In occasione del Marke-teen 2008 che si è svolto a Milano, la community per teenager Habbo ha presentato i risultati della sua indagine "Global Habbo Youth Survey 2008". Habbo è un ambiente virtuale di gioco on-line destinato ai più giovani; nato in Finlandia, da noi è arrivato più di tre anni fa ed è gestito da Sulake Italia.
Il sondaggio ha coinvolto 31 paesi del mondo con 58,486 ragazzi europei, americani, canadesi, russi, giapponesi e australiani. Dalla ricerca è emerso che i teenager di tutto il mondo preferiscono le stesse marche e hanno le stesse abitudini, grazie alla globalizzazione.
La bevanda preferita in assoluto è la Coca-Cola, mentre il fast food più frequentato è McDonald's. Tra i marchi di abbigliamento la fa da padrone la Nike, che conquista il primato anche tra le calzature. I ragazzi di oggi prediligono i cellulari Nokia e Sony Ericsson, amano utilizzare gli sms per comunicare, mentre su internet frequentano principalmente YouTube e MSN Messenger. I gusti si differenziano invece in aree geografiche per quanto riguarda la musica, i personaggi vip e i programmi televisivi: nel mondo, i teenager ascoltano in particolare le canzoni dei Linkin Park e dei Tokio Hotel, sono fans di Johnny Deep e Zac Efron e seguono in tv soprattutto i Simpsons.
La stessa indagine è stata svolta anche per l'Italia: i ragazzi del nostro paese bevono soprattutto Coca-Cola, seguita da Fanta e Pepsi Cola. Il fastfood che preferiscono è sempre McDonald's, seguito da Spizzico e Burger King. In prima posizione nell'abbigliamento c'è Nike, che precede Dolce & Gabbana e Armani. Sempre Nike è in prima posizione per le scarpe, seguita da Converse e Adidas. La marca preferita di cellulare è Nokia, che precede Motorola e Samsung. Per quanto riguarda internet, i teenager italiani frequentano soprattutto YouTube, Google e MSN. Le band musicali preferite sono Linkin Park, Tokio Hotel e Finley, mentre i personaggi più amati sono Zac Efron, Brad Pitt e Alessandro Del Piero.
Mentre moltissime aziende non sono ancora in grado di avere una presenza online vagamente decente e meno che mai una strategia di comunicazione integrata, altre aziende sono in fregola per essere "Leading Edge".
Tipico caso, "Essere nei social network" dove molto spesso a nessuno frega nulla della loro presenza.
Ancora più curioso il tentativo di costruirsi il proprio SN, pensando che attrarrà frotte di consumatori fortemente motivati ad interagire fra loro e l'azienda in uno spazio protetto, aziedale.
Il rischio del chissenefrega effect è altissimo - ottimo esempio Kotex, produttrice di Assorbenti Femminili, che ha pensato bene di fare non uno ma ben 2 SN, uno per le donne, uno per le fanciulle più in fiore...
Se avete seguito le attività comunicazionali oltreoceano di Microsoft vi sarete goduti la curiosa saga TV che vede protagonisti il popolarissimo Jerry Seinfeld e lo stesso Bill Gates (ex presidente di MS) , impegnati come attori in una serie di semi medio metraggi dal tono virale - che potete ovviamente trovare su YouTube.
Comunicazione simpatica... e comunque fa impressione vedere l'uomo più ricco del mondo o giu' di li' fare l'attore vestendo i panni della persona "normale" (quale pare in effetti Bill sia).
La saga è stata poi sostituita dalla campagna "I'm a PC" in cui MS controbatte alla campagna Apple, negando la stereotipazione del PC attraverso la diversità dei suoi utenti - usando btw lo stesso attore che faceva "il PC" nella campagna Apple.
Budget di advertising sui 300 milioni di dollari...
Secondo un report di Visible Measures, che fa il monitoraggio delle visioni di video in rete, i materiali di entrambe le campagne sono stati molto visionati su YouTube etc, ma la campagna Seinfel/Gates ha avuto 4.3 milioni di visioni in piu' rispetto all'altra, e comunque, anche dopo qualche settimana di presenza, la campagna coi testimonial continua a fare un 700,000 visioni al giorno contro i 50,000 dell'altra.
Prima però di criticare, meglio pensarci: in realtà l'azione ha un senso - creare buzz con un messaggio che non parla di prodotto, riposizionare almeno in parte la percezione di MS... e poi fare lo switch ad una comunicazione un po' piu' di prodotto che razionalizza in pratica la vision e da' motivi concreti per preferire MS rispetto ad Apple (da melista convinto, devo dire che la vedo un po' dura...
L’approccio long tail retail prevede che le grandi strategie aziendali lascino il posto a modelli comunicativi più snelli. È il libro che va per la maggiore ancora oggi. The Long tail, di Chris Anderson, il successo della coda lunga. È finito il tempo di guardare solo alla pancia del mercato con l’occhio alla gaussiana. Il successo, e una massa di mercati, passano dalle nicchie. Discutibile? Provocatorio? Forse sì, ma è interessante cominciare a pensare al concetto di nicchia non solo in termini di mercato, ma come modello di lettura delle funzioni e delle attività aziendali e del retail. Massificare, per cogliere i volumi e i cluster più diffusi? Attenzione alle differenze, alle condizioni specifiche, ai contesti. Spesso l’osservazione si limita alle grandi serie, agli accadimenti complessivi. Ma un accadimento è costituito da piccoli elementi, singole cellule con loro moto proprio. Il tempo uccide. Non consente di scendere nel dettaglio e di osservare i singoli comportamenti delle nicchie, si agisce per astrazioni, per grandi sistemi. Anche nel marketing retail.
Qualcuno ci ha provato La costruzione di una strategia di marketing o di una campagna di distribuzione è un fatto solitamente macro. Grandi investimenti, grandi pianificazioni. Budget, media e concept sono spesso i termini delle discussioni. Interessante, invece, il nuovo approccio, che si sta creando in alcuni retailer: the long tail retail marketing. Partire non più dalla grande strategia, ma dalla piccola azione, costruendo intorno a essa un percorso d’identità e di posizionamento marketing della catena retail, come per esempio Office Max, catena Usa di prodotti di elettronica e materiali da ufficio. Forse molti di voi avranno ricevuto o inviato via web a Natale il gioco degli elfi: una cartolina natalizia animata di saluto, semplice, banale e ironica, con la possibilità di inserire la propria faccia all’interno di simpatici elfi danzanti sotto la neve. Elf Play è stata una delle nicchie di attività su cui è stata costruita la campagna di Office Max. Obiettivo era creare un evento per allargare il target clienti e la presenza del marchio su nuovi segmenti: andare oltre le profilazioni tradizionali e i database aziendali. La campagna è durata 5 settimane, organizzata in 20 giorni, pianificata con budget irrisorio. Le cifre sono state eclatanti: 70 milioni di minuti di visibilità online, 700 milioni di hit sul sito, 10 Elf Play al secondo durante i 15 giorni prima di Natale. Una diffusione internazionale al di sopra di ogni previsione e controllo.
Inseguire modelli micro tralasciando le statistiche Un successo straordinario, legato a fattori poco business ma molto psicologici. Un esempio che ha suscitato forti discussioni negli Stati Uniti su come valga la pena di seguire nuovi modelli che dedichino più attenzione e tempo ai dettagli, a immaginare al di fuori delle statistiche e dei grandi numeri. Articolazioni di pensiero che si diffondono. Si parla molto di new pear to pear marketing. Qualcuno lo fa. E nella situazione di mercato in crisi come quello attuale, e sicuramente anche di quello prossimo venturo, anche i paradigmi del pensiero macro dovranno lasciar posto a quelli del pensiero micro delle code lunghe.
Quello che gli elfi insegnano
• Riconoscibilità: Un limite della campagna su cui riflettere: 70 milioni di minuti di visibilità, ma, dopo un questionario, altissima notorietà di Elf Play (il gioco) e scarsa capacità di collegamento alla catena Office Max (il promotore). Vale di più il gioco che lascia sedimenti profondi, ma da recuperare e poi valorizzare (vedere il sito www.officemax.com) o una brand awareness immediata che poi non lascia traccia?
• New media: Evidente lo spostamento del marketing verso nuovi punti di vista. Il web marketing va usato in modo intelligente (guardare i dati non solo macro, ma sviluppare “drill”, carotaggi su segmenti).
• Focalizzazione: Per Elf Play non è bastata la creatività, c’è stato poi un controllo puntuale estremo dei risultati. Focalizzazione: non bastano gli applausi. Interessante l’analisi di dettaglio dell’uso del pear to pear marketing.
• Costruire un processo: 100 è fatto da due volte 50, ma anche da 100 volte 1. Banale. Ma nelle aziende ci si dimentica. Perché è più coerente con il modello di Corporation gestire due grandi operazioni che rischiare di disperdersi in 100 piccole operazioni. Ma è anche la soluzione per avviare un processo di costruzione di brand e realizzazione di marketing campaign senza farsi fermare da budget ridotti.
• Spontaneo: Se è simpatico, il messaggio si diffonde. Sete di autenticità. Basta messaggi autoreferenziati non più credibili. Identici. Da spegnere. Altro che da spingere.
La generazione Y, i teenager, i bambini di ieri e gli adulti di domani, costituiscono oggi un target importantissimo. Un target cui fare attenzione, su cui investire, soprattutto in comunicazione.
Le aziende spendono oggi in comunicazione verso i giovani più del doppio di quello che spendevano 10 anni fa (CBS, 2008). Ma non è solamente la quantità di spesa, ma la qualità. Si è passati dal tradizionale messaggio pubblicitario, in tv o su stampa, al below the line o al non convenzionale. I ragazzi sono molto ricettiviverso promozioni e iniziative pubblicitarie, partecipano volentieri ad eventi, concorsi ed iniziative sponsorizzate, ma ancor di più amano dialogare tra di loro e con il brand di riferimento.
Sono “animali sociali”, aperti al confronto, si influenzano a vicenda, alimentando ciò che tecnicamente viene definito buzz (passaparola). Basta colpire il target giusto, quello degli young opinion leader, dell’MTV Generation per far scattare quella molla che rappresenta la fortuna del brand oggetto del “ronzio”. Se le aziende riescono a scavalcare le barriere della pubblicità tradizionale, puntando a coinvolgerli, divertendoli e rendendoli protagonisti del dialogo, diventano una miniera d’oro.
A rendere il tutto più facile, inutile dirlo, lo sviluppo impetuoso e continuo delle nuove tendenze legate alla tecnologia e ad Internet. Secondo l’annuale indagine Doxa i teenager adorano la tecnologia. Quasi il 60% di essi, in Italia, dedica al web almeno 4 ore settimanali. Il 91% ha un cellulare, con fotocamera (75%) ed utilizza gli mms (67%). Per non parlare di You Tube o dei Social Network (Facebook su tutti…), passando per l’esplosione dei blog personali. Sono questi i modi migliori per lo sviluppo di un dialogo continuo e proficuo Brand-to-People (young people, of course). Ma cosa ne pensano gli addetti ai lavori?
Rispondono ai nostri interrogativi, in una sorta di intervista doppia, Roberto Maggio, dell’agenzia Caleidos TeenAgency e Piergiovanni Sciascia, project manager del gruppo RCS Quotidiani – Gazzetta dello Sport. Entrambi i team studiano quotidianamente come riuscire a dialogare al meglio con i teenager ed i giovani in generale e ce ne hanno dato un esempio con due campagne di successo: Eastpack e Gazzenda.
Perché il target dei giovani è più promettente di quello degli anziani, pur essendo quest’ultimo in enorme crescita in numero assoluto?
Maggio: È molto semplice: perché i ragazzi di oggi saranno gli anziani di domani, quindi è fondamentale arruolarli subito! Ironia a parte, l’adolescenza è sempre meno una fascia di età ben definita, ma si è trasformata piuttosto in una condizione dell’anima.Senza fare della sociologia improvvisata o attribuire un valore negativo o positivo al fenomeno, per chi si occupa di comunicazione questo significa che gli argomenti, i linguaggi, le metafore, i canali individuati per “parlare ai giovani” hanno oggi un’efficacia ben più ampia, e alimentano stili di consumo largamente condivisi.
Sciascia: La valutazione della “bontà” di un target non dipende solo dal valore dimensionale ma anche dalla capacità dello stesso di essere ricettivo e propositivo allo stesso tempo. Mi spiego: verissimo che il target degli anziani è quello più numeroso in termini assoluti (la popolazione italiana in media sta invecchiando, gli over 65 italiani sono sempre di più, con maggior “tempo libero” a disposizione e, soprattutto, con buone possibilità di spesa) ma è anche vero, e non è un dettaglio trascurabile, che gli anziani sono anche quelli meno sensibili al cambiamento ed alle nuove abitudini di consumo. I “giovani”, considerati in senso lato, sono di contro sempre più emancipati per gusto, capacità d’acquisto e riescono a relazionarsi meglio, in modo attivo e passivo, con la comunicazione e l’informazione, diventando così un ibrido tra produttori e consumatori. Diventa molto importante pertanto riuscire a parlare il loro linguaggio, anticipare le mode del momento e diventa fondamentale la capacità di rinnovarsi ed evolversi così come cambiano costantemente le loro identità.
Su quali leve bisogna puntare per catturare l’attenzione del target dei teenager?
Maggio: Potrà sembrare trito, ma la leva più efficace è la provocazione. Attenzione però a non confondere la provocazione con la trasgressione fine a se stessa. Intendiamo provocazione come capacità di chiamare in causa i ragazzi, di stimolare una reazione, una presa di posizione. Un’affermazione forte porta a schierarsi, a rispondere, soprattutto in un’età nella quale l’impeto ad aderire o a contestare è fortissimo. In questo modo si crea l’occasione per instaurare un dialogo effettivo tra brand e target. Dall’efficacia di questa dinamica di coinvolgimento nasce il successo di un’operazione.
Sciascia: Ai ragazzi piace sentirsi coinvolti e per tale ragione credo che iniziative che li trascinino e che non li rendano solamente passivi nei confronti di iniziative pubblicitarie siano le soluzioni da percorrere. E’ fondamentale pertanto entrare a far parte delle loro regole, dei loro rituali, del loro linguaggio, mostrarsi loro complici e soprattutto sorprenderli di questo. Gazzenda si pone questi obiettivi già in fase di ideazione e progettazione: vuole essere un’agenda complice, empatica, vicina che interpreta il pensiero dei ragazzi nei confronti delle ore “passate a scuola” ma, allo stesso tempo, sensibile ai bisogni dei giovani in quanto, utilizzando l’ironia e la sdrammatizzazione, parla di qualcosa che i ragazzi avvertono come “realistico”. Seguendo questa linea, abbiamo anche cercato di sviluppare una campagna pubblicitaria coerente con l’immagine stessa di Gazzenda.
Si sente parlare molto di marketing non convenzionale. A tuo parere sono strumenti adatti per dialogare con i giovani d’oggi, alla luce del boom dei social network, e di tutte quelle tendenze sviluppatesi su internet?
Maggio: Se i “giovani d’oggi” sono gli esponenti della generazione Y, ovvero quelli formati nella consuetudine con il web e i media digitali, per i quali l’interazione con i contenuti e la possibilità di influenzarli, alterarli, contribuire a crearli è più che naturale, direi che quella del marketing non convenzionale è la strada maestra. Il flusso unidirezionale della pubblicità “tradizionale”, che non prevede feedback né tantomeno interventi critici, non è in grado di coinvolgere e mobilitare i ragazzi come invece hanno dimostrato di poter fare le tecniche di guerrilla, il viral, il grassroot marketing, l’utilizzo intelligente degli user generated content e delle social utility.
Sciascia: Personalmente, credo molto nelle iniziative di guerrilla: lo scenario attuale è caratterizzato da un flusso comunicativo continuo e sovrabbondante dove catturare l’attenzione del target è l’obiettivo principale nonché impresa ardua. In quest’ottica, il marketing non convenzionale rappresenta l’opportunità di colpire facendo leva sul fattore “curiosità” che innesca un meccanismo d’interesse verso l’azione messa in atto e, di riflesso, sul prodotto pubblicizzato, con il vantaggio di essere a basso costo. Per quanto riguarda il rapporto col web, penso che l’originalità del messaggio e del mezzo usato siano gli elementi che servano ad attirare l’attenzione in un’iniziativa di guerrilla: pertanto anche il web, utilizzato in modo originale, può considerarsi una piattaforma ideale a stimolare l’interesse e a far scaturire forti elementi virali utili ad innescare un effetto “eco”, dove il contagio di un interesse verso qualcosa passa da un utente all’altro, soprattutto su Internet dove la comunicazione è tra pari e la rete diventa il veicolo del contagio.
In base alla tua esperienza personale, riferita a campagne non convenzionali rivolte al target young, quale aspetto si è rivelato più importante ai fini di un buon dialogo brand-to-people?
Maggio: Riprendendo una risposta precedente, si tratta della giusta provocazione. Per citare un’esperienza recente, ovvero la campagna “Wanna last longer?” per Eastpak Apparel, l’idea di utilizzare una bambola gonfiabile maschile – battezzata Billy I-doll– come testimonial di un brand il cui pay off è “Built to resist” si è rivelata una scelta azzeccata, come dimostrano le oltre 300.000 visualizzazioni del web commercial su YouTube, le migliaia di contatti su MySpace e Facebook, le reazioni all’apparizione dei bamboli nelle strade di Milano e Roma. Lo dimostrano anche le diverse interpretazioni che i ragazzi e gli osservatori (giornalisti, blogger, marketer…) hanno dato sia del viral che delle performance: da satira del proibizionismo cattolico a contributo alla lotta al precariato, fino a momento di riflessione esistenziale sul tema: siamo tutti potenzialmente degli oggetti, pronti a essere usati? Una pluralità di significati possibili che moltiplica le possibilità di “fare propria” la campagna.
Sciascia: Credo che l’aspetto più importante ai fini della buona riuscita di una campagna non convenzionale sia senza dubbio quello di raggiungere il target desiderato sfruttando, se possibile, la visibilità data dai media, ma anche quello di sorprendere e stupire in modo positivo, ponendosi essenzialmente l’obiettivo di attirare l’attenzione su di sé attraverso l’originalità del messaggio, del mezzo e del linguaggio utilizzato. L’obiettivo dell’iniziativa di guerrilla di Gazzenda è stato proprio questo: Gazzenda vuole stupire, non solo per ricchezza/personalità, ma anche per la distanza dal mondo sportivo/maschile che il nome potrebbe evocare accostandola, in modo errato, al “mondo Gazzetta”. Il diario di Alice, in tal senso ha posto attenzione e luce su Gazzenda, fornendo uno spunto di riflessione sul bisogno e la necessità che i ragazzi hanno di comunicare, di esprimersi e di fissare a modo loro su carta il piacere legato ad alcuni momenti (più o meno belli) della propria vita.
L’approccio long tail retail prevede che le grandi strategie aziendali lascino il posto a modelli comunicativi più snelli. È il libro che va per la maggiore ancora oggi. The Long tail, di Chris Anderson, il successo della coda lunga. È finito il tempo di guardare solo alla pancia del mercato con l’occhio alla gaussiana. Il successo, e una massa di mercati, passano dalle nicchie. Discutibile? Provocatorio? Forse sì, ma è interessante cominciare a pensare al concetto di nicchia non solo in termini di mercato, ma come modello di lettura delle funzioni e delle attività aziendali e del retail. Massificare, per cogliere i volumi e i cluster più diffusi? Attenzione alle differenze, alle condizioni specifiche, ai contesti. Spesso l’osservazione si limita alle grandi serie, agli accadimenti complessivi. Ma un accadimento è costituito da piccoli elementi, singole cellule con loro moto proprio. Il tempo uccide. Non consente di scendere nel dettaglio e di osservare i singoli comportamenti delle nicchie, si agisce per astrazioni, per grandi sistemi. Anche nel marketing retail.
Qualcuno ci ha provato La costruzione di una strategia di marketing o di una campagna di distribuzione è un fatto solitamente macro. Grandi investimenti, grandi pianificazioni. Budget, media e concept sono spesso i termini delle discussioni. Interessante, invece, il nuovo approccio, che si sta creando in alcuni retailer: the long tail retail marketing. Partire non più dalla grande strategia, ma dalla piccola azione, costruendo intorno a essa un percorso d’identità e di posizionamento marketing della catena retail, come per esempio Office Max, catena Usa di prodotti di elettronica e materiali da ufficio. Forse molti di voi avranno ricevuto o inviato via web a Natale il gioco degli elfi: una cartolina natalizia animata di saluto, semplice, banale e ironica, con la possibilità di inserire la propria faccia all’interno di simpatici elfi danzanti sotto la neve. Elf Play è stata una delle nicchie di attività su cui è stata costruita la campagna di Office Max. Obiettivo era creare un evento per allargare il target clienti e la presenza del marchio su nuovi segmenti: andare oltre le profilazioni tradizionali e i database aziendali. La campagna è durata 5 settimane, organizzata in 20 giorni, pianificata con budget irrisorio. Le cifre sono state eclatanti: 70 milioni di minuti di visibilità online, 700 milioni di hit sul sito, 10 Elf Play al secondo durante i 15 giorni prima di Natale. Una diffusione internazionale al di sopra di ogni previsione e controllo.
Inseguire modelli micro tralasciando le statistiche Un successo straordinario, legato a fattori poco business ma molto psicologici. Un esempio che ha suscitato forti discussioni negli Stati Uniti su come valga la pena di seguire nuovi modelli che dedichino più attenzione e tempo ai dettagli, a immaginare al di fuori delle statistiche e dei grandi numeri. Articolazioni di pensiero che si diffondono. Si parla molto di new pear to pear marketing. Qualcuno lo fa. E nella situazione di mercato in crisi come quello attuale, e sicuramente anche di quello prossimo venturo, anche i paradigmi del pensiero macro dovranno lasciar posto a quelli del pensiero micro delle code lunghe.
Quello che gli elfi insegnano
• Riconoscibilità: Un limite della campagna su cui riflettere: 70 milioni di minuti di visibilità, ma, dopo un questionario, altissima notorietà di Elf Play (il gioco) e scarsa capacità di collegamento alla catena Office Max (il promotore). Vale di più il gioco che lascia sedimenti profondi, ma da recuperare e poi valorizzare (vedere il sito www.officemax.com) o una brand awareness immediata che poi non lascia traccia?
• New media: Evidente lo spostamento del marketing verso nuovi punti di vista. Il web marketing va usato in modo intelligente (guardare i dati non solo macro, ma sviluppare “drill”, carotaggi su segmenti).
• Focalizzazione: Per Elf Play non è bastata la creatività, c’è stato poi un controllo puntuale estremo dei risultati. Focalizzazione: non bastano gli applausi. Interessante l’analisi di dettaglio dell’uso del pear to pear marketing.
• Costruire un processo: 100 è fatto da due volte 50, ma anche da 100 volte 1. Banale. Ma nelle aziende ci si dimentica. Perché è più coerente con il modello di Corporation gestire due grandi operazioni che rischiare di disperdersi in 100 piccole operazioni. Ma è anche la soluzione per avviare un processo di costruzione di brand e realizzazione di marketing campaign senza farsi fermare da budget ridotti.
• Spontaneo: Se è simpatico, il messaggio si diffonde. Sete di autenticità. Basta messaggi autoreferenziati non più credibili. Identici. Da spegnere. Altro che da spingere.
‘Ragazzi connessi: i preadolescenti italiani e i nuovi media’ è lo studio che ha analizzato il rapporto che i giovanissimi italiani instaurano con cellulari e internet, compiuto dall’associazione ‘Save the Children’ con la collaborazione del Cremit (Centro di ricerca per l’educazione ai media, all’informazione e alla tecnologia) dell’Università Cattolica di Roma Sacro Cuore.
Tra i giovani intervistati nella fascia di età tra gli 11 e i 14 anni il 95% dichiara di utilizzare il cellulare, percentuale ‘normale’ dal momento in cui tutti ne possediamo uno. Ma qual è l’uso che i giovanissimi ne fanno? Inviano sms (92%), giocano (76%), si scambiano immagini (74%), foto (54%) e navigano in internet (33%). “La funzione del ricordare, che i ragazzi assegnano al cellulare, è molto importante e sempre più rilevante nell’uso di questo strumento”, ha così commentato i dati Valerio Neri, direttore generale di Save the Children. Sembra infatti che memorizzare un messaggio considerato importante valga più di una reale chiacchierata con un amico.
E la navigazione in rete? L’86% dei ragazzi utilizza internet, nello specifico lo fa per cercare video e musica (70%), per parlare su msn (59%), chiacchierare in chat (53%), uploadare (49%), inviare e-mail (47%), giocare con videogiochi (33%), partecipare a forum, blog e socia network (28%), Skype (16%), acquistare prodotti (15%) e partecipare a sondaggi e concorsi (11%).
Se procediamo nell’analisi scopriamo che il 32% dei giovanissimi possiede un blog, dato che fa riflette riguardo al bisogno di apparire, di esserci in quanto visibili da tutti. “…E’ molto importante capire che il web è ormai un’estensione della rete abituale di amicizie e non un mondo alternativo a quello delle relazioni fisiche. Gli amici in rete sono importanti tanto quanto quelli che si incontrano di persona e spesso sono gli stessi” ha dichiarato Pier Cesare Rivoltella, direttore del Cremit.
Qual è la percezione che i giovani hanno di internet? E’ utile (58%) e di facile utilizzo (37%), ma non pericoloso (solo il 6% ritiene possa essere molto pericoloso ed il 33% abbastanza pericoloso). I giovani dichiarano inoltre di non subire particolari limitazioni da parte dei genitori: il 68% non riceve alcuna limitazione. Dunque non è pericoloso per il proprio utilizzo, ma lo è per gli altri: il 52% ritiene possa portare a comportamenti trasgressivi e pericolosi arrivando a fingere di essere un’altra persona, il 51% pensa che porti facilmente a mentire, il 46% che induca a pubblicare foto senza autorizzazione, il 41% a ricevere inviti di persone estranee, il 35% a cercare materiale pornografico ed il 34% a chattare con persone adulte. Quindi i giovani ne riconoscono in larga misura la pericolosità, ma mai per se stessi. Questa percezione che hanno nei propri confronti, questo senso di immunità, sembra essere il vero pericolo rappresentato da internet, ossia tutti possono ingannare o farsi raggirare, ma io sottoscritto no.
Torniamo, dopo un bel po' di tempo, a parlare di product placement, di product integration e di comunicazione.
Il Product Placement è da anni uno strumento importante per la promozione di marche e prodotti, attraverso l'inserimento dei "simboli" appropriati all'interno di fim o serial TV.
Ha raggiunto apici di importanza tali che alcune grandi marche avevano (o hanno ancora?) un ufficio permanente ad Hollywood, con l'esclusivo compito di negoziare accordi con le major per l'inclusione dei propri prodotti nelle più importanti produzioni.
In tempi di vacche magre e di advertising classico nel mirino, il placement si ritrova sotto i riflettori, nella speranza sia un modo per aggirare la disattenzione, il disinteresse o semplicemente il fatto che l'adv spesso non raggiunge nemmeno più il target.
In questo scenario potenzialmente favorevole al placement è entrato a gamba tesa Martin Lindstrom, noto esperto di branding e comunicazione (una vera star, nel suo piccolo) che nel suo recente libro "Buyology" riporta i risultati di esperimenti sull'efficacia del placement sui neuroni della gente (vedi alla voce neuromarketing).
Attaccando (in estrema sintesi) dei volontari ad un elettroencefalografo è stato dimostrato (su un campione di 2000 casi) che il placement non funziona (più) nella maggior parte dei casi, non portando ad un aumento del ricordo della marca (resta poi davero da vedere se a livello ultra sub-conscio/sotterraneo un qualche effetto subliminale ci posa essere anche in assenza di ricordo, ma appare una teoria un tantinello improbabile).
L'eccezione sarebbe rappresentata da quei casi in cui la marca è funzionale alla storia, è fortemente integrata nel plot narrativo... quello che si chiama product integration - dove marca o prodotto non sono una presenza più o meno casuale, ma sono un componente di fondo della storia (pensate ad es. se gli amici di "Friends" si fossero ritrovati in uno Starbucks invece che al "Central Perk"....).
Nel 2008, quaranta miliardi di file musicali, il 95 per cento di tutti i download musicali, sono stati "piratati" dal web e condivisi sul web. Le cifre sono pubblicate dall'Ifpi (international federation of the phonographic industry), associazione industriale che riunisce più di 1400 etichette in 72 paesi del mondo. Tutto questo nonostante il lancio massiccio di piattaforme di musica digitale del tutto legale. Come dire, gratis piace sempre di più a uno zoccolo duro di imperterriti downloader.
A quanto pare, la pirateria impatta negativamente soprattutto sul repertorio di artisti locali; un fenomeno che assume caratteristiche rilevanti in Francia e in Spagna. Il tutto, si inserisce in un contesto di mercato che registra una crescita molto forte, intorno al 25%, del business della musica online, che porta il fatturato mondiale del mercato legale a 3,7 miliardi di dollari. Per la cronaca, si tratta in termini percentuali di ricavi maggiori realizzati dall'industria editoriale in generale. In questo senso, la musica è la frontiera della rivoluzione online e mobile.
Resta il danno grave che la pirateria arreca al mondo delle sette note. Quale la risposta del settore ai downloader incalliti? Più che puntare su misure repressive (che pure ci sono), l'industria discografica risponde con nuovi modelli di business, con l'obiettivo di offrire ai consumatori una scelta più ampia di servizi nuovi, realizzati con partner tecnologici di prima grandezza, la collaborazione con Isp e fornitori di banda larga, l'avvento di nuovi servizi in abbonamento (Music phone di Nokia, PlayNow plus di Sony Ericsson, per esempio), servizi à-la-carte music, il sorgere di nuovi canali. In questo contesto, non può che far bene l'avvento del web 2.0, con le sue reti sociali e i suoi blog.
Una riflessione che abbraccia le grandi forme distributive organizzate e il piccolo dettaglio locale; una razionalizzazione delle novità di cui i primi sono portatori e degli stimoli per gli imprenditori che si adoperano in questa formula distributiva. Questo è l’approccio con cui voglio trattare il tema dell’assetto del punto vendita.
Il dettaglio oggi è oggetto di molti studi di marketing e da esso quindi trae tecniche e strumenti per svilupparsi al meglio. Senza la presuntuosa pretesa di riassumere la materia, voglio comunque cercare una sommaria generalizzazione dell’argomento. Proverò infatti a presentare alcune delle tecniche più innovative, cercando di trovare in esse un minimo comune denominatore. Due sono i presupposti da cui partono i miei ragionamenti. Il primo: il commercio al dettaglio soprattutto se di piccole dimensioni e non strutturato in forme organizzate, vive un profondo periodo di difficoltà. Al di là dei singoli dati congiunturali, è una evidenza che il piccolo negozio patisca uno stato di sofferenza che rende sempre più lontani i tempi in cui un’attività di questo tipo era considerata una sicura fonte di guadagno.
In secondo luogo il comportamento d’acquisto dei consumatori appare in evoluzione seguendo una traiettoria che vede una sempre maggiore importanza conferita al momento, all’atto del comperare. Sto cercando di raccontarvi la dimensione ludica dello shopping ovvero la ricerca di esperienze d’acquisto entusiasmanti e coinvolgenti. Quando si vende si deve aver chiaro che oggi lo shopping è uno dei divertimenti, non a pagamento, più graditi dalle persone; i consumatori trovano piacevole vagare per gli spazi commerciali. Si compra non solo il prodotto, ma l’emozione che scaturisce dal suo acquisto.
In un quadro quindi di difficoltà e di cambiamento, si innestano tecniche innovative e spesso estreme. A quest’ultima categoria, quasi per definizione, appartengono quegli esercizi di marketing non convenzionale denominati Guerrilla store. Si tratta di negozi temporanei che aprono all’improvviso con una fine imminente già preventivata. Un po’ come il cambio di una collezione così questi PV chiudono per poi riaprire in altre location. Spesso gli spazi scelti vengono mantenuti nelle stesse precarie condizioni in cui sono trovati, con l’evidente tentativo di contenere al massimo i costi; nessuno spazio a forme di pubblicità, fede assoluta nel passaparola che scaturisce. Si vende la merce al minimo costo possibile e poi si chiude!
Riavvicinandoci al convenzionale e riprendendo una delle osservazioni poste a presupposto dei ragionamenti, inserisco le logiche tipiche del marketing emozionale. Il consumatore passa dall’essere considerato un mero operatore razionale, che paragona le differenti offerte secondo funzionalità e prezzi offerti, per divenire un più “romantico” consumatore emotivo che nella sua scelta d’acquisto cerca un piacere che va al di là della merce acquistata. In questa ottica la capacità del PV di interagire con tutti i sensi del suo fruitore appare fattore determinante; dal solo arredo si passa alla oculata scelta delle luci, dei colori, delle musiche, dei profumi e oggi sempre più spesso dei sapori.
Proseguo il mio ragionamento riportandovi un’altra delle terribili definizioni delle disciplina: visual merchandising. Si tratta della teatralizzazione del prodotto ovvero del processo della spettacolarizzazione della merce in cui il punto vendita diventa il palcoscenico ove viene messo in scena per il cliente ciò che si vende. In questa logica appaiono molteplici le possibilità di un brand di comunicare attraverso diversi artifici architettonici i valori di cui è portatore. E’ sempre più vero che con un PV così strutturato si acquisti la marca e gli attributi che si riescono a far rivivere nella location.
Chiudo la presentazione con un irrinunciabile riferimento ai concept store; anche in questo caso la materia non offre definizioni univoche. Mi limito a mutuarne un abbozzo dall’idea di concept di prodotto cioè una forma di sperimentazione. Il concept store è appunto un luogo di sperimentazione in cui si possono fondere stili, prodotti, ambientazioni e servizi che in altrove potrebbero risultare incompatibili.
Credo che in queste ultime osservazioni risieda il punto di contatto, il denominator comune che andavo ricercando: la capacità di innovare, di creare un punto vendita che veramente sia di appeal per il consumatore. La capacità di offrire una novità soddisfando il modo di concepire lo shopping da parte del consumatore. Il negozio temporaneo, la multi-sensorialità, il negozio teatro sono tutti tentativi di fornire novità al cliente. Ricordatevi che se create un negozio straordinario non dovrete spendere in comunicazione in quanto i clienti stessi ne parleranno e l’idea girerà autonomamente tra i diversi media.
Un punto vendita avrà successo se saprà andare oltre le normali regole e convenzioni con cui normalmente veniva progettato, risultando portatore di novità per il cliente.