Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
La spesa casalinga da oggi si può fare online su Amazon anche in Italia. Il colosso dell'e-commerce apre nel nostro Paese la vendita online di prodotti alimentari a lunga conservazione e per la cura quotidiana della casa, dai pacchi di pasta ai biscotti, dalle bibite allo shampoo. La mossa potrebbe spingere un comparto - quello alimentare nell'e-commerce - già dinamico. Lo evidenzia una ricerca pubblicata oggi dall'Osservatorio eCommerce B2c Netcomm - Politecnico di Milano, secondo la quale in Italia crescono sia il Grocery (spesa da supermercato), che nel 2015 supera i 200 milioni di euro, sia il Food and Wine enogastronomico, che sfiora i 260 milioni di euro.
«Il comparto alimentare è nel 2015 uno dei settori più dinamici nel panorama dell'eCommerce B2c italiano», afferma Alessandro Perego, direttore scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano. «Negli ultimi due anni -aggiunge Perego- sono diverse le insegne della grande distribuzione che hanno attivato iniziative di Click&Collect, con la possibilità di ordinare online e di ritirare presso il punto vendita. Anche nel Food&Wine enogastronomico rileviamo un certo fermento grazie all'intraprendenza di produttori, «presidi territoriali» (che valorizzano prodotti locali), retailer, enoteche e start up, come ad esempio nella vendita di prodotto fresco (soprattutto frutta e verdura), nella consegna del pranzo pronto a domicilio, e nella vendita di prodotti in nicchie molto specifiche. L'ingresso di Amazon non può che incrementare ulteriormente la vitalità del comparto. Ne beneficeranno anche le Pmi del settore food, che con il Marketplace potranno avere un ulteriore canale di accesso all'eCommerce e all'Export online.»
Via IlSole24Ore.com
La legge spagnola che obbliga gli aggregatori di notizie online a pagare un contributo ai produttori di contenuti anche per poterne pubblicare solo una piccola anteprima fa più male ai detentori dei diritti che l'hanno voluta inizialmente che a Google News e affini, ed è costata loro almeno 6 per cento del traffico registrato.
In gran parte su pressione dell'Asociaciòn de Editores de Diarios Espanoles (AEDE), il Parlamento spagnolo aveva approvato lo scorso ottobre la nuova legge, entrata in vigore a gennaio, che ha modificato l'art. 32.3 della normativa sul diritto d'autore riconoscendo la tutela dei cosiddetti snippet (le anteprime) dei contenuti pubblicati online ed utilizzate dagli aggregatori per contestualizzare e presentare i link alle notizie.
Da un lato la legge ha di fatto riconosciuto che il servizio Google News fosse fino a quel momento lecito, dall'altro ha fatto intendere che non lo considerasse giusto nei confronti dei produttori di notizie, che ha finito per appoggiare nelle loro posizioni più estreme: anche prima che fosse adottata la normativa, d'altra parte, vi erano discussioni circa l'opportunità di una tale strategia e sul valore intrinseco di Google News come vetrina e moltiplicatore di link per i giornali online stessi.
Google, in ogni caso, non si era fatta intimorire: convinta delle proprie ragioni aveva risposto, subito dopo l'introduzione della nuova forma impropria di tassazione, annunciando di voler abbandonare con il proprio aggregatore di notizie la Spagna.
La mossa ha subito spinto gli editori a fare un passo indietro sostanziale, chiedendo al governo di intervenire nuovamente sulla questione per porvi rimedio: Google non ha visto il loro bluff e gli editori si sono ritrovati con una mano perdente, proprio come gli editori tedeschi prima di loro, che nel braccio di ferro con Mountain View hanno ben presto capito che non potevano fare a meno dell'aggregatore di BigG e gli hanno "concesso" una licenza gratuita per indicizzare le proprie notizie.
Proprio come per loro, anche per gli spagnoli al momento di mostrare i propri punti i conti non sono tornati: a dirlo è lo studio voluto proprio dall'editoria spagnola, che conclude affermando che l'implementazione della legge costerà agli editori 10 milioni di euro, con danni maggiori per i piccoli editori che vedono il proprio traffico crollare del 14 per cento.
Secondo le conclusioni della ricerca, i supposti effetti distorsivi legati agli utenti che si limitano a leggere l'anteprima della notizia senza approfondirla cliccando effettivamente su di essa sono più che compensati dall'effetto "espansivo sul mercato" generato dagli aggregatori di notizie: in base ad esso i netizen leggono più notizie, potendo scegliere quali leggere.
Ai danni per gli editori bisogna poi aggiungere quelli per gli aggregatori: mentre Google ha potuto scegliere la fuga, piccole realtà locali come Planeta Ludico, NiagaRank, InfoAliment e Multifriki hanno semplicemente chiuso i battenti. In particolare la chiusura di NiagaRank è emblematica: pur rappresentando un aggregatore alternativo, che cercava di mettere in evidenza le notizie più condivise sui social network, la zona grigia della legge in cui era finito il servizio ha convinto i suoi gestori semplicemente a chiudere.
Oltre ai numeri nudi e crudi, secondo lo studio, è la ratio a dare torto alla legge: non ci sarebbero "né giustificazioni teoriche né empiriche" per il balzello, stessa conclusione cui è giunto alla fine del dibattito il report europeo portato avanti dalla Pirata Julia Reda.
Via Punto Informatico
L'accesso ai siti web dallo smartphone o altri dispositivi mobili è in crescita, e capita spesso che facendo clic su un risultato delle ricerche in Google si apre la pagina di un sito web che mostra un annuncio che copre l'intera pagina web, cosa che può essere fastidiosa. Ora, Google sembra voler prendere provvedimenti contro quei siti che non mostrano prima il contenuto di una pagina e adottano modi facili per promuovere le applicazioni o altro.
"A partire da oggi, aggiorniamo il Mobile-Friendly Test per indicare quando i siti dovrebbero evitare di mostrare annunci che invitano l'utente ad installare app, nascondendo una notevole quantità di contenuti sulla pagina." scrive Google nel Webmaster Central Blog rivolgendosi ai webmaster. "Il report Mobile Usability mostrerà al webmaster del sito il numero di pagine in tutto il portale che hanno questo problema". Tramite il sopra citato tool, i webmaster potranno quindi conoscere quante e quali pagine sono contro le nuove regole di Google.
"Quando si tratta di cercare su dispositivi mobili, gli utenti dovrebbero ottenere le risposte più importanti, non importa se la risposta vive in un'applicazione o una pagina web" scrive ancora Google. Di recente Google ha reso più facile agli utenti trovare e scoprire applicazioni e pagine web mobile-friendly, ovvero ottimizzate per i dispositivi mobili. Tuttavia, "a volte un utente può toccare un risultato di ricerca su un dispositivo mobile e vedere l'annuncio che invita ad installare un'app, che nasconde una notevole quantità di contenuto. La nostra analisi mostra che non è una buona esperienza di ricerca e può essere frustrante per gli utenti, perché si aspettano di vedere il contenuto della pagina web".
Cosa cambierà per gli utenti? L'azienda di Mountain View ha anche detto che a partire dal 1 novembre le pagine web per cellulari che accolgono gli utenti che arrivano dalla sua pagina di risultati di ricerca e mostrano un annuncio che invita ad installare un'app nascondendo così una notevole quantità di contenuti non sarà considerato mobile-friendly - questo significa che quelle pagine saranno retrocesse nei risultati delle ricerche, e quindi il sito potrà avere meno visibilità e, di conseguenza, registrare una diminuzione del traffico.
Il webmaster che vuole promuovere la propria app, consiglia Google, può utilizzare banner orizzontali di dimensioni più contenute che non impediscano ai ricercatori di visualizzare il contenuto della pagina.
Via Punto Informatico
Facebook ha presentato K-12 Education Project, iniziativa dedicata alle scuole ed ai software per l'educazione.
Il progetto è stato portato avanti insieme all'associazione californiana Summit Public School e vede Facebook offrire agli istituti scolastici software per supportare l'apprendimento, basato in particolare sul principio che ciascun discente ha i propri ritmi: in pratica permette agli studenti di creare con gli insegnanti lezioni personalizzate e progetti specifici ed ai professori di utilizzarlo per organizzare e tener traccia di punteggi e quiz svolti.
Come racconta lo stesso social network, si tratta di un progetto a cui hanno lavorato nel corso degli ultimi anni un piccolo team di suoi sviluppatori insieme ad un gruppo di educatori locali: il tutto è partito dall'idea di ricreare l'esperienza di una classe e "metterci al centro l'ambizione degli studenti di poter sfruttare tutta la tecnologia e le informazioni disponibili per crescere nel mondo di oggi".
L'interesse di Facebook, oltre a provare sul campo nuovi possibili strumenti di collaborazione (eventualmente anche in ottica sviluppo di suite per il mondo del lavoro), è probabilmente legato anche alla sua base utenti: arrivato al record di avere connessi in una sola giornata un miliardo di persone, ovvero una persona su sei sulla Terra, i suoi unici limiti appaiono quelli strutturali, quelli costituiti dal digital divide (per cui sta già lavorando) ed i limiti di età che gli impediscono di raggiungere una non trascurabile fetta della popolazione.
Non si tratta tanto un limite autoimposto, quanto una conseguenza dei dettami del Children' s Online Privacy Protection Act (COPPA), lo strumento normativo che negli Stati Uniti regola i prodotti ed i servizi online destinati ai minori di 13 anni e che tramite il passaggio per gli strumenti educativi il social potrebbe ora puntare a superare. Certo, i nuovi strumenti rappresentano per il momento una piattaforma del tutto disgiunta dal social network e per il momento limitata a solo ad una ventina di scuole: ma anche la cavalcata di Zuckerberg è iniziata da una sola università.
Per conquistare le scuole, d'altra parte, stanno lavorando anche altri attori della Rete: Dropbox ha annunciato da poco un nuovo vertice per i servizi all'educazione, Jason Katcher, e Google - dopo aver già predisposto una versione dei propri servizi e del proprio browser tagliate su misura dei più piccoli - ha ora lanciato una nuova estensione per Chrome a disposizione degli insegnanti per condividere istantaneamente link con l'intera classe, per chattare con gli studenti e tener traccia ti quanto fatto a lezione.
Via Punto Informatico
Erano 29 milioni gli italiani collegati online a Giugno 2015, mentre a Luglio del corrente anno il numero è leggermente sceso a 28,3 milioni di utenti che si sono collegati a internet almeno una volta al mese, pari al 51,3% di italiani che hanno un minimo di 2 anni di età. Il tempo medio che un italiano passa connesso al web è di circa 44 ore e 20 minuti per persona (sceso da 44 ore e 50 minuti nel mese precedente).
Sono i dati aggiornati e diffusi da Audiweb relativi all’audience totale di internet (total digital audience) del mese di luglio 2015.
Nel giorno medio di Luglio 2015 l’audience totale ha raggiunto 21,3 milioni di utenti collegati in media per 1 ora e 54 minuti. Hanno avuto accesso ad internet da device mobili 20,5 milioni di utenti unici (da smartphone e tablet), il 46,4% degli italiani di 18-74 anni, e 17 milioni nel giorno medio. Gli accessi da pc a luglio sono rappresentati da 26,2 milioni di utenti (dai due anni in su) e 11,5 nel giorno medio.
Il rapporto rivela che, in base ai dati socio-demografici, nel giorno medio di Luglio erano online 11 milioni di uomini (il 40% degli uomini dai 2 anni in su) e 10,3 milioni di donne (il 37% delle donne dai 2 anni in su).
La fruizione di internet nel giorno medio da device mobili ha superato il 58% dei giovani tra i 18 e i 34 anni e sono i più giovani di 18-24 anni a trascorrere più tempo online con una media di 2 ore e 14 minuti ciascuno.
Per quanto concerne i dati sulla distribuzione del tempo trascorso online attraverso i device rilevati, nel mese di luglio Audiweb ha rilevato che il 71% del tempo totale passato online è generato dalla fruizione di internet da mobile e, più nello specifico, il 60,6% del tempo totale è generato dalla fruizione tramite applicazioni mobile.
La ricerca Audiweb Mobile è basata su un modello di rilevazione ‘user centric’ che integra i dati di navigazione da device mobili (smartphone e tablet) con i dati della fruizione PC. Al panel PC di oltre 40.000 panelisti viene affiancato un per gli smartphone un panel di circa 3000 persone (1.500 per il sistema operativo Android e 1500 per iOS), e per i tablet circa 1000 panelisti (Android e iOS). Il campione di riferimento della total digital audience è composto da persone con età di almeno 2 anni, ad esclusione dei dati “Mobile” che sono rilevati per i soli 18-74enni.
Via Punto Informatico
Il 97% degli italiani che comprano libri online sceglie quelli di carta mentre il 41% acquista ebook ma si arriva al 49% considerando chi scarica libri digitali gratuiti: sono questi i dati più sorprendenti che emergono dall’indagine Nielsen Consumer book buying, in digital and print, presentata ieri in anteprima a Editech 2015, l’appuntamento sull’innovazione tecnologica nel settore dell’editoria libraria, organizzato dall’Associazione Italiana Editori (AIE).
Lo studio è stato svolto su un campione di 2000 individui, rappresentativo degli utenti digital, di età compresa tra i 18 e i 64 anni e fotografa, per la prima volta nel nostro Paese in modo puntuale, le risposte dei consumatori italiani su come scoprono e acquistano online libri ed ebook.
Così, tra chi acquista online i libri digitali, uno su tre dichiara di leggerlo su PC o computer portatile e, sempre uno su tre, afferma di farlo su tablet, più frequentemente, iPad. Uno su 5 lo legge su un e-reader (con Kobo proprio davanti al Kindle), ma c’è anche un italiano su sei che lo legge sul cellulare. Tra gli italiani che comprano spesso o sempre libri, chi lo fa online cerca il prezzo migliore, con un terzo degli acquisti che convergono sugli store. Infatti un quarto di chi ha risposto all’indagine afferma di comperare spesso ebook perchè il prezzo è più basso rispetto all’edizione cartacea.
Oggi i libri di carta si scoprono e poi si comprano online prima di tutto grazie ai reading degli autori e alla serialità della narrazione. Gli ebook, invece, si scelgono dopo aver navigato, innanzitutto sui siti delle librerie online e poi sui siti degli autori ed editori e infine, ancora, grazie a reading degli autori. Per scoprire i titoli, invece, il passaparola funziona ancora bene per i libri di carta, meno per gli ebook, in cui blog e riviste online di libri risultano molto più efficaci. In entrambi i casi, l’email marketing o le newsletter di librai ed editori slittano agli ultimi posti per efficacia.
Da tener presenti le abitudini online degli italiani: 7 su 10, tra i 18 e i 64 anni, naviga su internet ogni giorno. Due terzi usa Facebook e Twitter ogni settimana, mentre la metà legge ogni settimana un quotidiano online e compra o cerca prodotti online. Un terzo usa ogni settimana giochi, tv o film online. E chi acquista ebook utilizza molto di più i social media rispetto a chi compera i libri di carta. I preferiti? Facebook su tutti, seguito da WhatsApp, Youtube e Google+ e Twitter. L’impegno settimanale nelle attività online decresce con l’età, in particolare per i social media e per guardare film e tv online. Al contrario cresce, con l’aumentare dell’età, la lettura di quotidiani e periodici online.
Via Tech Economy
E’ il trend del momento che, in prospettiva, appare anche il più promettente: è quello che, per effetto della crescente diffusione dell’IoT, lega internet a device e apparati che monitorano e raccolgono dati sulla nostra salute e benessere. Un interesse che si concretizza, nel solo panorama Usa, in oltre 165mila app dedicate alla salute e dispositivi wearable con funzioni innovative per la raccolta dati attualmente disponibili per i consumatori americani. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato oggi dall’IMS Institute for Healthcare Informatics.
Benché la maggior parte delle applicazioni ad oggi disponibili guardino al benessere generale dell’individuo, lo studio fotografa un interesse crescente verso un più ampio utilizzo da parte del sistema sanitario soprattutto per quanto riguarda la gestione delle patologie croniche. Secondo lo studio, oggi, 1 applicazione su 10 è in grado di interconnettersi con un dispositivo o un sensore, fornendo biofeedback e dati sulle funzioni fisiologiche del paziente ampliando così l’accuratezza e la praticità della raccolta dati. Quasi un quarto delle applicazioni è incentrato sulla gestione delle patologie e delle relative terapie, mentre due terzi riguarda il fitness e il benessere delle persone.
I numeri
Il numero totale delle applicazioni mHealth è in rapida ascesa: nell’App Store di Apple dal 2013 si è assistito a un incremento ben del 106% di App, e il 12% di queste rappresenta più del 90% di tutti i download effettuati, e circa la metà di tutti i download è attribuibile a sole 36 applicazioni.
Nel corso degli ultimi due anni, oltre al potenziamento della capacità di raccolta dati sugli utenti, si è assistito anche a un incremento del numero di applicazioni mHealth in grado di connettersi a reti social (dal 26% al 34% del totale), evidenziando l’importanza del social networking per stimolare la partecipazione dei consumatori.
Strategico il ruolo dei medici: il retention rate a 30 giorni delle applicazioni mHealth prescritte da un medico è infatti superiore del 10% rispetto a quelle selezionate autonomamente dai pazienti. Per quanto riguarda le applicazioni per il fitness prescritte da un operatore di settore, il retention rate presenta un incremento del 30%.
Le tipologie
Le app di mHealth analizzate possono essere suddivise in due categorie principali: quelle che facilitano il benessere generale come l’esercizio fisico e la dieta, e quelle che specificamente si concentrano sulla gestione di una malattia attraverso l’implementazione di protocolli di trattamento, come i memo dei farmaci. Le prime sono quelle numericamente più frequenti, con i due terzi dello app: fitness, stile di vita, stress, dieta e nutrizione. Trattamento e gestione di patologie, invece, interessano un terzo delle app analizzate con solo una piccola quota specificamente concepita per particolari malattie.
I soggetti erogatori di prestazioni sanitarie concordano sul valore derivante dall’utilizzo di app mHealth, ma riconoscono il persistere di barriere che ne prevengono una capillare adozione. La maggior parte dei soggetti erogatori intervistati dall’Istituto sono fiduciosi che l’utilizzo di app mHealth possa ridurre la spesa sanitaria e incoraggiare i pazienti ad assumere un ruolo più partecipativo nel miglioramento del proprio stato di salute. Gli intervistati hanno evidenziato come l’integrazione dei dati mHealth con la cartella clinica informatizzata sia un aspetto essenziale per migliorare il processo decisionale del clinico e la comunicazione con il paziente.
Nonostante l’entusiasmo di fondo rispetto all’utilizzo integrato di app mhealth nel sistema sanitario, rimangono perplessità relative ad alcuni limiti ad oggi persistenti come: la limitata connettività e integrazione con sistemi di workflow; il lento cambiamento nei processi di erogazione delle prestazioni sanitarie; riservatezza dei dati, sicurezza e incertezze normative; assenza di evidenze scientifiche finalizzate a misurare l’efficacia delle applicazioni e incapacità di raggiungere i gruppi di pazienti più vulnerabili (principalmente gli anziani o coloro che non parlano inglese).
Via Tech Economy
1. Quando cerco di osservare da vicino le implicazioni insite nella Economia on demand, quello che soprattutto mi interessa riguarda: a) le grandissime potenzialità connesse alla rete digitale, pardon alle reti digitali; b) raccogliere elementi di conoscenza volti a capire se il futuro che ci aspetta sia davvero quello di una vita migliore e più densa di soddisfazioni. (Stavo per scrivere: una vita più serena, ma credo che sia meglio lasciar cadere questo taglio analitico. Mi sorge il sospetto che nell’epoca del Prozac una vita migliore non vada di pari passo con una più serena). Analoghe curiosità le avevo manifestate 15 anni orsono, curando – insieme a Barbara Mazza – un testo sulla “net-economy”. Siccome le parole sono pietre (lo hanno spiegato bene, ognuno con il suo linguaggio, sia Carlo Levi che Nanni Moretti), le forti implicazioni che, anni addietro, l’innovazione tecnologica portava con sé indusse non pochi osservatori a parlare di “new economy”. Sembrava di aver raggiunto, finalmente, un traguardo strepitoso. Ci stavamo scrollando di dosso il fardello pesante del sistema capitalismo basato sulla spropositata ricchezza di pochi a danno di molti. Come capita poi spesso nella storia dell’umanità, a una fase di euforia ne succede una di attento discernimento: insomma, una sorta di corsi e ricorsi. Al termine “new economy” parve più adeguato sostituire la parola “net-economy”, prima di tutto perché quel modo di fare economia di certo non incrinava i fondamenti del modello dominante e poi perché enfatizzare il network, ossia la rete, ossia la possibilità comunicare e fare comunità da una parte all’altra del pianeta risultava il tratto connotante l’aspetto più importante del mondo del business e del management. Tutto vero. Ma soltanto per poco tempo.
2. Da cinque/sei anni a questa parte siamo stati subissati di locuzioni che evocano paesaggi e rapporti inediti pieni di straordinarie possibilità. Ecco pochi esempi. On demand economyL’Economia on demand sottende un modello basato sull’utilizzo di servizi che sono richiesti dal cliente seduta stante e ai quali, di conseguenza, l’impresa è in grado di rispondere just in time. La Sharing economy richiama la condivisione di beni e servizi. Si tratta di servizi che possono essere usati da molti; in questo ambiente ritorna a contare di più il valore d’uso piuttosto che il valore di scambio (di marxiana memoria). Nello specifico, e soltanto nello specifico, la proprietà come status symbol tende a stemperare le sua cogenza per far posto alla fruizione e all’accesso. Peccato che il modello si presenti esattamente rovesciato. Sarò più chiaro: se sei un tipo che indugia ancora nell’acquisto di un’auto piuttosto che avvalerti, al bisogno, della formula del car sharing di sicuro non sei cool e, probabilmente, sei anche un po’ agée. L’Economia della fiducia è, oggi, assunta nella nuova versione che ha a che fare con il fidarsi dei servizi erogati e, soprattutto, degli operatori/professionisti digitali che li forniscono; la loro efficienza mette in campo un surplus di credibilità che si riverbera sul successo del prodotto relativo. La fiducia è questo, e molto altro ancora. Basterebbe risalire a Sir John Maynard Keynes per conoscere il peso che questo fattore ha esercitato ed esercita nelle transazioni economiche (e non). La Ubereconomics può essere considerato il modello di business per eccellenza, è quello che ha fatto più discutere, è quello che si propaga di più, è, infine, quello che assomiglia di più alla Emerging Platform Economy per antonomasia. Uber serve 55 paesi e ha innescato resistenze e conflitti, per dire, a Milano come a Parigi, tanto a Bruxelles quanto a San Francisco. Sta di fatto che ad oggi il fatturato dell’impresa si aggira intorno ai 10 miliardi di dollari. Sarà vera gloria? Vedremo.
3. Quali le conseguenze nella vita della gente? Ove per gente si devono intendere sia le persone in quanto utenti/consumatori, sia in quanto professionisti/lavoratori. Qui si apre una grandissima falla in termini di conoscenza. Tutti concordano sull’equazione tra flessibilità, conoscenza e incertezza, ma la letteratura dice poco più di questo. A me sembra che l’attenzione delle istituzioni sia stata completamente assorbita dalle mirabolanti rivoluzioni indotte dalle piattaforme digitali e dalle relative startup. Mi sembra finanche che la ricerca sociale abbia le armi spuntate rispetto alle importanti trasformazioni in corso sulle condizioni materiali e morali di vita delle persone comuni, quelle in carne e ossa. E che non si chiamano né Travis Kalanick, né Mark Zuckerberg.
Via Tech Economy
Instagram ha annunciato oggi di aver raggiunto la cifra record di 400 milioni di utenti attivi mensili con circa 80 milioni di foto al giorno caricate dagli utenti giornalmente.
A dare l’annuncio un post sul blog: “Siamo entusiasti di annunciare che la comunità Instagram è cresciuta fino a 400 milioni di persone. Mentre pietre miliari come questo sono importanti, ciò che veramente ci emoziona è il modo in cui la comunicazione visiva ci fa sentire il mondo un pò più piccolo. La nostra comunità si è evoluta ed è ancora più globale, con oltre il 75% degli utenti che vive al di fuori degli Stati Uniti. Degli ultimi 100 milioni che hanno aderito, più della metà vive in Europa e in Asia e i paesi che hanno il maggior numero di Instagrammer comprendono Brasile, Giappone e Indonesia.”
Il nuovo record di Insragram non fa che accrescere l’ecosistema di influenza di Zuckerberg: Facebook conta 1,5 miliardi di utenti, Instagram circa 400 milioni, Facebook Messenger 700 milioni e WhatsApp sfiora quota un miliardo. Il che vuol dire che circa 3,5 miliardi di persone usano servizi ricollegabili all’ecosistema FB: chiaramente molti utenti sono comuni ai servizi ma la cifra è comunque indicativa di come rappresenti una imponente fetta dell’attenzione del mondo Internet.
Ma la crescita di Instagram, fa notare il Financial Times, evidenzia anche un altro fattore: mostra, ad esempio, quanto più veloce è la crescita della base di utenti di Instagram rispetto a Twitter, che ha riportato “solo” 304 milioni di utenti mensili attivi e arranca nel faticoso percorso di soddisfacimento degli investitori.
Via Tech Economy
Avvertenza preliminare e doverosa: se non siete ancora stati in Expo Milano 2015 e volete rimanere con il gusto della sorpresa non leggete ancora questo post e sappiate solo che il padiglione giapponese fa parte di quelli da vedere.
La recinzione del padiglione giapponese (Ansa)
Detto questo, il post nasce appunto dalla mia esperienza del weekend, in cui finalmente dopo varie visite all’Expo per motivi lavorativi ho potuto vedere con calma una selezione di padiglioni, ovviamente con l’occhio attento alla tecnologia disseminata all’interno. E il padiglione giapponese mi ha colpito tra tutti, oltre che per la bellezza, per l’uso sapiente di alcune scelte che sono ottime per dare degli spunti su come andrebbe utilizzata la tecnologia.
LA TECNOLOGIA VA PORTA E SPIEGATA
Il Giappone non ha lesinato nel numero di persone presenti nei suoi spazi, che vi accompagnano da una sala all’altra e vi invitano con grande gentilezza (e persistenza) a scaricare la app, grazie anche al wi-fi free e stabile presente. Moltissimi padiglioni hanno una app (in forma di cartello all’ingresso) ma qui l’utilità diventa reale e le assistenti vi avvisano quando usarla e come.Risultato, le persone la scaricano e poi la usano (anche perché, come vedremo subito, ne vale la pena).
LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELL’ESPERIENZA
Il lato wow delle installazioni tecnologiche non scarseggia in Expo, anche se non tutti raggiungono l’obiettivo di comunicazione di un messaggio cui ambiscono senza eccezioni i vari paesi. Anche nel padiglione giapponese la sorpresa e la parte spettacolare non mancano, ma sono vincenti perché non rimangono solo fini a se stesse.
la fontana di immagini (foto dell’autore)
Arrivati alla sala dell’innovazione infatti vi troverete davanti a una spettacolare “fontana” di contenuti dove mettendo in appositi spazi i vostri smartphone con l’app aperta potrete “catturare” trascinandole verso di voi le foto che cadono dall’alto. Ciascuna si trasformerà in unapprofondimento da guardare sul telefono, in una sezione apposita della applicazione. Un modo poetico, divertente e molto tecnologico di veicolare contenuti di approfondimento.
OGNI COSA A SUO TEMPO (MOMENTI DI MARKETING)
Nel padiglione ci sono tantissimi contenuti ma il tempo disponibile è poco, per non parlare della stanchezza dopo le file e del caldo. Ecco che la app eroga con la fontana (e poi a fine visita in altre sezioni) una grande quantità di contenuti di approfondimento da fruire con calma.
I contenuti salvati dalla cascata
Per fare un confronto, un altro bel padiglione, quello tedesco, grazie alle seedboard (semplici taccuini di carta con sensori, molto interessanti tecnologicamente) e a tanti altri elementi di interazione fornisce una montagna di dettagli che devono essere visti però sul posto. Troppi per il contesto e ilmomento di marketing, e peccato perché sembravano molto validi.
le seedboard del padiglione tedesco
Nel caso del Giappone invece l’inserimento in una narrazione guida dalle esperienze diventa un modo vincente di fare storytelling. Il che mi porta alla considerazione successiva.
COINVOLGERE PER FAR PASSARE I MESSAGGI
Oltre all’esempio di prima della fontana alla fine del giro vi troverete a fare l’esperienza del “Ristorante Futuro” dove tra un misto di tecnologia (schermi touch da attivare con le bacchette e molto altro), animazione e karaoke vi riescono a spiegare in 20 minuti la cucina giapponesedivertendovi e passandovi il concetto che mangiare assieme ci rende amici.
Qui la tecnologia sta ancora piu sullo sfondo e quello che fa la differenza diventa la combinazione della qualità e rilevanza dei contenuti unite a un bel modo di porre il messaggio. E si esce felici e informati.
DARE SEGUITO ALL’ESPERIENZA: ALLA FINE UN FOLLOW UP DISCRETO E DI CONTINUITA’
Alcune ore dopo che avete lasciato il padiglione l’app vi sblocca una serie di contenuti ulteriori e vi ricorda con una notifica push che rimarrà attiva fino a fine EXPO, ma che se volete potete anche rimuoverla. Siccome difficilmente lo farete e terrete la app su device, potrete trovare nuove cose interessanti rispondendo ad un quiz ed interagendo con le diverse sezioni. Insomma l’esperienza continua, se vi va.
La schermata della app dopo la visita
Sintetizzando quindi la tecnologia piu avanzata diventa di successo in presenza di tre elementi:organizzazione, contenuti di qualità ed esperienza coerente. Bella lezione.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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