Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
La Digital Trends 2015 è una ricerca che Microsoft sta effettuando in 13 Paesi nel mondo e l’Italia è tra uno di questi, infatti gli italiani sono risultati molto curiosi, informati e sempre alla ricerca di novità nel settore del digitale.
Alla ricerca condotta da Microsoft in collaborazione con Future Laboratory e Research Now hanno partecipato 13.000 consumatori che hanno messo in luce le tendenze a livello internazionale sulle trasformazioni in corso nella relazione tra utenti ed il mondo digitale.
Le tendenze riscontrate a livello globale nel comportamento online dei consumatori nel loro rapporto con la tecnologia sono di approfondire i propri interessi, interagire online con i brand che offrono prodotti e servizi personalizzati, poter sperimentare l’uso dei dispositivi indossabili e riuscire a gestire le informazioni. Infatti in Italia il 64% degli intervistati acquista più volentieri da un’azienda che consenta un ruolo attivo da parte dell’utente nella personalizzazione dei prodotti.
Il quadro che è venuto fuori dall'indagine Microsoft è una scena d’amore tra la popolazione italiana e la tecnologia. Nel report Microsoft Digital Trends 2015 gli italiani hanno un ruolo da protagonisti, con risultati spesso superiori alla media. Infatti l'83% del campione considerato possiede uno smartphone ed il 49% è online tutti i giorni per almeno 5 ore e quasi la totalità degli italiani (il 97%) utilizza un dispositivo digitale di qualsiasi tipo nella propria quotidiani.
I due dati più rilevanti emersi da quest’indagine sono che il 78% delle persone conosce il valore che le imprese attribuiscono loro in quanto consumatori online e alla loro presenza a livello del digitale e che il 61% è favorevole alla condivisione di informazioni riservate, a patto però che ci sia uno scambio trasparente con le aziende dalle quali possano trarre un beneficio concreto personale.
Un altro dato importante concerne la tecnologia indossabile; tra gli utenti, infatti, si sta facendo strada il desiderio di apprendere, attraverso i dispositivi digitali, informazioni sulla propria persona, il che significa un orientamento verso il segmento del wearable. Così più del 74% dei consumatori a livello globale dichiara di essere interessato alla tecnologia indossabile: 8 italiani su 10 è interessato a questo segmento di mercato, tant’è che per questa tipologia di dispositivi si prospetta un futuro d’oro.
Dall’indagine è anche risultato che gli utenti hanno una gestione della propria identità online in modo molto specifico e con una messa a fuoco soprattutto sulle aree di loro interesse e monitorano gli scambi online dei brand che meglio rappresentano le proprie passioni.
La ricerca mette in evidenza che il 47% degli utenti italiani è convinto di sapere come rimuovere dalla rete informazioni postate per errore, mentre il 64% vorrebbe scegliere il tempo in cui le informazioni condivise restino disponibili on line. L’interesse per l’assistenza digitale è aumentato rispetto al 2013 dal 73% all’80%, ma i proprietari dei dati vogliono mantenerne il controllo finale: il 57% nel mondo e il 64% in Italia desidera poter stabilire il tempo di permanenza online delle informazioni condivise.
I social network che si propongono come “unica soluzione valida per tutto” perde punti; infatti la gente utilizza canali digitali diversi, molto specializzati e più adatti alle esigenze particolari del momento, con un aumento di 7 punti percentuali, dal 2013 ad oggi.
La percentuale è alta anche nel segmento dell’Internet of Things, infatti secondo i dati della ricerca il livello di utilizzo, da parte degli italiani, di dispositivi e applicazioni per tracciare, scaricare e analizzare i dati, è il più alto d’Europa; in compenso il 29% di questi non sanno come impiegare in modo concreto i dati rilevati.
Inoltre quasi il 75% degli utenti italiani vorrebbe disporre quotidianamente di oggetti in grado di tracciare i dati, tipo le macchine e le case smart, contro una media europea del 54% e globale del 60%.
Via Cellulari.it
Che fosse un piano inclinato lo si era capito da tempo ma questo dato degli Usa più che una conferma è un segnale di accelerazione. Lo streaming audio si sta imponendo come piattaforma di distribuzione e fruizione della musica online. Nel 2014, certifica la Riia the Recording Industry Association of America,, per la prima volta i servizi e quindi gli abbonamenti di musica in streaming hanno superato per giro d’affari quello della vendita dei Cd. Il dato è relativo agli Stati Untiti ma la tendenza sembra essere la stessa anche in Europa. E’ dagli anni Novanta che il compact disc rappresenta la più importante fonti di finanziamento dell’industria musicale. Il primo segnale di declino è arrivato nel 2012 con il sorpasso da parte del download. E oggi è il momento dello streaming. Interessante anche l’andamento del download che sta rallentando negli ultimi due anni. Per fornire due numeri l’anno scorso il fatturato ai Cd è stato di 1,86 miliardi di dollari, quello dello streaming che poi vuol dire Spotify, Pandora e iTunes Radio è salito a 1,87, triplicando nell’arco di tre anni. Il download invece continuam a viaggiare a quota 2,58 miliardi, con un trend come detto in calo.
Via IlSole24Ore.com
Recentemente sono stato all’evento italiano di Gartner, dal titolo significativo “From E-business to D-business: How to Realize, Build and Optimize Digital Opportunities“, dove ho sentito interventi di ottimo livello che mi hanno confermato gli spunti che avevo recentemente sentito al SAP Executive Summit sulla profonda trasformazione in corso nelle aziende grazie alle nuove tecnologie.
L’IT deve imparare ad essere bimodale
Gli analisti di Gartner da tempo hanno iniziato a dire che l’IT deve diventare Bimodal, ossia deve essere in grado sia di continuare a garantire le attività core, con un approccio progettuale tradizionale, sia affrontare le nuove sfide del digitale aprendosi a logiche di sviluppo di tipoAgile (e non solo) e più business oriented.
I due IT a confronto
Il rischio altrimenti è quello di restare fuori dal processo di innovazione e dai relativi budget, secondo quanto detto al convegno già oggi infatti un 38% di spesa sulle tecnologie non nelle competenze IT tradizionali e si stima che possa arrivare al 50% nel 2017.
Ma il tema è solo l’IT?
Ma se Bimodal vuol dire anche convergenza tra chi si occupa di tecnologia e le line of business alloraforse non è solo un tema di IT.
I modi di affrontare il tema organizzativamente possono essere diversi, passando sicuramente perfigure di collegamento come il Chief Digital Officer o il Chief Marketing Technologist, ma in ogni caso non padroneggiare la tecnologia è come non conoscere un fondamentale che riguarda tutti.
Non importa che tu sia IT o Marketer, inizia a correre!
Alla fine io credo che alla lunga discutere delle separazioni fra chi fa tecnologia e chi fa business sia abbastanza ozioso, in modi che varieranno a seconda delle company e della loro cultura interna arriverà un momento in cui due mondi troveranno una conciliazione. Ma bisogna intanto non perdere il treno delle opportunità!
Per farlo, come titola un report che sto leggendo sulle nuove metodologie di progetto, serve un passaggio dalla cultura “Me” a quella “We”, perché oggi nessuna funzione aziendale può farcela da sola a cavalcare la disruption causata da questi nuovi fattori senza collaborare con le altre.
Perché questo titolo? Beh dopo ormai 15 anni di onorato servizio nell’ambito del digital marketing prima e dell’ecosistema digitale poi non posso non notare che tanti progetti che usano la tecnologia ancora oggi sono di breve periodo, notiziabili e…senza un piano su ciò che avverrà dopo.
Non c’è niente di male a sparare i fuochi d’artificio, anzi!
Avrete sentito parlare del ciclo di hype, spesso anche da me: le tecnologie e le innovazioni che hanno un impatto sociale e sulla vita delle persone infatti raramente sfuggono a questo percorso. Siccome nel mondo multicanale ci deve conquistare una reputazione e una visibilità che non sempre può essere ereditata da quella che abbiamo nella nostra tradizionale attività di business, cavalcare l’hype è una capacità importante.
Cavalcare poi non vuol dire sposare qualsiasi cosa per sentito dire, senza considerare i nostri clienti e tutti i fattori in campo, sia chiaro, tuttavia essere pionieri aiuta molto, a volte anche a prescindere dai risultati sui KPI che non siano quelli sulla visibilità. Insomma, ogni tanto centrare il momento giusto per un’iniziativa che possa essere poi integrata in seguito è utile, anche verso l’interno della vostra organizzazione, per dare forza e visibilità alle vostre cause.
I tempi però sono maturi per qualcosa di più
Non ho usato a caso il termine ecosistema. Ancora 5-6 anni fa si poteva pensare a progetti slegatida qualsiasi contesto tecnologico dell’azienda, oggi questo è molto meno fattibile perché la nostra reputazione e la customer experience passano attraverso la coerenza e la consistenza di tutti i punti di contatto che offriamo.
La pervasività dei dispositivi tecnologici
Se quindi non sempre si può partire da subito con un’integrazione profonda per non perdere il treno del momento bisogna pensare anche al dopo, pena la creazione di una serie di isole scollegate fra loro.
L’influenza degli strumenti digitali ormai è troppo forte e pervasiva, e il contributo che questi danno deve essere sostanziale, misurabile e di lungo periodo, anche quando non è roboante.
La fatica (e l’importanza) di trovare un equilibrio
Come si trova un compromesso accettabile tra queste due forze, la visibilità e la strutturazione? A mio avviso si passa ancora una volta per competenza e governance.
Competenze (bimodali) perché bisogna sapere riconoscere le opportunità vere da quelle di pura moda e capire per ciascuna le implicazioni sul disegno complessivo.
Governance perché bisogna avere un piano e un metodo con cui portare a bordo l’innovazione in modo sistematico, senza creare colli di bottiglia ma nemmeno senza lasciare all’anarchia l’ecosistema aziendale.
Con questi due pilastri si possono costruire serenamente tutti i tipi di iniziativa, senza dimenticare ogni tanto dobbiamo far ricordare che ci siamo. Mafe De Baggis dice che noi uomini e donne del digitallavoriamo per essere inutili quando la digitalizzazione sarà matura, io preferisco dire invisibili, perché guidiamo un processo che appare ormai naturale ma che deve essere continuamente evoluto.
E per non essere troppo invisibili (anche ai fini di budget!), ogni tanto serve un piccolo o grande fuoco di artificio.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Avvertenza preliminare e doverosa: se non siete ancora stati in Expo Milano 2015 e volete rimanere con il gusto della sorpresa non leggete ancora questo post e sappiate solo che il padiglione giapponese fa parte di quelli da vedere.
La recinzione del padiglione giapponese (Ansa)
Detto questo, il post nasce appunto dalla mia esperienza del weekend, in cui finalmente dopo varie visite all’Expo per motivi lavorativi ho potuto vedere con calma una selezione di padiglioni, ovviamente con l’occhio attento alla tecnologia disseminata all’interno. E il padiglione giapponese mi ha colpito tra tutti, oltre che per la bellezza, per l’uso sapiente di alcune scelte che sono ottime per dare degli spunti su come andrebbe utilizzata la tecnologia.
LA TECNOLOGIA VA PORTA E SPIEGATA
Il Giappone non ha lesinato nel numero di persone presenti nei suoi spazi, che vi accompagnano da una sala all’altra e vi invitano con grande gentilezza (e persistenza) a scaricare la app, grazie anche al wi-fi free e stabile presente. Moltissimi padiglioni hanno una app (in forma di cartello all’ingresso) ma qui l’utilità diventa reale e le assistenti vi avvisano quando usarla e come.Risultato, le persone la scaricano e poi la usano (anche perché, come vedremo subito, ne vale la pena).
LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELL’ESPERIENZA
Il lato wow delle installazioni tecnologiche non scarseggia in Expo, anche se non tutti raggiungono l’obiettivo di comunicazione di un messaggio cui ambiscono senza eccezioni i vari paesi. Anche nel padiglione giapponese la sorpresa e la parte spettacolare non mancano, ma sono vincenti perché non rimangono solo fini a se stesse.
la fontana di immagini (foto dell’autore)
Arrivati alla sala dell’innovazione infatti vi troverete davanti a una spettacolare “fontana” di contenuti dove mettendo in appositi spazi i vostri smartphone con l’app aperta potrete “catturare” trascinandole verso di voi le foto che cadono dall’alto. Ciascuna si trasformerà in unapprofondimento da guardare sul telefono, in una sezione apposita della applicazione. Un modo poetico, divertente e molto tecnologico di veicolare contenuti di approfondimento.
OGNI COSA A SUO TEMPO (MOMENTI DI MARKETING)
Nel padiglione ci sono tantissimi contenuti ma il tempo disponibile è poco, per non parlare della stanchezza dopo le file e del caldo. Ecco che la app eroga con la fontana (e poi a fine visita in altre sezioni) una grande quantità di contenuti di approfondimento da fruire con calma.
I contenuti salvati dalla cascata
Per fare un confronto, un altro bel padiglione, quello tedesco, grazie alle seedboard (semplici taccuini di carta con sensori, molto interessanti tecnologicamente) e a tanti altri elementi di interazione fornisce una montagna di dettagli che devono essere visti però sul posto. Troppi per il contesto e ilmomento di marketing, e peccato perché sembravano molto validi.
le seedboard del padiglione tedesco
Nel caso del Giappone invece l’inserimento in una narrazione guida dalle esperienze diventa un modo vincente di fare storytelling. Il che mi porta alla considerazione successiva.
COINVOLGERE PER FAR PASSARE I MESSAGGI
Oltre all’esempio di prima della fontana alla fine del giro vi troverete a fare l’esperienza del “Ristorante Futuro” dove tra un misto di tecnologia (schermi touch da attivare con le bacchette e molto altro), animazione e karaoke vi riescono a spiegare in 20 minuti la cucina giapponesedivertendovi e passandovi il concetto che mangiare assieme ci rende amici.
Qui la tecnologia sta ancora piu sullo sfondo e quello che fa la differenza diventa la combinazione della qualità e rilevanza dei contenuti unite a un bel modo di porre il messaggio. E si esce felici e informati.
DARE SEGUITO ALL’ESPERIENZA: ALLA FINE UN FOLLOW UP DISCRETO E DI CONTINUITA’
Alcune ore dopo che avete lasciato il padiglione l’app vi sblocca una serie di contenuti ulteriori e vi ricorda con una notifica push che rimarrà attiva fino a fine EXPO, ma che se volete potete anche rimuoverla. Siccome difficilmente lo farete e terrete la app su device, potrete trovare nuove cose interessanti rispondendo ad un quiz ed interagendo con le diverse sezioni. Insomma l’esperienza continua, se vi va.
La schermata della app dopo la visita
Sintetizzando quindi la tecnologia piu avanzata diventa di successo in presenza di tre elementi:organizzazione, contenuti di qualità ed esperienza coerente. Bella lezione.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Digital Transformation e “Digital disruption” sono tra i termini più di moda, e per una volta anche con buone ragioni, ogni volta che si parli dei nuovi paradigmi creati dalla tecnologia.
Le si vede all’opera quando cambia il volto di un settore economico, quando vengono travolti dei big apparentemente inattaccabili (Nokia, Blockbuster, Kodak), quando si creano nuovi modelli (Uber, Airbnb). Ma anche per come la trasformazione sta impattando le organizzazioni. Ho scritto tante volte delle competenze che devono avere coloro che aiutano questo cambiamentodall’interno delle organizzazioni e di come si debba creare una governance con nuovi standard.
Un altro grande tema è quello della capacità di collaborare opposta invece al livello di conflitto: come tutte le disruption infatti anche quella digitale colpisce chi non sa cambiare, ed è scontato, ma anche chi pur cavalcando l’onda non ha la giusta attitudine per posizionarsi in un nuovo modo di lavorare.
Il digital è diventato, lecitamente, un terreno di conquista e di affermazione personale e tuttavia non può più essere un’area separata dal resto dell’organizzazione con cui invece si deve relazionare profondamente e proficuamente, specie con le funzioni che se ne sentono più minacciate.
Se la collaborazione sull’asse marketing-IT è ormai dibattuta da tempo (risolta poi è ben altra questione) sono molti i terreni in cui la digitalizzazione porta grandi opportunità e anche profondi cambiamenti, con le relative tensioni. Dal mio punto di vista chi guida e accompagna il cambiamento deve quindi avere una profonda capacità di empatia e collaborazione oltre che la conoscenza nel dettaglio di come funziona l’organizzazione e dei relativi processi per calare all’interno della realtà le opportunità tecnologiche.
Non basta essere quindi degli appartenenti a una generazione di nativi digitali per poter concretamente portare beneficio alla propria organizzazione e tantomeno si può fare parte della scuola di coloro che ancora pensano che detenere le informazioni senza condividerle equivalga ad avere potere.
Sia chiaro, non parlo di organizzazioni idilliache e senza conflitti interni. Ma senza la capacità di gestire dei confini che cambiano in modo fluido non ci si può che finire nello scontro perenne e nella paralisi. E prima o poi questo all’esterno si vede (e si sente, sui conti).
Che esperienza avete in merito?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Lo spunto per questo contributo viene dall’interessante evento Digital Analytics Day cui ho avuto modo di partecipare qualche tempo fa dove, non a caso, la questione delle reportistiche per una logica data driven è stata toccata in molti interventi.
Tra gli altri cito quello di David McCandless, da cui ho tratto l’immagine sotto e che qui racconta appunto che cosa serve per una buona data visualization.
Il valore della data visualization
Il punto di partenza è semplice, abbiamo montagne di dati e, posto di gestirli già in modo corretto, non è facile renderli leggibili e interessanti. Ecco che la visualizzazione diventa un mezzo potente ed efficace per comunicare ma anche per mostrare in maniera intuitiva le correlazioni più o meno nascoste.
L’obiettivo diventa quindi di raccontare storie ricche di senso e per essere di facile lettura, la presentazione deve essere creata da chi capisce i valori del business di riferimento e diventa quindi più complessa la skill per la preparazione dello storytelling.
Sicuramente questo si innesta anche nel grande trend della prevalenza del modo visivo di fruire le informazioni, testimoniato dalla diffusione delle infografiche ma anche di molti social largamente visivi come Instagram o Pinterest.
L’imperativo di rendere i dati azionabili e utili
Ecco quindi perché la visualizzazione assume sempre maggiore importanza: i dati ormai sono percepiti come centrali in molti ambiti aziendali, nel marketing come nell’HR management, e quindi il tema diventa sempre più quello di avere i dati corretti nel momento corretto, piuttosto che un grande volume che risulta invece non azionabile.
Come salta all’occhio dal grafico qui sopra, tratto da un report di Econsultancy, decresce infatti la percentuale di aziende che dicono che l’analisi dei dati produce sicuramente raccomandazioni attuabili che fanno la differenza per la propria organizzazione: solo il 23% degli intervistati, rispetto al 40% dello scorso anno, un pesante calo del 43%. Quindi il bisogno di capire meglio i propri dati urge, decisamente.
Citando un recente documento di SAS, ecco che la data visualization viene in aiuto dato che “levisualizzazioni aiutano la gente a vedere cose che non erano loro evidenti prima. Anche quando i volumi di dati sono molto grandi, i modelli possono essere individuati rapidamente e facilmente. Effetti grafici trasmettono le informazioni in modo universale e rendono semplice condividere idee con gli altri. Consentono alle persone di chiedere ad altri: vedete quello che vedo io?”.
La cultura del dato, a che punto siamo?
Riprendo infine su questa domanda quanto scrissi quasi un anno fa, parlando dei risultati dell’Osservatorio Big Data e Business Intelligence del Politecnico di Milano, in attesa a fine mese del nuovo rapporto. All’epoca solo il 17% delle aziende lamentava infatti carenze di software adeguati, mentre nel convegno e nella ricerca si parlava molto di Data scientist e Chief Data Officer, che perònon erano previsti nemmeno nel futuro dal 73% delle organizzazioni e hanno invece un ruolo formalizzato nel 2% (è presente in qualche modo in altro 11%).
Vedremo se quest’anno le cose cambieranno, almeno dei numeri. E nel mentre, speriamo che un nuovo modo di vivere e presentare il dato possa aiutare l’adozione di una nuova cultura data driven, che usi creatività e scienza in modo dinamico e combinato.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Nell’agenda digitale delle Destinazioni Turistiche vi sono vari punti - fin troppi - non ancora affrontati adeguatamente e tra questi spicca il governo dei “flussi turistici digitali”, intesi come i movimenti dei viaggiatori attraverso i canali digitali durante tutta l’esperienza turistica (dal “pre-viaggio” al “post-viaggio”). Questi flussi sono oramai fondamentali per i turisti nazionali e internazionali nelle diverse fasi di decisione pre-viaggio (dall’ispirazione fino alla scelta, passando per la prenotazione), ma in prospettiva lo saranno sempre più anche durante e dopo il viaggio (quando si condivide l’esperienza con altri potenziali viaggiatori e si costruisce l’idea di viaggio successiva). Pensiamo sia perciò utile riportare qualche dato che evidenzia come si comporta il Turista Digitale Italiano, sapendo che è tra i meno “digitalmente avanzati” in quest’ambito, anche rispetto ai paesi in via di sviluppo come la Cina o l’India. Il Turista Digitale italiano (colui che ha fatto almeno un’attività online durante un viaggio di durata superiore a 3 giorni nella nostra indagine) è particolarmente attivo su Internet in tutte le macro-fasi del viaggio: nei momenti pre-viaggio, l’88% ricerca informazioni e l’82% prenota o acquista qualcosa (alloggio, mezzo di trasporto o attività da fare a destinazione); durante il viaggio il 44% acquista su Internet qualche attività e l’86% utilizza applicazioni in destinazione a supporto dell’esperienza; il 61% fa attività digitali nel post-viaggio. E’ evidente che in ciascuna di queste fasi la “Destinazione Illuminata” (o, abusando degli inglesismi, la “Smart Destination”) può intervenire digitalmente per portare avanti i propri obiettivi. Entrando brevemente nel dettaglio, la prima fase di un’esperienza di viaggio è l’ispirazione, dove viene incubata l’idea di viaggio e dove la destinazione può incidere molto, considerando che in questa fase non è stata data ancora una risposta alla domanda fondamentale del turista: “dove vado?”. Nella maggior parte dei casi l’ispirazione sembra essere influenzata da servizi disponibili sul web: il 33% ricorda di essere stato ispirato da commenti e recensioni letti su Internet, il 19% da articoli online di testate specializzate in viaggi, il 12% da post su social network, il 9% da newsletter e solo il 2% da banner online. Da non trascurare però il fatto che molti sono comunque influenzati da fattori tradizionali: il 46% ha dichiarato di essere stato suggestionato dai consigli dei conoscenti (su cui incidono fortemente i social network), mentre il 22% dalla nostalgia di una vacanza passata. Questo dato evidenzia come sia fondamentale anche un governo omnicanale dei flussi, e non semplicemente multicanale. Per le destinazioni è anche importante sapere che la maggior parte dei Turisti Digitali inizia la ricerca partendo da una motivazione esperienziale (il 31% infatti dichiara di essersi basato su una certa idea di vacanza: avventurosa, rilassante, culturale etc.), ma ben un turista su quattro (il 25%) parte proprio dall’attrazione per una certa destinazione. E’ fondamentale, quindi, da un lato che la destinazione agisca sulle leve della reputazione per attrarre i flussi digitali sui propri canali, ma allo stesso tempo che, una volta attratti, i turisti trovino gli strumenti e i contenuti che li portino a sceglierla per il viaggio, piuttosto che migrare su altre proposte più appealing. A livello temporale, la ricerca su Internet inizia 3 mesi prima della partenza per il 37% dei turisti digitali (per il 13% 6 mesi prima), da 1 a 3 mesi prima per il 40%, da 15 a 30 giorni per il 12% e il restante 11% si attiva solo due settimane prima della partenza. Per quanto riguarda la prenotazione, invece, il digitale implica uno spostamento sempre più a ridosso della vacanza, tanto che più del 24% dei turisti acquista le attività da fare a destinazione nell’ultima settimana prima della partenza, o addirittura durante la vacanza stessa. Addirittura il 48% dei turisti digitali prenota la propria sistemazione una volta giunto nella località e il 60% di questi lo fa su Internet. Quasi la totalità dei viaggiatori acquista a destinazione servizi ‘aggiuntivi’ come titoli di viaggio per i trasporti locali e biglietti per attività culturali. Il canale preferito in questi casi è quello offline, ma il 44% degli intervistati conclude almeno un acquisto online. I turisti digitali condividono inoltre la propria esperienza di viaggio sia una volta tornati a casa (30%) sia già durante la vacanza stessa (24%), con una componente rilevante di questi che lo fa in entrambi i momenti (10%). E’ interessante anche notare che un 4% dice di pubblicare video e/o foto in merito alla vacanza ancor prima di esser partito, aspetto ancora poco compreso e sfruttato dagli attori del mercato. La scrittura di recensioni invece e un’attività svolta principalmente al rientro dalla vacanza (33% dei turisti digitali). Il 12% lascia i propri commenti anche sui social network e il 6% sui siti di prenotazione e comparazione di alloggi; solo il 2% lo fa direttamente nel sito web del fornitore del servizio acquistato. Il 92% di chi scrive recensioni dichiara di farlo per aiutare possibili clienti futuri e il 32% per spingere i fornitori a migliorarsi. Questi dati, dal nostro punto di vista, evidenziano in modo lampante che la competitività delle destinazioni dipenderà dalla capacità di gestire e/o guidare i flussi digitali. Per farlo servono competenze adeguate sommate al desiderio di imparare e mettere in discussioni pratiche consolidate negli scorsi decenni. Il messaggio è ricorsivo, ma metterlo in pratica non lo è assolutamente. Sfortunatamente, abbiamo avuto modo di interagire con alcuni attori responsabili di destinazioni che mostravano un rilevante gap di competenze, di efficienza e di “buona volontà”. Le eccezioni ci sono, ma è ancora lunga la strada perché diventino la normalità. Via Agenda Digitale
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