Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Chi ha avuto modo di leggere da un po’ di tempo i miei interventi sul blog sa quanto mi siano cari i temi della reputazione online e del corretto uso del networking come strumento di crescita per il business.
Per questo ho guardato con molto piacere e grande simpatia la partenza del progetto di www.gliaffidabili.it, un sito dove il rating dei servizi e dei professionisti presenti è dato dalla loro reputazione basata sui feedback degli altri utenti.
Si tratta di un meccanismo che nel mondo anglossassone viene definito con il termine raccomendation, che da noi evoca raccomandazione nella sua accezione negativa, mentre in realtà è qualcosa di analogo alle reviews di prodotti che sono uno dei plus nella scelta di un prodotto online.
Visto però che siamo in un’ottica web 2.0 queste recensioni si accompagnano alla vera star della nuova rete: la persona.
E’ qualcosa di diverso dal passaparola, come bene evidenziato in un suo post da Valeria Rubino, che cita Adam Arvidsson: “la prossima economia sarà un’economia etica non più basata sul lavoro, come è stata l’ultima economia capitalistica, ma sull’abilità di costruire relazioni sociali eticamente significative”.
Noterete l’assonanza con una frase di Rifkin che cito spesso e che uno slogan usato appropiatamente dal network relazionale Connecting-Managers: “Il reale valore nel terzo millennio delle aziende e dei manager che le dirigono, non sarà il fatturato che essi producono, bensì il numero e la qualità delle relazioni da essi instaurati con i propri target interlocutori e di riferimento interni ed esterni”.
Un grafo di social network analysis, fonte http://www.fmsasg.com
La cosa che però va evidenziata, e in questo i fondatori di Gli Affidabili sembrano avere le idee chiare, è la dimensione etica: non si tratta di un accumulo di review più o meno significative scritte su commisione nè di un meccanismo di solo passaparola.
Le relazioni e la reputazione si costruiscono infatti nel tempo, come qualunque vantaggio competitivo, ma si possono danneggiare in un attimo con comportamenti scorretti.
Qulcuno dirà che questa è filosofi, invece si tratta di razionalità economica: il valorie aggiunto della reputazione diventa il driver motivazionale per la partecipazione ad una transazione, gli attori se traditi porterenno il mercato a scambiare altrove. In più chi favorisce la creazione e la gestione delle comunità che creano questo capitale di scambio, creano a loro volta valore (economico).
E allora, vi sentite pronti ad iscrivervi a Gli Affidabili e mettere alla prova la vostra reputazione?
Gianluigi Zarantonello via http://webspecialist.wordpress.com/
L’altro giorno, in un raro momento di calma davanti al pc, mi sono perso a girare da un profilo all’altro di alcuni social media (Facebook, Twitter, FriendFeed e altri), spingendomi anche negli amici degli amici.
Davanti alla quantità enorme di messaggi che incontravo a mano a mano mi è salito dentro la testa un dubbio, quanto ancora la nostra mente e la nostra attenzione saranno in grado di gestire questo bombardamento? Non c’è troppo chiasso? Dal momento che conoscete il mio amore per i social media fin da tempi non sospetti (le mie prime esperienze in merito risalgono al 2002) penserete che io sia improvvisamente impazzito. Non è così (al massimo sono un po’ stressato).
Non ho smesso di credere che la strepitosa possibilità di espressione e di creazione in una propria identità sul web 2.0, se la sa usare, sia una delle più grandi rivoluzioni del nostro tempo. Moltissimi dei miei contatti sono poi persone che scrivono cose interessantissime su argomenti che condividiamo, oltre a lasciarsi andare a qualche momento di piacevole svago. Ciò non toglie che con sempre più gente online questa grande conversazione stia diventando un po’ rumorosa, tanto più che vi entrano molte aziende che la scambiano erroneamente per uno spazio dove replicare i loro spot invece di dialogare con gli utenti.
Si tratta dunque di una situazione di troppa ricchezza, che offre scelta infinita ma che rischia di impedire di fruire di ciò che si vuole se non lo si riesce a trovare. Ma Internet è un mercato dalla lunga coda, come ci insegna Chris Anderson: liberi dalla tirannia delle frequenze limitate, delle pagine stampate e dei palinsesti tutti i nostri contenuti, come tutte le merci, corrono incontro ad un mercato illimitato dove almeno qualche persona li “comprerà”, preferendoli ai bestseller. In questa curva la grande massa dei micro-contenuti, sommata assieme, diventa maggioranza facendo la fortuna di realtà come YouTube, eBay o anche Amazon.
E allora che cosa manca? Secondo me il futuro dei social media passa per la possibilità di avere, o creare, dei filtri che ci permettano in modo intelligente e dinamico di trovare quello che cerchiamo, come per le merci della coda lunga (per cui sono requisito fondamentale). Sicuramente già oggi qualcosa c’è ma credo che l’evoluzione in tal senso sia una delle sfide del futuro, per non essere sommersi dal clamore di tante voci che ci stanno parlando tutte assieme, senza sacrificare la libertà di nessuno.
Voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello via http://webspecialist.wordpress.com
La Commissione europea ha stilato una relazione all'interno della quale indica l'economia digitale come soluzione per far fronte alla crisi economica. La situazione dello Stivale in termini di connessioni alla rete e utilizzo di internet appare nello studio assai critica: l'Italia si classifica undicesima per la copertura della Dsl, con una percentuale del 95,3% (conducono Francia, Danimarca e Lussemburgo con il 100%), scivola al 15esimo posto, con l'82%, se si parla di copertura nelle aree rurali (svettano ancora Francia, Danimarca e Lussemburgo con il 100%) e crolla in 24esima posizione nella graduatoria delle case connesse alla banda larga. Nella Penisola è solo il 31% della abitazioni a essere collegato a internet veloce, dato superiore solo alle percentuali di Grecia (22%), Bulgaria (21%) e Romania (13%). Si distinguono positivamente Danimarca (74%), Olanda (74%) e Svezia (71%).
Migliora leggermente la situazione se si parla di collegamenti a banda larga nelle imprese: l'Italia è 14esima con l'81%, in una classifica dominata da Francia (92%), Spagna (92%) e Finlandia (92%).
Scarso l'utilizzo del web da parte degli utenti privati italiani: solo il 35% si connette tutti i giorni (19esimo posto) e uno scarso 15% sfrutta la rete per scaricare legalmente film o musica (27esimo e ultimo posto).
Allargando il campo d'analisi all'intera Unione europea emerge che nel 2008 il 56% degli europei è divenuto un utilizzatore regolare di internet, facendo così registrare un balzo in avanti di un terzo in più rispetto al 2004. Oggi più della metà delle famiglie e oltre l'80% delle aziende ha una connessione a banda larga. La percentuale cresce se si prende in considerazione la fascia d'età 16-24: il 73% usa regolarmente servizi avanzati per creare e condividere contenuti on line, il doppio della media della popolazione dell'Ue. l 66% degli europei di meno di 24 anni usa internet ogni giorno, rispetto alla media dell'Ue del 43%.
Anche se la 'generazione digitale' sembra restia a pagare per scaricare da internet o guardare online contenuti quali video o musica (il 33% afferma di non essere assolutamente disposto a pagare, pari al doppio della media Ue), in realtà nella loro fascia di età quanti hanno pagato per ottenere questi servizi sono il doppio rispetto al resto della popolazione (10% degli utenti giovani, rispetto alla media Ue del 5%).
"L'economia digitale dell'Ue offre un ampio potenziale per generare forti entrate in tutti i settori, ma per trasformare questa situazione favorevole in crescita sostenibile e nuovi posti di lavoro i governi devono prendere l'iniziativa e adottare politiche coordinate per eliminare le barriere che ostacolano i nuovi servizi - ha dichiarato Viviane Reding, commissaria dell'Ue responsabile della società dell'informazione e dei media - Dovremmo cogliere l'opportunità di una nuova generazione di europei che ben presto deciderà le sorti del mercato europeo. Questi giovani usano molto internet e sono inoltre utenti molto esigenti. Per sfruttare il potenziale economico di questi 'figli dell'era digitale' dobbiamo garantire che l'accesso ai contenuti digitali sia semplice ed equo".
Via Quo Media
Pagare le news su Internet, alla stessa stregua di come si scaricano legalmente le canzoni? La possibile risposta di milioni di internauti sarebbe la seguente: ma quando mai. E l'ipotesi di un identico modello commerciale di vendita, buono sia per le informazioni che per la musica, che ponga in regime di libera concorrenza tanto gli editori quanto le case discografiche? Il tema è stuzzicante ancorché particolarmente complesso e di strettissima attualità per quanto riguarda il discorso delle news. L'uscita dei giorni scorsi di James Murdoch, presidente e amministratore delegato di News Corp. per l'Europa e l'Asia nonché rampollo del più famoso papà Rupert, è lo specchio di una delicata questione.
"È giusto far pagare un prezzo equo per le notizie on line - ha detto il figlio del magnate australiano - altrimenti sarà penalizzata la qualità. Il consolidato modello di offrire "free" l'informazione in Rete sarà anche superato ma c'è chi, fra gli analisti di settore, che osserva come il successo del sistema delle notizie a pagamento su Internet si possa concretizzare solo nel caso in cui l'intero mondo del Web faccia "cartello". Senza un accordo definito a tavolino fra i fornitori di contenuti è pressoché scontato, secondo questa visione del fenomeno, che gli utenti continueranno a cercare on line – e soprattutto a trovarle senza problemi – le notizie desiderate. Immaginiamo di dover pagare 10 centesimi di euro una singola notizia su uno dei principali quotidiani italiani on line e tale riflessione ci apparirà probabilmente assai condivisibile.
Una ricetta contro il file sharing: 10 euro mensili per il download illimitato Il fenomeno della musica gratis ha vissuto la sua epopea negli anni 2000 con Napster e il "peer to peer" ma non è certo tramontato e basti pensare alle migliaia di file musicali scaricati illegalmente archiviati sul computer di un teenager per capirne il perché. Oggi i problemi della major sono soprattutto quelli di far quadrare i propri conti in un contesto in cui i consumi di Mp3 crescono ma non abbastanza per coprire i buchi di ricavi legati al crollo delle vendite di Cd. Un po' come succede, facendo forse un azzardato parallelismo, con le notizie e le case editrici: la frenata sostanziale del gettito pubblicitario nella carta stampata è solo minimamente compensata dai maggiori introiti legati all'advertising on line. Quindi c'è un problema di sistema alla base che va risolto e se Murdoch ha rotto gli indugi confermando di voler perseguire la strada del "pay per view", il settore della musica si interroga se sia necessario intraprendere quanto suggerito da una recente ricerca della UK Music, il consorzio che riunisce buona parte dell'industria discografica inglese. E cioè quello di proporre tariffe fisse per scaricare i brani dalla Rete: rendere più economicamente accessibile la musica al pubblico giovanile, offrendo a 10/15 euro mensili la possibilità di scaricare in modo illimitato - per un determinato periodo di tempo - i brani desiderati ovvierebbe al fenomeno alquanto diffuso fra i ragazzi di età compresa fra i 14 e i 24 anni di copiare i Cd degli amici o di scaricare canzoni con i sistemi di file sharing illegali ancora attivi.
Se, in altre parole, le canzoni fossero disponibili on line a prezzi e condizioni eque le cose potrebbero cambiare anche sostanzialmente e fenomeni come il "ripping" – la tecnica che permette di convertire spezzoni di video musicali scaricabili da YouTube in veri e propri file musicali – tenderebbero probabilmente a ridursi. Difficile, anzi impossibile, che il file sharing illegale o la violazione consapevole del copyright possa invece scomparire del tutto pur in presenza di un servizio di download a pagamento, come il Come With Music di Nokia, che permetta di scaricare in modo illimitato sul proprio pc o sul proprio cellulare i titoli preferiti pescandoli da un catalogo di milioni di brani. Ma se è vero che l'85% dei teenager si dice disposta a considerare un sistema di questo tipo sarebbe già un grande passo in avanti, soprattutto se coloro dediti al download di musica dalla Rete continuassero a comprare Cd in negozio.
Perché pagare una news su Internet? In chiave notizie, l'azione di rottura di Murdoch si scontra con il fatto che il Web è da sempre il regno dei contenuti gratuiti e spendere dei soldi (quanti poi?) quando si può avere tutto gratis passa per la testa di ben pochi utenti. Eppure se i lettori del Sunday Times on line vorranno rimanere fedeli al proprio giornale lo dovranno pagare a partire da novembre e la stessa sorte toccherà nel 2010 a chi si informa sui siti Internet del Times, del Sun, del News of the World e del Wall Street Journal. La strategia della News Corp. sta suscitando reazioni contrapposte a diverse latitudini e ciò che sembra minarne alla base le (lecite) speranze di successo è probabilmente l'abitudine degli utenti a non acquistare notizie sul Web. Ma in un modo digitale dove tutto ha un prezzo – connessione alla Rete, Sms, applicazioni per cellulari, canzoni, persino le suonerie – salvo rare eccezioni, perché le informazioni professionali (parliamo di giornali on line, non di blog personali) non dovrebbero averlo? Dietro la scelta di Murdoch ci sono naturalmente motivazioni di business e se il magnate australiano è convinto del fatto che presto altri gruppi editoriali seguiranno il suo esempio molti dubbi rimangono sull'entità del "sacrificio" da chiedere, anzi imporre, ai consumatori. Un prezzo per singola news? Un abbonamento mensile flat per accesso illimitato a tutti i contenuti? Un piano a consumo? Di numeri non se ne fanno ancora ma è sempre più gettonata l'idea che il futuro a breve termine dell'informazione on line potrebbe sfociare in un modello "ibrido", e cioè in siti strutturati per offrire notizie flash gratuite e articoli di approfondimento (e altri contenuti multimediali) a pagamento. Con alle spalle - non è un dettaglio da poco e gli store digitali di Apple ne sono un'evidente conferma - un sistema di pagamento telematico affidabile, veloce e assai semplice da usare.
di Gianni Rusconi su ILSOLE24ORE.COM
Ci siamo, o meglio siamo arrivati a maturazione: i media trazionali si sono accorti di Twitter e ne stanno facendo il nuovo oggetto delle loro attenzioni, mentre già di Facebook si parla spesso anche per gli aspetti negativi (razzismo, eccessi, problemi di privacy).
Questa estate, oltre al problema dell’attacco dos, Twitter ha visto un sacco di articoli dedicati ai suo vari usi: vip che raccontano vacanze, lavori artistici colaborativi, ricerca di lavoro, funerali di persone importanti e molto altro.
Insomma secondo il noto Ciclo di Hype la nuova tecnologia con impatto sociale inizia ad essere molto nota e, a torto o a favore, celebrata e resa molto appetibile anche per i non addetti ai lavori.
Sicuramente Twitter è uno strumento interessante per fare marketing, sarà interessante capire però quale sarà il suo futuro e la sua evoluzione, visto che molti utenti non sono attivi e che per adesso utili economici se ne sono visti pochi per i suoi creatori.
Intanto però con questo batage mediatico gli utenti italiani aumenteranno e dunque sarà possibile vedere sul campo cosa succederà nel nostro paese, nel quale i social network sono usati in modo piuttosto particolare, molto legato alla condivisione di fatti privati e conversazioni private gestite su profili pubblici.
Voi avete qualche previsione in merito?
Gianluigi Zarantonello via http://webspecialist.wordpress.com
Gli italiani non sono internauti provetti, almeno stando all’indagine realizzata da Nielsen per l'Osservatorio permanente sui contenuti digitali, che verrà presentata questo venerdì a Milano.
Il 45% dei cittadini del Belpaese, con età superiore ai 14 anni, non usa internet, mentre per il 25% degli intervistati la tecnologia digitale è sinonimo esclusivamente di svago o gioco. Questi i dati più significativi svelati dalla ricerca.
L’utilizzo del web è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi due anni (+5 milioni di persone), coinvolgendo oltre 28 milioni di connazionali. Ma restano pochi gli adulti che praticano un utilizzo consapevole del mezzo. Chi vi accede lo fa sempre più in modo superficiale, in sostituzione del vecchio zapping tv.
Via Quo Media
Cattive nuove per l’editoria d’informazione d’Oltremanica. Secondo una ricerca condotta da Harris Interactive, solo il 5% dei lettori britannici sarebbe disposto a pagare per le news online. Il 74% degli utenti abituali dei più popolari quotidiani web, qualora questi divenissero a pagamento, fuggirebbero verso altri lidi digitali, dove le notizie si trovano gratis. L’8% si limiterebbe alla lettura dei titoli, che rimarrebbero ad accesso libero. Il 12% degli interpellati si dice incerto sul da farsi, ma c’è da credere che opterebbe più facilmente per siti d’informazione free. “Fino a che esisterà l’alternativa gratuita, i consumatori si orienteranno su di essa per le loro informazioni quotidiane” ha detto Andrew Freeman, consulente per la ricerca. I risultati dello studio sono stati resi noti pochi giorni dopo l’annuncio di News Corp., che dal 24 ottobre renderà a pagamento il sito del Wall Street Journal, mentre altre importanti testate (Liberation, per esempio) preparano la medesima svolta.
Via Quo Media
Procter & Gamble ha deciso che l'e-commerce dovrà diventare un canale distributivo di importanza pari ai drugstore, in termini di fatturato (anche attraverso le vendite su Amazon e Walmart online). Un obiettivo di 4 miliardi di dollari. Lo sappiamo tutti, quelli di P&G in genere quando si muovono lo fanno avendoci pensato bene e ci vanno giù molto seri.
L'obiettivo è sicuramente ambizioso, significando moltiplicare per otto i fatturati attuali,.Per riferimento, i fatturati complessivi sono sui 79 miliardi di dollari.
Via: Adage.com, leggete l'articolo per approfondimenti
E’ innegabile che ormai nell’immaginario collettivo i siti e gli strumenti del web 2.0 sono diventati dei media a tutti gli effetti e per tale ragione sono sempre più corteggiati dai marketing manager.
I dati che vengono dalle ricerche che riguardano gli USA sono significativi: secondo l'indagine "Social Media: Embracing the Opportunities, Averting the Risks" (di Russell Herder e Ethos Business Law, sondaggio realizzato a luglio di quest’anno) 8 su 10 degli uomini di marketing attribuiscono ai social network un ruolo importante per il potenziamento del brand, oltre che per il recruiting e il customer care.
Anche gli investimenti in advertising si muovono di conseguenza e, secondo uno studio di comScore, i siti di social media hanno rappresentato il 21,1% della distribuzione di inserzioni nel web Usa a luglio (anche se la raccolta è molto concentrata su MySpace e Facebook, con oltre l'80% del mercato).
D’altronde l'ultima indagine semestrale Nielsen (oltre 25.000 consumatori di 50 Paesi del mondo), evidenzia che il 90% dei consumatori internet si fida dei consigli di persone che conoscono e il 70% crede alle opinioni dei consumatori pubblicate online.
Tutto bene dunque? Sì ma con dei distinguo.
Il primo aspetto riguarda l’effettiva fiducia che i consumatori hanno nei brand attivi nei social media: nello studio "Women & Brands Online: 'The Digital Disconnect" il 52% delle 1.000 donne intervistate diventa amica o almeno fan di un brand nei social network, l'83% comunque si sente "neutrale" o "negativa" al rispetto al marchio. Il 75% poi dice di non essere influenzata da canali di social networking per l'acquisto di prodotti e servizi.
Inoltre io sono sempre scettico nella pubblicità in quanto tale sui social media, alla quale preferisco un linguaggio e degli strumenti più di stampo dialogico.
Infine non dimentichiamo che gli iscritti ai social media non sono registrati al nostro sito e non diventano lead per il nostro database, per cui di fatto contribuiamo alla crescita altrui.
Dal mio punto di vista dunque i social media sono un’estensione importante del brand e permettono di contattare nuovi prospect per iniziare un dialogo con loro ma alla fine devono riportare sulle pagine di proprietà dell’azienda. Non ha senso creare infatti un social network proprio o un nuovo Twitter brandizzato se si può sfruttare l’enorme bacino di questi siti ma le rendini le si deve tenere in azienda con una corretta impostazione strategica e servendosi dei social media (non servendo loro).
E voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello
via http://webspecialist.wordpress.com
Negli Stati Uniti sono 161 milioni gli internauti che ad agosto hanno guardato video online, il più alto numero mai registrato. Lo dice l'ultimo rapporto di comScore. Secondo la società specializzata in misurazioni e rilevazioni su Internet, i video visti su Internet sono stati complessivamente più di 25 miliardi, oltre 10 miliardi dei quali su siti del gruppo Google, pari al 40% del totale. Spopola Youtube, che ha totalizzato il 99% delle 'visitè per la visione dei video di Google. Al secondo posto si piazzano i siti di Microsoft con un totale di 547 milioni di 'accessi videò (2,2%), seguiti da Viacom Digital con 539 milioni di video visti (2,1 %) e Hulu, con 488 milioni (1,9%). Secondo i dati, in media nel solo mese di agosto ogni cittadino statunitense ha visto 157 video. I più gettonati rimangono i siti a marchio Google con oltre 121,4 milioni di utenti unici, Microsoft ne totalizza 54,9 milioni e i siti di Yahoo! chiudono la classifica con 51,6 milioni di visitatori.
Via ILSOLE24ORE.COM
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