1. Quando cerco di osservare da vicino le implicazioni insite nella Economia on demand, quello che soprattutto mi interessa riguarda: a) le grandissime potenzialità connesse alla rete digitale, pardon alle reti digitali; b) raccogliere elementi di conoscenza volti a capire se il futuro che ci aspetta sia davvero quello di una vita migliore e più densa di soddisfazioni. (Stavo per scrivere: una vita più serena, ma credo che sia meglio lasciar cadere questo taglio analitico. Mi sorge il sospetto che nell’epoca del Prozac una vita migliore non vada di pari passo con una più serena).
Analoghe curiosità le avevo manifestate 15 anni orsono, curando – insieme a Barbara Mazza – un testo sulla “net-economy”.
Siccome le parole sono pietre (lo hanno spiegato bene, ognuno con il suo linguaggio, sia Carlo Levi che Nanni Moretti), le forti implicazioni che, anni addietro, l’innovazione tecnologica portava con sé indusse non pochi osservatori a parlare di “new economy”. Sembrava di aver raggiunto, finalmente, un traguardo strepitoso. Ci stavamo scrollando di dosso il fardello pesante del sistema capitalismo basato sulla spropositata ricchezza di pochi a danno di molti.
Come capita poi spesso nella storia dell’umanità, a una fase di euforia ne succede una di attento discernimento: insomma, una sorta di corsi e ricorsi.
Al termine “new economy” parve più adeguato sostituire la parola “net-economy”, prima di tutto perché quel modo di fare economia di certo non incrinava i fondamenti del modello dominante e poi perché enfatizzare il network, ossia la rete, ossia la possibilità comunicare e fare comunità da una parte all’altra del pianeta risultava il tratto connotante l’aspetto più importante del mondo del business e del management. Tutto vero. Ma soltanto per poco tempo.
2. Da cinque/sei anni a questa parte siamo stati subissati di locuzioni che evocano paesaggi e rapporti inediti pieni di straordinarie possibilità. Ecco pochi esempi.
On demand economyL’Economia on demand sottende un modello basato sull’utilizzo di servizi che sono richiesti dal cliente seduta stante e ai quali, di conseguenza, l’impresa è in grado di rispondere just in time.
La Sharing economy richiama la condivisione di beni e servizi. Si tratta di servizi che possono essere usati da molti; in questo ambiente ritorna a contare di più il valore d’uso piuttosto che il valore di scambio (di marxiana memoria). Nello specifico, e soltanto nello specifico, la proprietà come status symbol tende a stemperare le sua cogenza per far posto alla fruizione e all’accesso.
Peccato che il modello si presenti esattamente rovesciato. Sarò più chiaro: se sei un tipo che indugia ancora nell’acquisto di un’auto piuttosto che avvalerti, al bisogno, della formula del car sharing di sicuro non sei cool e, probabilmente, sei anche un po’ agée.
L’Economia della fiducia è, oggi, assunta nella nuova versione che ha a che fare con il fidarsi dei servizi erogati e, soprattutto, degli operatori/professionisti digitali che li forniscono; la loro efficienza mette in campo un surplus di credibilità che si riverbera sul successo del prodotto relativo. La fiducia è questo, e molto altro ancora. Basterebbe risalire a Sir John Maynard Keynes per conoscere il peso che questo fattore ha esercitato ed esercita nelle transazioni economiche (e non).
La Ubereconomics può essere considerato il modello di business per eccellenza, è quello che ha fatto più discutere, è quello che si propaga di più, è, infine, quello che assomiglia di più alla Emerging Platform Economy per antonomasia. Uber serve 55 paesi e ha innescato resistenze e conflitti, per dire, a Milano come a Parigi, tanto a Bruxelles quanto a San Francisco. Sta di fatto che ad oggi il fatturato dell’impresa si aggira intorno ai 10 miliardi di dollari. Sarà vera gloria? Vedremo.
3. Quali le conseguenze nella vita della gente? Ove per gente si devono intendere sia le persone in quanto utenti/consumatori, sia in quanto professionisti/lavoratori. Qui si apre una grandissima falla in termini di conoscenza. Tutti concordano sull’equazione tra flessibilità, conoscenza e incertezza, ma la letteratura dice poco più di questo. A me sembra che l’attenzione delle istituzioni sia stata completamente assorbita dalle mirabolanti rivoluzioni indotte dalle piattaforme digitali e dalle relative startup. Mi sembra finanche che la ricerca sociale abbia le armi spuntate rispetto alle importanti trasformazioni in corso sulle condizioni materiali e morali di vita delle persone comuni, quelle in carne e ossa. E che non si chiamano né Travis Kalanick, né Mark Zuckerberg.
Via Tech Economy