 viene stimato in un valore pari a 7.680 miliardi di dollari. Nel 2012 sono stati contati infatti 2,98 miliardi di passeggeri aerei, destinati a diventare 3,91 miliardi nel 2017. Di conseguenza, la migliore accessibilità alle reti mobile e alle relative soluzioni, prime tra tutte prenotazione e acquisto dei viaggi, diventerà uno dei fattori principali nello sviluppo dell’intero mercato.
Secondo la ricerca, nel 2013 sono stati registrati 2,2 miliardi di navigatori su Internet da mobile. Per la prima volta gli utenti mobile dei Paesi in via di sviluppo hanno superato il resto del mondo: sono ormai 1,2 miliardi di persone, con una crescita annua del 371,9%, contro un incremento medio del 45%. Da sottolineare come nei Paesi in via di sviluppo, la scarsa diffusione di carte di credito e gli storici problemi legati alla mancanza di infrastrutture a supporto delle linee telefoniche fisse abbiano generato una forte apertura al cambiamento tecnologico presso gli operatori, in particolare per lo sviluppo di soluzioni di pagamento via mobile.
Un esempio è fornito dalle app cinesi Bid to Win e Real Time Tracking. La prima consente, nei momenti di punta, di ingaggiare un'asta con altri viaggiatori per ottenere un taxi evitando lunghe attese, mentre la seconda torna utile a monitorare il tragitto del taxi prenotato verso la propria posizione.
Come sottolineano i ricercatori inoltre, in tutti i mercati gli operatori devono fronteggiare due diverse esigenze: la crescente cultura del cosiddetto now-ism e la domanda di seamless travel. Nel primo caso si analizza come la navigazione Web ad alta velocità e la disponibilità immediata di servizi online abbiano cambiato il modo con cui gli utenti si rapportano anche ai servizi offerti dal settore viaggi, dettando un mutamento della domanda. L’immediatezza del Web ha infatti generato la cultura appunto del now-ism, del "qui e subito": un utente su quattro abbandona una pagina Web se non viene caricata in quattro secondi e tre su cinque non tornano a visitarla una seconda volta. Nel secondo, si prende in considerazione la crescente esigenza di poter contare su una sorta di "pacchetto viaggio integrato", vale a dire senza soluzione di continuità dalla propria porta di casa fino alla destinazione finale.
Di fronte a cambiamenti di portata così ampia, il settore del turismo è quindi chiamato ad adeguarsi sotto svariati aspetti, in modo particolare per quanto riguarda infrastrutture e tecnologia. Viene infatti sottolineata la necessità di investire sulle infrastrutture a supporto della logistica del viaggio. Per esempio nel caso dei collegamenti tra gli aeroporti e le città diventerà indispensabile garantire il coordinamento tra i diversi mezzi necessari, attraverso piattaforme che assicurino la possibilità di utilizzare un solo biglietto, meglio ancora se virtuale, e un supporto informativo continuo via mobile.
Via Wireless4Innovation
Sembrerebbe proprio che ora tocchi ai videogiochi. Dopo musica, film, software e libri l'offerta in abbonamento sta prendendo le misure di un'altra industria, quella del gaming. I pionieri sono Electronic Arts (uno dei primi cinque publisher al mondo) che ha lanciato un servizio di sottoscrizione a cinque dollari al mese o 30 all'anno. Per questa cifra (e per ora solo su Xbox One e solo negli Usa) i giocatori potranno accedere a una serie di titoli e giocarli fin quando non scade l'abbonamento. Non ci saranno restrizioni, fanno sapere da Ea aggiungendo che il servizio si chiamerà Ea Access. Attualmente è in fase Beta e offre quattro giochi FIFA 14, Madden NFL 25, Peggle 2 e Battlefield 4, insomma praticamente il meglio della collezione di Ea. Inoltre gli abbonati potranno provare in anteprima giochi in uscita cinque giorni prima del lancio. Nulla si sa sugli sviluppi futuri di questa iniziativa, se per esempio verrà estesa a tutta la collezione o se comprenderà anche i nuovi titoli al momento del lancio (difficile...ndr). Di certo si sa che il modello sarà presto seguito anche da altri publisher magari interessati a raccogliere qualche soldo dai vecchi best seller. In qualche modo la soluzione di Ea potrebbe essere una risposta per contrastare il mercato dell'usato. Ricordiamo che proprio Microsoft detentrice di questa esclusiva con Ea in un primo momento aveva proposto e poi subito ritirato soluzioni di lucchetto digitale che avevano fatto infuriare i fan.
Abbonamento vs Download
Allargando lo sguardo la scelta di Ea è l'indizio di un nuovo modello di distribuzione dei contenuti digitali che in qualche modo sta togliendo spazio alla vendita al dettaglio (per così dire) rappresentata dall'ormai download. Playstation lancia domani negli Usa l' open beta di Playstation Now il suo servizio di videogame in streaming. Qui il comunicato. Qualche segnale in questa direzione arriva dall'industria musicale che sta sperimentando con successo lo streaming come propria tecnologia di riferimento. Tuttavia, sostengono gli analisti, non assisteremo a fenomeni di cannibalizzazione tra modelli di business differenti. Si va verso una convivenza tra consumatori digitali differenti. Da una parte i collezionisti più legati al possesso del bene fisico e dall'altra chi bada alla fruizione massiva di contenuti senza troppi sentimentalismi (quando l'abbonamento scade si perde tutto...). Più realisticamente si troverà modalità di offerte di contenuti in grado di contemplare entrambe le esigenze. C'è anche chi si è domandato a quanto l'all-you-can- eat delle digitale. Giornate dedicate all'abboffata di contenuti del tipo 24 ore per ingozzarsi di tutto. Naturalmente a prezzi modici.
I nuovi modelli di business del gaming
L'iniziativa di Ea arriva in ogni caso in un momento di grande trasformazione di questa industria. La distribuzione digitale sta neanche tanto lentamente prendendo il sopravvento su quella fisica (negozi, catene specializzate come GameStop o grandi store). Il mobile rappresenta il settore emergente e più interessante. Sulle console si concentrano pochi giochi con budget milionari in grado di garantire incassi stellari. Per quanto poi attiene al modello di business, il videogioco si sta configurando sempre di più come un servizio. Il boom del free-to-play, ovvero app ludiche che appaiono gratuite ai consumatori e che invece richiedono acquisti successivi per poter continuare a giocare ne è un esempio. E molto interessante sotto questo aspetto sarà misurare l'impatto di Destiny, un giocone fantascientifico di Activision che vuole fondere insieme le logiche economiche dei mmo multiplayer online game (mmo) al successo di genere dei first person shooter. Il nuovo titolo in uscita a settembre punta a essere una esperienza di gioco eccezionalmente longeva. L'avventura spaziale si andrà componendo nel tempo con nuovi missioni e nuove possibilità di personalizzazione del personaggio. Obiettivo è quello di non mollare la comunity di giocatori appassionati al titolo, offrendo nuovi giochi all'interno del gioco. Con efficaci economie di scale da parte dell'editore. Il tutto, naturalmente, a pagamento.
Via IlSole24Ore.com
Secondo una recente ricerca di mercato nell’ultimo anno sarebbe letteralmente impazzata la mania dei dispositivi indossabili facendo segnare un’incremento delle vendite del 684 percento!
La ricerca è stata effettuata da Canalys che ha divulgato i dati nel proprio sito web ufficiale dichiarando che in questi numeri non sono compresi gli Smartwatch.
I leader indiscussi di questo mercato sono Fitbit e Jawbone che tra l’altro sono anche rispettivamente il primo ed il secondo produttore al mondo di dispositivi indossabili.
La ricerca rivela che Nike ha perso molto del terreno guadagnato negli anni passati in questo mercato mentre al contrario Garmin con la sua gamma Vivo Fit sta riuscendo ad ottenere dei buoni numeri di vendita nei mercati principali.
Nella prima metà del 2013 sono stati piazzati (venduti) meno di 800 mila dispositivi indossabili mentre nello stesso periodo del 2014 si è sfiorata quota 4,5 milioni di pezzi venduti!
Per quanto riguarda gli Smartwatch invece abbiamo assistito anche qui ad una crescita molto importante anche se ovviamente il costo di questi prodotti è più alto.
Samsung è l’attuale leader di questo mercato grazie anche alla vasta gamma di dispositivi lanciati (Samsung Gear Live, Samsung Gear Fit, Samsung Gear 2, Samsung Gear 2 Neo e Samsung Galaxy Gear) mentre a seguire troviamo Pebble, un’azienda nata su Kickstarter che ha riscosso il successo che si meritava.
Nella prima parte del 2014 sono stati piazzati 2 milioni di Smartwatch, cifra destinata a salire nella seconda metà grazie all’arrivo di nuovi interessanti prodotti come Motorola Moto 360 o LG R Watch.
Via PianetaCellulare
Jianlin Wang, classe 1954, uno degli uomini più ricchi della Cina, oggi non ha dubbi: fare affari in Gran Bretagna è molto più facile che trattare con gli americani. Ed è per questa ragione che Wang, proprietario del gruppo finanziario e immobiliare Dalian Wanda, già da diversi mesi ha deciso di metter mano al portafoglio per investire nel Regno Unito la “modica” cifra di 3 miliardi di sterline (quasi 3,8 miliardi di euro). I soldi finiranno in progetti imprenditoriali di vario tipo, che faranno seguito all’acquisizione del gruppo Sunseeker International, noto produttore britannico di yacht finito nell’orbita del tycoon cinese già nel 2013. Le operazioni del gruppo Dalian Wanda sono però soltanto un piccolo spaccato di quello che sta accadendo da tempo a Londra e dintorni. Oggi, infatti, la Gran Bretagna sta scalzando gli Stati Uniti nel ruolo di destinazione preferita degli investimenti esteri cinesi.
Questo, almeno, è quello che ha scritto il noto magazine economico Forbes, quando ha raccontato un’altra operazione stellare avvenuta di recente sul suolo londinese. Si tratta dell’acquisto da parte del gruppo assicurativo China Life Insurance di una mega-torre da un miliardo di euro, nel centro direzionale di Canary Wharf. DA LONDRA A DUBLINO, VIA AMSTERDAM E MADRID I cinesi, insomma, hanno fatto rotta con decisione verso il Regno di Sua Maestà. A ben guardare, tuttavia, c’è poco da stupirsi nel vedere i nuovi tycoon della Repubblica Popolare sbarcare sulle sponde della Manica. La Gran Bretagna, infatti, è da almeno un trentennio la meta preferita in Europa (e non solo) degli investimenti diretti esteri, da qualunque parte arrivino. Poco importa se si tratta di operazioni messe in cantiere dai fondi sovrani o dai nuovi ricchi dell’Estremo Oriente oppure da qualche multinazionale con dimensioni planetarie. Chiunque metta mano al portafoglio, a Londra trova difficilmente le porte sbarrate. A dirlo sono anche i dati pubblicati dalla società di consulenza e revisione internazionale Ernst&Young che, nel 2013, ha calcolato la presenza nel Regno Unito di ben 799 progetti di investimento da parte di operatori esteri, che hanno generato oltre 27 mila nuovi posti di lavoro. Si tratta di una cifra superiore ai dati che si registrano in Paesi con un’economia più grande o con dimensioni simili a quella del Regno Unito. È il caso della Germania (che ha attirato 701 progetti) e della Francia (471 progetti). Per non parlare dell’Italia che, nella classifica di Ernst&Young non compare neppure, relegata probabilmente sotto la voce “altre nazioni”. La Gran Bretagna, però, non è l’unico Paese del Vecchio Continente ad avere la calamita per gli investimenti diretti esteri. Assieme al Regno Unito, per esempio, ci sono altre realtà che hanno un pil ben più modesto del nostro ma che, quando si tratta di attirare i capitali, distanziano la Peni sola in maniera evidente. Si prenda per esempio la Spagna: nel 2013, secondo Ernst&Young, ha attirato oltre 220 progetti di investimento da parte di soggetti stranieri. Secondo l’Unctad (la Conferenza della Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), lo scorso anno la Spagna si è piazzata addirittura prima in Europa per il valore assoluto degli investimenti diretti esteri, che hanno raggiunto i 39 miliardi di euro, contro i 37 miliardi del Regno Unito. Performance di tutto rispetto, in rapporto alle dimensioni geografiche ed economiche dell’intero Paese, sono state messe a segno però anche dall’Irlanda (36 miliardi di investimenti diretti esteri) e dall’Olanda (24 miliardi).
A SCELTA DI MARCHIONNE Ecco allora che sorge spontaneo un interrogativo: cosa hanno di speciale tutti questi Paesi per attirare così tanti investimenti da parte delle multinazionali? Forse una risposta fulminea potrebbe darla Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles (Fca Group), il nuovo gruppo nato dalla fusione tra la casa automobilistica torinese e la statunitense Chrysler. Quando si è trattato di scegliere dove mettere il quartier generale della neonata multinazionale, Marchionne e gli Agnelli non ci hanno pensato due volte: hanno scelto di andare via dall’Italia e di spostare la sede operativa ad Amsterdam e quella fiscale a Londra. La ragione? Semplice: in Gran Bretagna, c’è una tassazione sui dividendi più vantaggiosa che altrove, mentre in Olanda ci sono particolari regole societarie che assegnano un peso più rilevante nell’assemblea agli azionisti di maggioranza relativa delle aziende quotate. Di conseguenza, con meno del 30% del capitale, nei Paesi Bassi gli Agnelli potranno controllare meglio Fca Group di quanto non farebbero in Italia. È tuttavia un po’ riduttivo di spiegare l’appeal dell’Olanda e della Gran Bretagna verso gli investitori esteri con semplici ragioni fiscali o legali, come quelle che hanno spinto Marchionne a voltare le spalle a Torino. In realtà, la vicenda di Fca Group è soltanto un episodio, che descrive però molto bene l’atteggiamento di fondo che certi Paesi hanno nei confronti delle multinazionali. In Olanda e Gran Bretagna, ma anche in Svizzera, in Irlanda e ultimamente pure in Spagna, le porte sono quasi sempre aperte a chiunque voglia andare a investire. Niente pregiudizi o preconcetti, dunque, anche se le operazioni messe in cantiere sono poi molto “soft”, cioè si limitano all’apertura di qualche ufficio come nel caso di Fca Group (che nella sede di Londra avrà appena una cinquantina di dipendenti).
FISCO PIÙ LEGGERO Ben vengano gli stranieri, dunque. È il motto che accomuna i Paesi capaci di attirare maggiormente gli investimenti delle multinazionali, i quali hanno però declinato questo imperativo con modalità differenti, a seconda delle proprie vocazioni. La Gran Bretagna, per esempio, ha sfruttato soprattutto i vantaggi competitivi che gli derivano dall’avere un mercato finanziario gigantesco come quello di Londra. La Spagna, che negli ultimi anni ha attraversato una crisi profonda, sta invece puntando molto sulla flessibilità e sulla produttività del lavoro. Il merito (o la causa che dir si voglia) è di una discussa riforma dei contratti di assunzione attuata dal governo del popolare Mariano Rajoy, il quale ha reso più semplici i licenziamenti e tenuto fortemente sotto pressione il costo del lavoro, per ridare fiato agli investimenti esteri nell’industria manifatturiera. Olanda, Irlanda e Svizzera, invece, hanno fatto leva sul fattore fiscale, tenendo volutamente bassa la tassazione sul lavoro e sui profitti d’impresa. Per rendersene conto, basta dare un’occhiata ai dati sulla competitività dei Paesi pubblicati ogni anno dalla Banca Mondiale, nel report Doing Business in a more trasparente world. Secondo la Banca Mondiale, mentre in Italia la pressione del fisco e dei contributi sulle retribuzioni supera ampiamente il 40%, in Olanda e Svizzera è inferiore alla metà, cioè attorno al 18%, mentre in Irlanda è addirittura di poco superiore al 12%. I-tempi-della-burocrazia-in-Italia La burocrazia in Italia (fonte Banca Mondiale)
TUTTI A DUBLINO Proprio dall’Irlanda, arriva l’esempio più significativo su come la leva fiscale riesca a fare da calamita per gli investimenti esteri. Anche nei periodi più bui della crisi economica, quando il bilancio dello Stato era ormai in pezzi, il governo di Dublino si è infatti guardato bene dall’alzare la tassazione sui profitti societari, tenendola ferma al 12,5%, il livello più basso in Europa e tra i meno elevati al mondo. Inoltre, il fisco irlandese concede generosi crediti di imposta agli investimenti in ricerca e sviluppo e ha creato parecchie agevolazioni per le start up: le aziende di nuova costituzione con un reddito inferiore a 40 mila euro, infatti, per tre anni non pagano imposte sui profitti né sui capital gains. I risultati di queste politiche di apertura agli investimenti esteri sono sotto gli occhi di tutti. Dublino, infatti, viene tuttora considerata dalle multinazionali una sorta di paradiso degli affari, nonostante la crisi degli ultimi anni. In Irlanda, per esempio, hanno una propria sede ben nove delle prime dieci aziende farmaceutiche mondiali, otto dei maggiori gruppi internazionali del settore tecnologico e circa la metà delle banche presenti in tutto il pianeta. Senza dimenticare, infine, le regine di internet come Facebook, Google e Yahoo! che proprio in Irlanda hanno stabilito i loro quartier generali europei.
Oltre a pagare poche tasse, le multinazionali che vanno a Dublino riescono anche a versarle assai velocemente, senza doversi confrontare con una burocrazia strozzante e vessatoria. A testimoniarlo, ancora una volta, sono i dati della Banca Mondiale: secondo il report Doing Business, infatti, per portare a termine gli adempimenti fiscali le aziende irlandesi impiegano mediamente 80 ore di tempo all’anno, contro le 269 ore che ci vogliono in Italia. Su questo fronte, il nostro Paese viene battuto sonoramente anche dalla Svizzera (63 ore di tempo all’anno) dalla Gran Bretagna (110 ore), dall’Olanda (123 ore) e dalla Spagna (167 ore). Quando decidono se investire o meno in una determinata area geografica, di sicuro le multinazionali guardano anche questi dati.
E L'ITALIA? Essere dei tipi molto pazienti. In provincia di Perugia, infatti, il gruppo scandinavo aspetta da anni di costruire un nuovo grande punto vendita che darebbe lavoro a centinaia di persone ma, per adesso, tutto resta in stand by: dalle amministrazioni locali, impegnate in discussioni-fiume sull’opportunità di dare il via libera a questa operazione, le autorizzazioni a costruire non sono mai arrivate, né arriveranno in tempi brevi. In provincia di Pisa è andata invece un po’ meglio: nel marzo scorso, a pochi chilometri dalla città della torre pendente, la multinazionale svedese è riuscita finalmente ad aprire il suo secondo punto vendita in Toscana, dopo aver atteso però la bellezza di nove anni. Certo, inaugurare un megastore non è un gioco da ragazzi.
Tuttavia, come ha detto una volta il patron del gruppo Esselunga Bernardo Caprotti, nel nostro Paese sembra quasi più facile metter su una centrale nucleare che non avviare un supermercato. Sarà per questo motivo, probabilmente, che certe multinazionali straniere si guardano bene dal venire a investire in Italia. Quello di Ikea, infatti, non è l’unico caso di aziende estere che hanno dovuto fare a cazzotti con i tempi biblici della burocrazia made in Italy. Molti ricorderanno per esempio il caso del gruppo British Gas, intenzionato a costruire un impianto di rigassificazione a Brindisi, ma che, nel 2012, ha deciso di gettare la spugna. Il motivo? L’ostruzionismo delle autorità locali, ostili al progetto, che hanno costretto l’azienda ad attendere ben 11 anni per sapere se poteva davvero costruire o no quel benedetto rigassificatore, dopo che British Gas aveva speso comunque più di 100 milioni di euro per programmare l’investimento.
ULTIMI IN EUROPA Non c’è dunque da stupirsi se le iniziative straniere nel nostro Paese sono ridotte da anni al lumicino, almeno in rapporto alle dimensioni della nostra economia. Tra il 2008 e il 2013, per esempio, i flussi netti di investimenti esteri in Italia si sono fermati ad appena 12 miliardi di euro, pari allo 0,6% del pil, contro i 66 miliardi della Gran Bretagna, i 37 miliardi della Spagna e i 25 miliardi della Germania. Persino la Svizzera, che è un Paese ricco ma piccolino, ci batte alla grande, con un flusso netto di investimenti stranieri pari a 14 miliardi di euro tra il 2008 e il 2013. Senza dimenticare, poi, un particolare tutt’altro che trascurabile: quando scendono a Sud delle Alpi, le multinazionali estere vengono soprattutto per vendere i prodotti che fabbricano altrove e non certo per costruire nuovi insediamenti produttivi. Certo, dare la colpa soltanto all’ostruzionismo degli enti locali è forse una spiegazione un po’ troppo sbrigativa. Sta di fatto, però, che la presenza di una burocrazia e di uno Stato ingombranti è vista spesso dalle multinazionali come uno dei motivi per cui non conviene mettere piede in una determinata area geografica. A rivelarlo è anche un’indagine sulla competitività in Europa condotta dalla nota società di consulenza e revisione Ernst&Young (European attractiveness survey 2014). Tra i motivi per cui vale la pena insediarsi in un Paese, gli investitori internazionali mettono proprio al primo posto la stabilità e la trasparenza della politica, delle leggi e dei regolamenti, cose che in Italia restano purtroppo nel libro dei sogni. Dall’indagine di Ernst&Young, tuttavia, emergono altri fattori strategici che spingono le multinazionali e gli investitori esteri a scegliere determinate destinazioni, piuttosto che altre. Tra questi fattori, per esempio, c’è l’efficienza del sistema dei trasporti, il costo e la flessibilità del lavoro, la qualità delle telecomunicazioni, il livello di tassazione sui profitti delle aziende e il potenziale aumento della produttività per l’impresa, derivante dall’apertura di un nuovo sito sul territorio. Si tratta purtroppo di qualità che all’Italia mancano, del tutto o in parte. Nella Penisola, per esempio, consumare un megawattora di elettricità costa alle aziende una media di 184 euro, contro i 152 euro della Spagna, i 149 della Germania, i 130 della Gran Bretagna e i 100 euro circa della Francia. Come si può pensare, dunque, di essere produttivi con un prezzo dell’energia così elevato? La musica non cambia, però, se si prendono in esame altri aspetti del Sistema-Italia, a cominciare dal suo arzigogolato regime fiscale.
Secondo un’analisi effettuata tempo fa dagli investitori esteri di Confindustria (l’associazione di categoria delle aziende straniere presenti nel nostro paese), nella Penisola c’è un tax rate, cioè una pressione tributaria e contributiva sui profitti d’impresa, superiore al 69% contro il 37% della Gran Bretagna e il 30% della Svizzera. Per non parlare, poi, di ciò che avviene quando le imprese devono entrare nelle aule di un tribunale. Secondo le statistiche, la durata media di un contenzioso civile nel nostro Paese è di ben 493 giorni, circa il doppio rispetto ai tempi che si registrano in Germania, Francia e Spagna e quasi il quadruplo rispetto alla vicinissima ed efficientissima Federazione Elvetica, dove le controversie si risolvono in poco più di quattro mesi. Infine, a completare il quadro, si possono aggiungere anche i dati sulla produttività del lavoro. Per ogni ora trascorsa in fabbrica o in ufficio, infatti, un lavoratore italiano genera circa 58 euro di pil, con un gap tra il 4 e il 20% rispetto ai principali Paesi europei. WHY NOT ITALY? In una nazione con i numeri sopra evidenziati, sostengono alcuni osservatori, soltanto un fesso potrebbe mettersi a fare business. Eppure, secondo diversi studiosi, l’Italia mantiene ancora alcuni vantaggi competitivi che potrebbero imprimere una inversione di tendenza al declino strutturale degli investimenti esteri. A individuare questi punti di forza, che andrebbero stimolati con un po’ di riforme, è stato un gruppo di personalità costituito da manager di fondi di private equity, docenti universitari e rappresentanti di istituzioni di alto rilievo fra cui Borsa Italiana, l’Università Bocconi e la Harvard Business School. Questo gruppo si chiama Why Not Italy? (Perché non l’Italia?) e ha pubblicato un documento che evidenzia le risorse competitive di cui il nostro Paese dispone.
A Sud delle Alpi, per esempio, c’è un sistema bancario abbastanza solido, sostenuto anche dall’elevata ricchezza finanziaria e immobiliare delle famiglie. E ci sono pure molte ottime aziende ancora controllate dai loro fondatori, il 25% dei quali ha però più di 70 anni e si pone adesso il problema del passaggio generazionale, esplorando la possibilità di trovare nuovi partner, anche stranieri. Inoltre, nel nostro Paese non manca neppure un sistema dei trasporti e della logistica che, bene o male, è abbastanza avanzato e potrebbe attraversare una nuova fase di sviluppo, soprattutto per una ragione: sul territorio italiano, sono stati fissati dall’Ue gran parte dei corridoi ferroviari e stradali europei che collegheranno il Nord al Sud e l’Est all’Ovest del Vecchio Continente. Non va dimenticato, poi, che nel nostro Paese c’è anche un'industria del private equity abbastanza sviluppata, mentre la Borsa di Milano, pur essendo un mercato piccolo per il numero di aziende quotate, è invece una piazza finanziaria molto florida per quanto riguarda la negoziazione dei prodotti derivati e soprattutto di obbligazioni, per le quali dispone della piattaforma di trading più avanzata in Europa.
Infine, se a questi punti di forza si aggiunge pure la nostra attrattività turistica e il nostro grande patrimonio culturale, l’immagine che emerge dell’Italia è ben diversa da quella di un Paese da cui conviene tenersi alla larga. Mancano soltanto alcune riforme strutturali, che non sono però difficili da individuare. Per avere qualche suggerimento, basta leggere i report dell’osservatorio creato dall’Aibe (l’Associazione delle banche estere presenti in Italia) sui punti di forza e di debolezza del nostro Paese. Tra le riforme auspicate nella Penisola, il 55% degli investitori stranieri interpellati dall’Aibe ha individuato soprattutto lo snellimento della burocrazia e del carico normativo per le imprese, il 50% ha auspicato una riduzione dei tempi della giustizia civile, il 41% degli intervistati si augura una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, mentre il 36% vuole un minor carico fiscale sulle aziende. Tutte cose di cui si parla da anni ma che, nei palazzi romani, restano purtroppo ancora solo sulla carta.
Via Business People
Nessuna sorpresa per le prime posizioni. , Singapore, Svezia e Hong Kong occupano le prime tre posizioni nella classifica dei paesi che si candidano ad accogliere il prossimo miliardo di utenti internet, grazie alle loro economie digitali evolute e ancora in crescita. Il Regno Unito e la Svizzera completano la top 5, mentre gli Stati Uniti occupano la sesta posizione tra i 50 paesi presi in esame. L’indice è appena nato e ha lo scopo di consentire a imprese, governi e istituzioni di comprendere l'evoluzione del panorama digitale mondiale.
Come è stato elaborato l’indice
Il Digital Evolution Index è stato elaborato da MasterCard e The Fletcher School presso l'Università di Tufts analizzando i dati provenienti da fonti pubbliche, come la World Bank, e da fonti private come EMPEA e Dow Jones VentureSource. Il team di ricercatori ha creato un quadro analitico per riconoscere modelli e rappresentare il panorama digitale globale, distinguendo i trend di ogni paese e valutando i loro punti di forza e di debolezza. La metodologia alla base dell'indice di evoluzione digitale misura l'attuale capacità di ogni paese di rispondere alle richieste dei consumatori, di offrire le infrastrutture necessarie alle imprese, considerando anche le politiche di governo e l'atteggiamento verso l'innovazione – i quattro motori che definiscono la predisposizione verso il digitale, alla base della ricerca. In aggiunta alla situazione attuale, lo studio prende in esame la traiettoria di ogni paese secondo i quattro fattori, dal 2008 sino al 2013. L'indice fornisce, infine, un quadrante per visualizzare la traiettoria di un determinato paese.
Le economie digitali che corrono di più.
Cina, Malesia e Tailandia si classificano ai primi 3 posti tra i paesi che evolvono più rapidamente verso l'economia digitale, grazie alla rapido aumento degli utenti internet e degli utilizzatori di smartphone. L'Italia si classifica alla 38° posizione, subito dopo il Messico e prima di Polonia e Russia e viene considerata nello studio con buone potenzialità (anche se tuttora non pienamente espresse) per diventare un paese a elevato sviluppo digitale, soprattutto grazie alla propensione nei confronti dell'innovazione (con un punteggio di 39,27, simile alla Spagna).
Via IlSole24Ore.com
Il terremoto originato dall'avvento dei servizi di streaming non crea sconquasso presso tutte le piattaforme dedicate all'acquisto di musica digitale: Google, che offre dal 2013 il servizio di streaming Play Music All Access, pronto ad integrarsi nell'offerta di YouTube Music Key, e che può soppesare le tendenze sulla base dei propri dati relativi ai download dell'offerta di Play Music, afferma di non percepire i turbamenti che stanno mobilitando gli operatori di settore nella corsa allo streaming.
Se è vero che i numeri del mercato della musica digitale stanno iniziando a pendere a favore dello streaming e di un modello di fruizione della musica basato sul consumo piuttosto che sul possesso, la dirigente della divisione Global Music Partnerships di Google, Zehavah Levine, disegna una quadro meno radicale: "Non crescono solo i sottoscrittori di abbonamenti - ha dichiarato nel corso di un'intervista rilasciata a Techcrunch - ma crescono anche i numeri dei nostri download nonostante i trend in atto sul mercato".
Levine illustra le proporzioni tra i due servizi imitandosi a spiegare che lo scorso anno il 67 per cento del fatturato in ambito musicale è stato rappresentato dai download, non spiega se i successi dei download siano determinati da uno zoccolo duro di appassionati o se la loro crescita sia determinata da un diffuso interesse da parte di tutti gli utenti, né se i download premino particolari categorie di opere. Raffigura però la posizione di Google spiegando che, fra coloro che si sono abbonati a Play Music All Access, sono di più gli utenti che hanno cominciato a comprare musica dopo essersi registrati al servizio di streaming rispetto a coloro che hanno smesso di acquistare musica dopo essersi abbonati. "Non c'è cannibalizzazione" tra i due diversi tipi di fruizione, sostiene Levine, "c'è spazio per entrambi".
Ma Google rappresenta un soggetto del tutto particolare sul mercato: rispetto ad attori come Apple detiene il vantaggio di poter contare contemporaneamente su un servizio di download e un servizio di streaming, oltre al magmatico contenitore di musica rappresentato da YouTube, e il potere totalizzante della propria presenza in Rete non consente di confrontare la sua iniziativa musicale con altri operatori che si muovono nel solo mercato musicale. Tuttavia, lo ha spiegato la stessa dirigente di Google, lo streaming diventa profittevole solo se declinato su larga scala e Mountain View, proprio come Apple con Beats e proprio come SoundCloud, da tempo si sta attrezzando per proporre lo streaming in grande stile e per concretizzare le enormi potenzialità musicali della propria piattaforma di videosharing: in parallelo alla riorganizzazione dell'offerta musicale gratuita di YouTube, ha appena lanciato YouTube Music Key, proposta su abbonamento che si combinerà a Play Music All Access per una fruizione di contenuti audio e video capace di prestarsi a una fruizione meno macchinosa e più fluida rispetto a quella del Tubo.
Anche uno degli ostacoli principali al lancio del servizio, vale a dire la ferma opposizione delle etichette indie, che rivendicano eque retribuzioni per l'utilizzo delle opere, sembra essere stato scavalcato: secondo indiscrezioni raccolte dal Financial Time alla vigilia del lancio di YouTube Music Key, Merlin avrebbe strappato a Google un accordo più favorevole di quello che le era stato sottoposto nei mesi scorsi. La Grande G ha dunque ceduto laddove sembrava incrollabile, a dimostrazione della urgenza con cui ha perseguito l'allineamento con la concorrenza degli altri importanti fornitori di musica a consumo.
Solo dopo il rodaggio di YouTube Music Key si potranno verificare le previsioni di Levine, e si potrà osservare se il nuovo servizio rosicchierà la base di utenza che ora spende per acquistare la musica con la mediazione di Google Play. Mountain View per ora mostra di non temere per il mercato dei download: la dirigente spiega che per solleticare l'interesse degli utenti è possibile proporre certe offerte premium, così come è nei programmi di Apple, quali formati di alta qualità, probabilmente capaci di far pendere la scelta dei musicofili verso il possesso della musica e invitarla a non limitarsi al semplice consumo.
Via Punto Informatico
Come destinazione turistica, l’Italia continua a mantenere una forte attrattività, come dimostra anche il Country Brand Index 2012-2013, che colloca l’Italia al primo posto mondiale per patrimonio artistico e culturale, storia ed enogastronomia. L’appeal dell’Italian Life Style è testimoniato, tra l’altro, dal fenomeno crescente del turismo proveniente dai Paesi dalle nuove economie in forte crescita, come l’India. Basti pensare al caso di giorni alcuni giorni fa, in Puglia, dove due importanti famiglie imprenditoriali indiane hanno organizzato il matrimonio dei loro figli, spendendo milioni di euro sul territorio di Fasano, in provincia di Brindisi: il tutto è nato dalla passione per l’Italia innescata nei due sposi da una produzione bollywoodiana girata proprio in Puglia. Lo stesso sta accadendo coi turisti cinesi, per non parlare di mercati come quello russo, americano e certamente dell’Europa centrale e settentrionale.
Il tema a questo punto sta nel creare strumenti utili per le piccole e medie imprese turistiche per intercettare la domanda (che c’è) e massimizzare i profitti. Nonostante l’eccellenza provata del Made in Italy e il fatto che l’Italia abbia 50 siti patrimonio dell’Unesco (fra cui da ultimo il riconoscimento delle Langhe, portando l’Italia ad essere il primo Paese al mondo per siti riconosciuti), è necessario mettere a sistema questo grandissimo potenziale, che può rappresentare la vera chiave di volta dell’economia italiana.
Non dobbiamo inventare nessuna ricetta, bensì favorire quelle spinte positive che già fra i nostri imprenditori ci sono. Un primo modo per innovarsi è investire intelligentemente in tecnologia e sensibilizzare l’industria turistica in questo senso. Fra tutti i comparti del business, il turismo è stato uno dei primi settori ad essere profondamente impattato dalla rivoluzione digitale, al punto da diventare il primo segmento di mercato per l’ecommerce mondiale.
Oggi, ben oltre il 50% dei viaggiatori usa il web, in gran parte da mobile per individuare, selezionare e acquistare un viaggio o un pernottamento. Anche in Italia, il turismo raccoglie la fetta più grande del fatturato di acquisti online, generando quasi il 40% del giro d’affari dell’ecommerce del nostro Paese (si parla di 11,2 miliardi di € totalizzati nel 2012).
Nonostante questo, fra le principali destinazioni del turismo internazionale l’Italia viene, nell’ordine, dopo la Francia, gli USA, la Spagna e la Cina. Se pensiamo che nel 2013 l’indotto turistico nazionale ha generato oltre 10 punti di Pil, comprendiamo bene quale potenziale ancora inespresso abbiamo in casa. Le previsioni per il 2014 del World Travel & Tourism Council parlano di un incremento del 2,1% dell’economia turistica, che raggiungerà quota 163 miliardi di euro.
Per crescere però ogni territorio deve avere buone infrastrutture connettive, per permettere ai turisti non solo di essere raggiunto rapidamente, ma di poter offrire in modo semplice e rapido l’accesso a tutte le bellezze naturali, storiche, culturali, enogastronomiche.
Tra le infrastrutture connettive, chiaramente vi sono le reti a banda larga, che permettono al turista una fruizione web completa e una altrettanto completa e immediata condivisione delle esperienze di viaggio. I turisti oggi desiderano poter condividere in tempo reale i momenti vissuti con amici e conoscenti, altri potenziali turisti. Per fare tutto questo, è necessario disporre dell’opportuna infrastruttura di telecomunicazioni (wifi o connessioni veloci in banda mobile) per poter accedere velocemente alla rete in tutto il territorio nazionale e in primis nelle zone turistiche. Un punto prioritario è per questo la concessione di un credito d’imposta per le imprese turistiche che investano in innovazione tecnologica.
Tutto questo anche perché la crescita del turismo in Italia è anche legata al superamento della vecchia logica del “i turisti mi arrivano comunque, non devo fare nulla”. Il turismo è un settore sempre più competitivo, dove è necessario proporsi sul mercato mondiale con servizi innovativi presentati in modo flessibile, accattivante e focalizzato rispetto ai desideri dei potenziali clienti. Il concetto “ogni turista porta ricchezza e lavoro nel mio territorio”, diffuso in alcune aree del Paese, deve diventare un sentimento condiviso tra gli amministratori pubblici e tra i singoli cittadini.
Via Agenda Digitale
Prosegue la crescita del mercato discografico italiano nel 2014, dopo i primi dati positivi del 2013. Secondo i dati certificati da Deloitte l’anno appena trascorso si è chiuso con un incremento del 4% e un fatturato di 122 milioni di Euro al sell in. Nel 2013 il mercato era tornato a crescere dopo undici anni consecutivi di calo.
Complessivamente il segmento digitale, sul dato annuale, rappresenta il 38% del mercato contro il 32% del 2013.“Guardando i dati nel dettagli – ha dichiarato Claudio Ferrante, Presidente e fondatore di Artist First – è evidente che l’impatto dello streaming è molto forte: è ormai fuori di dubbio che il mercato stia andando in quella direzione e che, in futuro, le piattaforme di streaming saranno sempre più utilizzate. Il punto focale sarà la possibilità di accedere a pagamento a un’offerta molto variegata e particolarmente profilata sull’utente, così come oggi avviene con l’offerta televisiva. E’ una frontiera che ancora tarda ad affermarsi in Italia. D’altra parte, bisogna considerare che il supporto fisico rappresenta ancora la fetta principale del mercato, pari al 62%. Questo dimostra come, praticando un prezzo equo all’utente finale o dando un valore aggiunto con la realizzazione di confezioni de-luxe che possano appassionare il pubblico, oltre all’oggetto che è il CD, è possibile puntare ancora sulla diffusione del supporto fisico parallelamente a quella digitale”.La crescita è stata trainata soprattutto dai servizi streaming come TIMmusic, Google Play, Spotify, Deezer, YouTube e Vevo che complessivamente sono saliti di oltre l’ottanta per cento. Nello specifico, i servizi sostenuti da pubblicità sono cresciuti dell’84% mentre quelli in abbonamento del 82%.
Oggi lo streaming rappresenta il 57% del digitale contro il 43% del download, sceso nel 2014 del 15%.Nel 2013 lo streaming rappresentava il 12% del totale mercato, oggi il 22%. Da rilevare il rallentamento del calo del supporto fisico che rappresenta comunque il 62% del mercato, e in questo contesto va segnalata inoltre la costante crescita del vinile, cresciuto dell’ 84% anche se rappresenta sempre un fenomeno di nicchia con il 3% del mercato.
Via IlSole24Ore.com
C’era una volta il vinile, impiegato per decenni come unico supporto per l’ascolto dei dischi. Venne poi l’epoca dell’audiocassetta, che ha consentito a chiunque di prendere confidenza con il concetto di compilation e playlist personalizzate. Un approccio alla creazione e alla fruizione della musica evoluto ulteriormente con l’introduzione del CD prima e dei formati digitali successivamente, in particolare con la compressione offerta dall’MP3. L’ultima (almeno per il momento) innovazione che ha interessato il mercato discografico è rappresentata dalle piattaforme di streaming: la formula dell’acquisto è rimpiazzata da quella del noleggio in abbonamento e gli utenti possono accedere in modo istantaneo ad un catalogo ampio, smisurato, composto da decine di milioni di brani.
Streaming: nuovo modello, nuova musica La grande novità consta nel fatto che non si possiede la musica né in forma “solida” (CD, vinile, cassetta), né in forma digitale (sotto le sembianze di un file): quel che si possiede è semplicemente il diritto di accesso e fruizione al contenuto. La canzone può essere organizzata in playlist, eventualmente anche scaricata in locale, ma l’accesso alla stessa sarà sempre e comunque vincolato ad una durata. La cui scadenza è fissata con il termine del contratto di abbonamento siglato.
Il diritto di accesso si sostituisce al diritto di proprietà (sebbene quest’ultimo fosse in discussione già prima dell’arrivo dello streaming). Il primo nome a portare avanti con forza l’idea dell’abbonamento fu Napster, ma i tempi non erano ancora maturi e il nome che rese celebre la pirateria online dovette alzare bandiera bianca. Molte altre proposte ci hanno provato in seguito, cercando formule che sono state plasmate nel tempo fino alle odierne proposte con cui l’industria spera di riconquistare il mercato.
La formula dello streaming, infatti, piace tanto agli utenti (che a modico costo possono accedere a tutta la musica che vogliono, quanto alle grandi etichette, che in qualche modo riprendono in mano la situazione dopo aver passato anni alla ricerca di uno sbocco per uscire dalla crisi. E l’incedere delle soluzioni e della concorrenza spinge peraltro verso il basso i costi, stimolando l’esplosione del settore. Il mobile fa il resto, mettendo la musica nelle mani degli utenti ovunque vi sia una connessione.
Musica in streaming: quanto costa? I prezzi per l’accesso alle funzionalità premium offerte dai servizi di streaming musicale sono piuttosto allineati: 9,99 euro al mese nella maggior parte dei casi. Fanno eccezione allo standard la formula Elite di Deezer (14,99 euro al mese per dodici mesi) e quella a qualità elevata di TIDAL (20 dollari). Google Play Music, invece, offre ancora oggi l’accesso al catalogo di Unlimited a 7,99 euro per chi al lancio italiano nel 2013 ha scelto di abbonarsi fin da subito, garantendo così un risparmio non indifferente sul lungo periodo.
Molto o poco? Il prezzo è un fattore estremamente soggettivo, da valutarsi soprattutto con il tipo di rapporto che si ha con la musica. Occorre considerare in ogni caso come il costo possa essere generalmente molto limitato in virtù della possibilità di gestire playlist proprie, scegliendo in un bacino infinito di possibilità e potendo portare appresso la propria musica tanto in casa, quanto sullo smartphone, quanto durante l’allenamento, quanto ancora nei momenti di relax: ogni singolo brano è disponibile sempre e comunque, aprendo opportunità mai sperimentate fino ad ora. L’era del CD è lontana: ognuno può attingere dagli album in commercio per costruire compilation personalizzate, modificabili, condivisibili. E la componente social aumenta le possibilità di scoperta di nuova musica.
Molto o poco? Il giudizio sta alla scelta di ognuno, ma lo streaming sembra ormai imporsi come nuova grande opportunità per tutti coloro i quali vogliono avere una colonna sonora in grado di sottolineare ogni momento, ogni emozione ed ogni situazione della propria quotidianità.
via Webnews
Il 97% degli italiani che comprano libri online sceglie quelli di carta mentre il 41% acquista ebook ma si arriva al 49% considerando chi scarica libri digitali gratuiti: sono questi i dati più sorprendenti che emergono dall’indagine Nielsen Consumer book buying, in digital and print, presentata ieri in anteprima a Editech 2015, l’appuntamento sull’innovazione tecnologica nel settore dell’editoria libraria, organizzato dall’Associazione Italiana Editori (AIE).
Lo studio è stato svolto su un campione di 2000 individui, rappresentativo degli utenti digital, di età compresa tra i 18 e i 64 anni e fotografa, per la prima volta nel nostro Paese in modo puntuale, le risposte dei consumatori italiani su come scoprono e acquistano online libri ed ebook.
Così, tra chi acquista online i libri digitali, uno su tre dichiara di leggerlo su PC o computer portatile e, sempre uno su tre, afferma di farlo su tablet, più frequentemente, iPad. Uno su 5 lo legge su un e-reader (con Kobo proprio davanti al Kindle), ma c’è anche un italiano su sei che lo legge sul cellulare. Tra gli italiani che comprano spesso o sempre libri, chi lo fa online cerca il prezzo migliore, con un terzo degli acquisti che convergono sugli store. Infatti un quarto di chi ha risposto all’indagine afferma di comperare spesso ebook perchè il prezzo è più basso rispetto all’edizione cartacea.
Oggi i libri di carta si scoprono e poi si comprano online prima di tutto grazie ai reading degli autori e alla serialità della narrazione. Gli ebook, invece, si scelgono dopo aver navigato, innanzitutto sui siti delle librerie online e poi sui siti degli autori ed editori e infine, ancora, grazie a reading degli autori. Per scoprire i titoli, invece, il passaparola funziona ancora bene per i libri di carta, meno per gli ebook, in cui blog e riviste online di libri risultano molto più efficaci. In entrambi i casi, l’email marketing o le newsletter di librai ed editori slittano agli ultimi posti per efficacia.
Da tener presenti le abitudini online degli italiani: 7 su 10, tra i 18 e i 64 anni, naviga su internet ogni giorno. Due terzi usa Facebook e Twitter ogni settimana, mentre la metà legge ogni settimana un quotidiano online e compra o cerca prodotti online. Un terzo usa ogni settimana giochi, tv o film online. E chi acquista ebook utilizza molto di più i social media rispetto a chi compera i libri di carta. I preferiti? Facebook su tutti, seguito da WhatsApp, Youtube e Google+ e Twitter. L’impegno settimanale nelle attività online decresce con l’età, in particolare per i social media e per guardare film e tv online. Al contrario cresce, con l’aumentare dell’età, la lettura di quotidiani e periodici online.
Via Tech Economy
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