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Arthur Bloch
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Tre miliardi e mezzo di euro. Tanto vale la sharing economy in Italia secondo la ricerca commissionata da PHD Italia  all’Università degli Studi di Pavia (Dipartimento di Scienze economiche e aziendali, docenti Luciano Canova e Stefania Migliavacca). Si tratta della prima ricerca che quantifica l’impatto economico complessivo dell’economia collaborativa nel nostro Paese.

Quanto vale in termini di PIL la sharing economy in Italia attualmente? E quanto varrà nei prossimi dieci anni?

In termini di PIL la sharing economy vale lo 0,2%. La cifra equivale al 10% circa delle risorse stanziate dalla legge di stabilità 2016. A colpire, però, sono soprattutto le previsioni di crescita per i prossimi cinque e dieci anni che, a seconda degli scenari ipotizzati, arrivano a toccare cifre che variano dagli 8,8 ai 10,5 miliardi di euro (per il 2020) e dai 14,1 fino ai 25,2 miliardi di euro (per il 2025).

Premesso che sulla definizione stessa di sharing economy e su cosa debba comprendere il dibattito è ancora molto acceso, la ricerca segue l’approccio della Commissione Europea che considera frutto dell’economia collaborativa le transazioni prodotte attraverso le piattaforme digitali con un modello di business basato sul noleggio o la condivisione di beni e servizi, allo scopo di ridurre il sotto-utilizzo e l’uso inefficiente degli stessi.

Per effettuare la ricerca è stato creato un modello economico ad hoc, battezzato Shaker (Sharing Key Economic Resources) attraverso la metodologia della System Dynamics, un approccio cognitivo che permette di interpretare e modellare qualunque fenomeno, economico così come fisico, sociale, psicologico, costruendo scenari.

SCENARIO BASE In base allo scenario attuale, considerato lo scenario base della ricerca (6,4 milioni di utenti “forti” della sharing economy nel nostro paese) nel 2020 l’economia collaborativa supererà il doppio del suo valore attuale raggiungendo gli 8,8 miliardi di euro, equivalenti allo 0,5% del Pil (9,7 milioni di utenti) e nel 2025 crescerà di oltre il quadruplo rispetto ad oggi, toccando i 14,1 miliardi, cioè lo 0,7% del Pil (12 milioni di utenti).

SCENARIO 1: SHARING BOOST Un primo scenario è basato sull’ipotesi che a decollare sia la popolazione di utenti della sharing economy (dagli attuali 6,4 milioni a 11,5 milioni nel 2020 e 16,5 milioni nel 2025). In termini di valore aggiunto per l’economia, nel 2020 il valore della sharing economy è previsto in 10,2 miliardi di euro (+16% rispetto allo scenario base) e, nel 2025, in 19,4 miliardi (+37% vs. scenario base).

SCENARIO 2: DIGITAL DISRUPTION Lo scenario digital disruption è quello più ottimista, perché ipotizza non solo l’incremento degli utenti della sharing economy (11,6 milioni nel 2020 e 21,4 milioni nel 2025), ma anche un allargamento della popolazione di internauti in assoluto all’interno di tutte le fasce, frutto degli investimenti sulle infrastrutture digitali che andranno probabilmente aumentando. In questo secondo scenario l’impatto economico dell’economia collaborativa risulterebbe pari a 10,5 miliardi nel 2020 (0,6% sul PIL) e a 25,2 miliardi di euro nel 2025 (1,38% sul PIL).

SCENARIO 3: BOLLA E se si trattasse di una bolla? La ricerca prova a rispondere anche a questa domanda e ipotizza, per il 2025, un valore di soli 4 miliardi di euro, dopo aver raggiunto un picco di 14 miliardi di euro nel 2019.

“Quello della sharing economy – commenta Luciano Canova, docente di Economia Comportamentale all’Università di Pavia – è sicuramente un tema caldo del dibattito scientifico, per l’importanza che riveste come trend dell’innovazione sociale e come possibile nuovo paradigma dei rapporti tra economia e società. Mancano ancora modelli di valutazione di impatto economico, per cui abbiamo provato a quantificare il peso economico dei settori coinvolti dall’economia collaborativa e a modellare l’evoluzione da qui a 10 anni del PIL, tenendo conto di alcune leve comportamentali e alcuni dati che riguardano appunto gli utenti dei servizi di sharing. E’ il primo tentativo di stimare il valore economico dell’economia collaborativa in Italia e crediamo che la metodologia della dinamica dei sistemi sia uno strumento utilissimo per presentare scenari e prospettive da qui al 2025”.

Via Spot and Web
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Di Altri Autori (del 04/07/2016 @ 07:15:35, in Marketing, linkato 2066 volte)
Il cittadino, il consumatore continua a cambiare e i prossimi anni vedranno alcune caratteristiche e alcuni comportamenti rafforzarsi, prendere notevole importanza, diventando driver fondamentali per la comprensione del cliente. Il primo aspetto fondamentale è la caduta dell’attenzione media continuativa e della capacità di ricordare in modo qualificato. Molti hanno presente il felice claim pubblicitario di Settimana Enigmistica «non lasciare che il tuo cervello si spenga ogni 10 secondi»: ebbene, una recente ricerca ha mostrato che i dieci secondi sono ormai un miraggio, l’attenzione media è scesa attorno ai 7-8 secondi. Il nostro cervello tende a perdersi dopo pochissimo tempo se non è opportunamente stimolato, sollecitato all’attenzione, spinto a tenere il filo. Per avere un punto di riferimento chiaro: in uno spot televisivo breve (non un 30”, ma un 15”) si rischia di perdere l’audience – sempre che se ne abbia l’attenzione al primo secondo – a metà del filmato, magari quando il nome del brand o del prodotto non è ancora stato introdotto e il messaggio che si vuol comunicare non è stato sviluppato pienamente. La causa di questo crollo dell’attenzione (che, ovviamente, è medio perché sintetizza valori differenti tra i soggetti e anche tra situazioni di uno stesso soggetto, e si riferisce essenzialmente al mondo occidentale) deve essere studiata più a fondo, ma già adesso viene ritenuto plausibile che il nostro rapporto con le tecnologie digitali – in particolare con quelle che ci forniscono continui aggiornamenti (da uno smartphone riceviamo notifiche su email, instant messaging e sms, news in tempo reale, alert meteo e, per molti, post su social network personali e professionali) – sia alla base di questo cambiamento nel nostro orologio interno mentale.

Gli effetti? La comunicazione va ripensata; e non parliamo solo della comunicazione televisiva (il già citato classico spot) bensì di ogni comunicazione: quella commerciale, quella professionale/lavorativa, persino quella interpersonale. Il cogliere l’attenzione sarà sempre più difficile e costituirà un elemento di successo (o di insuccesso) per chi si rivolge al consumatore. Le strade principali per superare la soglia degli otto secondi sembrano essere quelle di messaggi con un frequente rilancio (cercando di introdurre elementi di stimolo con elevata frequenza) o, in alternativa, la strada emozionale, perché una comunicazione non di tipo razionale, ma che colpisce al cuore, interagisce con il nostro cervello in modo differente.

RICORDI SBIADITI
 Se non ci ascoltano, non ci ricordano, o comunque ricordano poco (e male) quello che cerchiamo di comunicare loro. In questi anni, molte ricerche di mercato condotte da AstraRicerche e da altri istituti mostrano un degrado del ricordo, e questo fenomeno si sta accentuando col passare del tempo. Pensiamo a una situazione di semplice test del ricordo di una comunicazione pubblicitaria: innanzitutto tende a diminuire il ricordo delle pubblicità, fatto spiegabile solo in parte con audience (reach and frequency) calanti; tende a essere meno forte il ricordo qualificato degli spot, la capacità di indicare qual è il contenuto, il messaggio principale, il “plus” che la marca o il prodotto vogliono vantare: in altre parole si rischia che la parte visuale (il “cosa ho visto”) resti impressa molto più della parte concettuale (il “cosa mi vogliono dire”).
Si assiste a una pericolosa riduzione dell’associazione tra la pubblicità – e il suo messaggio – e il proponente: troppo spesso ci troviamo di fronte a spot ricordati da una buona quantità del target, ma con un’indicazione della marca o prodotto reclamizzati davvero scadente (in alcuni casi con l’indicazione di competitor superiori rispetto al brand effettivamente pubblicizzato). Questo issue non può, non deve essere ignorato: cogliere l’attenzione – e quindi ideare la comunicazione (di qualunque tipo) con questo aspetto ben presente – è una sfida che il futuro renderà sempre più difficile da affrontare.

L’IPERCOMPETIZIONE
 D’altra parte il consumatore si trova di fronte a una proposta davvero ampia in moltissimi settori merceologici. Il numero di attori (marche) e di proposte (prodotti) è cresciuto a dismisura ed è destinato a crescere ulteriormente: l’e-commerce ha reso possibile il contatto con brand con cui non si sarebbe venuti in contatto qualche anno fa, e ha favorito la creazione di molti marchi che si propongono solo o quasi solo online e che vengono comunque presi in considerazione dai consumatori. Il contesto è sempre più iper-competitivo.
Per avere un’idea concreta, si pensi a un'indagine condotta da AstraRicerche nel 2015 sulla cura del corpo da parte delle donne italiane: le 1.500 intervistate, invitate a indicare in modo spontaneo le marche di questa categoria, hanno fornito 448 risposte differenti (avendo già scorporato i nomi delle marche non verificabili/senza un riscontro online o nei database dell’istituto). O, in modo analogo, un ristretto campione di 400 donne è riuscito a indicare ben 256 marche diverse di abbigliamento casual. Ebbene, in entrambi i casi colpiscono due aspetti: la quantità di indicazioni diverse e la presenza massiccia di marche nuove, immesse sul mercato negli ultimi anni.

I NEW COMER
 Proprio la grande quantità di marche new comer indicate come note, apprezzate, acquistate ma – soprattutto – come prese in considerazione per gli acquisti futuri, ci consente di portare l’attenzione su un driver fondamentale già oggi rispetto a dieci anni fa, e in sicura crescita nei prossimi anni: l’infedeltà del consumatore alla marca. Gli aspetti più interessanti sono due: da una parte si assiste all’ampliamento del proprio set di marche acquistate per una specifica categoria merceologica (si passa da «per l’olio extravergine di oliva non compro sempre la stessa marca, ma alterno le stesse 2-3 marche» a «scelgo tra 6-7 marche diverse»), dall’altra si accettano (e per molti consumatori si cercano) marche appena scoperte («perché non dovrei provarla?»). In effetti, sulla fidelity molte aziende dovrebbero fare un ripensamento profondo, o semplicemente iniziare a occuparsene perché i loro prodotti non possono sostenere la sfida competitiva in un mercato ove l’abitudine, l’inerzia d’acquisto contano sempre meno. La sfida delle nuove marche si fa sempre più agguerrita. Ogni mattina milioni di italiani ricevono email con proposte di acquisto (da una singola azienda, dai grandi marketplace dell’e-commerce, da siti multimarca specializzati in una categoria merceologica, da chi propone coupon o altre forme di accesso scontato a beni e servizi. E ogni mattina milioni di persone vedono proposte di marche non note, ma le prendono in considerazione.
A volte per le proposte aggressive a livello di prezzo, a volte grazie al senso di garanzia offerta dal servizio online che ha inviato l’offerta. E questo fenomeno è destinato a crescere sia tra i più giovani – i nativi digitali e le altre generazioni temporalmente adiacenti – ma anche tra gli adulti, che accelerano nell’uso di Internet: non solo come numero di persone connesse, ma soprattutto come intensità di uso e nella navigazione, le informazioni sui prodotti e l’effettivo acquisto online giocano un ruolo fondamentale.

PARLARE AL CONTRARIO
 Di fronte a questa sfida, non basta più vantare i propri plus: è sempre più necessario evitare che vengano messi in piazza i propri minus (reali o meno). Proprio per la crescente rilevanza di Internet non solo per gli acquisti online, ma soprattutto come strumento di informazione prima dell’acquisto, è importante – e per alcuni brand sarà semplicemente fondamentale – studiare le opinioni espresse dagli utenti in Rete e avere una strategia di reazione.
 Lo studio non deve concentrarsi sulle espressioni di apprezzamento verso la propria marca e verso quelle concorrenti: deve, al contrario, valutare con attenzione le opinioni “contro”, negative. I consumatori, grazie all’ipercompetizione dell’offerta, possono stabilire di non scegliere una marca (o un prodotto) a seguito di pareri altrui negativi. Perché in fondo sarà sempre possibile trovare un’offerta equivalente o quasi, caratterizzata dall’assenza o dalla debolezza delle opinioni negative. Sotto questo aspetto cambiano le metriche di valutazione: non più “quale è il sentiment positivo associato alla mia marca rispetto alle altre?”, ma “quanto pesa tale sentiment negativo sulla mia marca preferita?”.
Allo stato attuale, sembra che numerose aziende non siano pronte a reagire a quello che un tempo era un passaparola negativo all’interno di gruppi ristretti, e ora è un tam tam potenzialmente planetario che, con il perfezionamento dei sistemi di traduzione automatica sul Web, diventerà davvero globale. Sarà normale leggere le opinioni scritte in una lingua a noi sconosciuta, che persino non sappiamo riconoscere, e prendere decisioni di acquisto basate su considerazioni negative espresse a migliaia di chilometri di distanza.

Via Business People
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Di Altri Autori (del 01/07/2016 @ 07:18:53, in Mobile, linkato 1890 volte)

Quello dei pagamenti p2p (o InstantPayment) da Mobile è uno dei trend più interessanti degli ultimi due anni nel panorama del Mobile Payment & Commerce. La vivacità lato offerta è confermata dai numeri: già nel 2014 sono stati individuati oltre 35 servizi in tutto il mondo e molti Big Player studiano questo settore con forte interesse (da Apple a Facebook, da Twitter a Whatsapp). Paypal nasce proprio come strumento di P2p per poi immediatamente trasformarsi in uno strumento per acquistare presso un merchant (p2b). Anche in Italia abbiamo notato un forte fermento nel corso del 2015. Si sono affacciate sul mercato le startup Satispay e2Pay, già attive, oltre alla recentissima Tinaba. Tra le soluzioni proposte da operatori più legati tradizionalmente al mondo bancario troviamo invece Jiffy di SIA (servizio a cui hanno già aderito 13 gruppi bancari, di cui 7 sono già attivi: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Ubi Banca, BNL, Widiba, Carige e Cariparma), Zac(soluzione progettata da ICBPI e già scelta da Gruppo Creval, Veneto Banca, CSE e Cedacri), Hype di Banca Sella e Chat&Cash (rilasciata dal Banco Popolare).
La user experience nell’invio di denaro è abbastanza simile per tutti i servizi. Una volta aperta l’app, è sufficiente selezionare il destinatario del denaro dalla mia rubrica (in stile “WhatsApp”), digitare la cifra (e un’eventuale descrizione o messaggio) e cliccare “invio”. Il denaro arriverà al destinatario pressoché in tempo reale.

Alcuni di questi nuovi servizi vanno già oltre e permettono di effettuare acquisti anche presso gli esercenti. L’idea è di crearsi in primis una rete capillare di utenti tramite il passaparola del p2p per poi andare a offrire uno strumento anche presso gli esercenti. In Italia tra i più attivi sotto questo punto di vista c’è sicuramente Satispay (8. 050 negozi attivi al momento, tra cui diversi benzinai TotalErg nella zona di Milano, Como, Roma e le gelaterie Grom). Per gli utenti il servizio rimane completamente gratuito, mentre agli esercenti viene trattenuta una fee di 0,20€ a transazione, ma solo per importi superiori ai 10,00 €. Anche Jiffy la soluzione promossa da SIA sta sperimentando con alcune banche italiane la possibilità di utilizzare la loro soluzione all’interno dei negozi.

Da questa settimana gli esercenti potranno accettare il pagamento direttamente sul POS bancario (POS di Ingenico) che potrà ricevere in tempo reale la conferma di avvenuto pagamento e consentire di far uscire il consumatore con lo scontrino in mano. Il consumatore dalla propria applicazione confermerà pagamento (tramite geolocalizzazione dell’esercente) e importo e l’esercente visualizzerà la conferma del pagamento tramite il proprio POS. Questa soluzione potenzialmente abilita moltissimi esercenti dotati di POS Ingenico. Banca Iccrea in collaborazione con Sinergia ha dichiarato che in poche settimane saranno attivi oltre 80.000 esercenti per accettare i pagamenti con Satispay.

Questa innovazione potrebbe rappresentare una interessante rivoluzione, il Mobile P2b diventa una reale e concreta alternativa al pagamento in contante e con carta in negozio con commissioni per l’esercente più convenienti rispetto al pagamento con carta. Tutto da capire con che velocità saranno abilitati gli oltre 1,8 milioni di esercenti dotati di un POS in Italia che dovrebbero sottoscrivere un contratto per accettare sia Satispay sia Jiffy.

Via Agenda Digitale

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