Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Negozi fisici e shop online sempre più complementari nelle abitudini di acquisto delle persone: il trend globale che emerge dallanalisi di PwC Total Retail Survey 2015 è sempre più quello della ricerca incrociata comune a oltre il 70% dei consumatori intervistati. Si fa sia lo showrooming (ricerca in negozio-acquisto online), che il reverse showrooming (ricerca online-acquisto in negozio), a dimostrazione della sempre maggiore integrazione e complementarietà dei diversi canali. La ricerca ha analizzato i comportamenti di consumo online e lattitudine alla multicanalità di 19.000 consumatori in 19 paesi, tra cui oltre 1000 italiani.
In Italia il panorama non è poi così diverso dal trend mondiale e la ricerca ha riscontrato quelle che chiama quattro forze di rottura che nel nostro paese assumono specifiche caratteristiche.
Il rapporto con il negozio fisico
Entrare in un negozio, provare e toccare con mano i prodotti è una abitudina che agli italiani continua a piacere: il 38% (36% a livello globale) si reca settimanalmente in negozio, contro il 25% che utilizza il PC, il 13% il tablet e il 12% lo smartphone. E il negozio fisico conquista anche un nuovo ruolo poiché i consumatori sono sempre più propensi ad utilizzarlo come vetrina per poi comprare online, spinti dalla convenienza di prezzo. Chi preferisce il negozio rispetto ai canali digitali, mette ai primi tre posti la possibilità di provare e testare il prodotto (65% Italia, 60% globale), la gratificazione istantanea dellacquisto in negozio (52% Italia, 53% globale) e la maggior sicurezza sulladeguatezza del prodotto nel soddisfare le proprie esigenze (33% Italia e campione globale).
Sempre più spesso però gli italiani utilizzano il negozio come vetrina, per poi comprare online: il 67% è spinto dalla potenziale convenienza di prezzo, rispetto al 56% a livello globale (e solo 48% per il consumatore tedesco). E anche più favorevole a ricevere offerte via email o SMS, testimoniando limportanza del digital marketing. Chiede però una digitalizzazione più forte del punto vendita per facilitare il processo dacquisto, il pagamento e anche la condivisione con i social media. Ci si attende che il Wi-Fi, servizio ormai non più negoziabile nel campo dellospitalità, diventi uno standard universale anche nel retail: è passata dal 33% del 2014 al 23% del 2015, rimane di grande peso relativo rispetto alle altre tecnologie in store.
Il Mobile
Il mobile, rivela la ricerca, è cruciale nella fase di pre-acquisto per il consumatore italiano: il 50% dei consumatori usa lo smartphone per fare comparazioni di prezzo o ricercare il prodotto. Le barriere più importanti sono la difficoltà nellutilizzare i siti mobile, dovuta al gap infrastrutturale in Italia (accesso a mobile broadband o disponibilità di connessioni Wi-Fi negli store) e di user experience, abbinata ad una scarsa percezione di sicurezza nei pagamenti. Ciò dimostra che le tecnologie in store, dagli iBeacon alla sensoristica diffusa dellIoE passando per nuove forme di mobile e digital payment sono tuttaltro che ininfluenti nella percezione del consumatore.
I Social media
LItalia è il Paese che dimostra un impatto più elevato dei social media nelle decisioni dacquisto, per il 63%. I consumatori visitano i profili dei brand sui social media per accedere a promozioni interessanti (50%) e per visualizzare nuovi prodotti (33%). Al terzo e quarto posto emergono tra le motivazioni la partecipazione a social contest (24%) e la possibilità di interagire con pari o esperti del settore e ottenere suggerimenti (21%).
I nativi digitali I convertiti digitali hanno più potere di spesa dei nativi digitali, ancora troppo giovani ma lorizzonte per il cambiamento di scenario è tuttavia molto prossimo, spiega PWC: nellarco di un quinquennio, i giovani e giovanissimi di oggi entreranno infatti a far parte a tutti gli effetti della popolazione attiva e laumento del potere di spesa li renderà un target di primaria importanza. I retailer devono perciò comprendere che fin da oggi è necessario mettere in atto strategie e piani dazione mirati a offrire ai nativi digitali unesperienza unica per i loro acquisti.
Via Tech Economy
Gli annunci Google I/O, con Brillo e Android M in evidenza, mettono in luce parte delle strategie aziendali del colosso della ricerca. Google, nata con il search capitalizza la propria leadership indiscussa nel search, in ogni sua forma. Il capitale informativo di Google in questo senso è il più completo (nel mondo occidentale, intendiamoci, perché sappiamo bene che in altri Paesi come la Cina i valori di mercato sono sensibilmente diversi), ed è strategico per Google fare in modo che qualsiasi fonte di dati, qualsiasi transazione informativa resti il più possibile sotto il proprio controllo. Pubblicità Da qui Brillo, la piattaforma derivata da Android per creare dispositivi connessi, con Weave (ma anche API di sviluppo, protocollo di comunicazione, set di schemi e programma di certificazione per assicurare interoperabilità di dispositivi e app), da qui gli sforzi di miglioramento di Google Now, della piattaforma per i pagamenti, e del subset Android per gli indossabili. Strategia chiarissima: poiché le informazioni arrivano dagli oggetti, Google ha bisogno di mantenere il controllo su qualsiasi cosa produca informazioni.
Google In questo momento il punto di forza di Google è proprio la pervasività Android e la bontà dellesperienza possibile su diversi device, anche di natura diversa, il punto debole invece nellecosistema è non avere saputo offrire unesperienza efficace e sostitutiva di quello che già cè nellambito del computing aziendale tradizionale. ChromeOS infatti è al momento del tutto assente dalle realtà produttive importanti, e si ritaglia gli spazi pochi in ambito educational. Si può sostenere che quellesperienza non è più centrale nella produzione di informazioni. Può essere, ma non siamo così convinti che questa sia una partita di secondaria importanza. Invece torna ad essere interessante la sfida in cloud con Amazon e Microsoft, che Google si gioca con Google Compute Engine e Google Cloud Platform. Google in pratica è forte in due ambiti su tre.
Apple Apple al momento è lattore che assicura la migliore esperienza utente in assoluto negli ambiti in cui propone i propri device e il proprio software: smartphone, tablet e computing. In questo senso Apple chiude perfettamente il ciclo di esperienza utente. Tuttavia la proposta in ambito cloud non è proprio perfetta, Apple non ha la disponibilità di una piattaforma cloud aperta a tutti gli attori di mercato come Microsoft e Google (e inseriremmo sempre anche Amazon nella lista, se non fosse evidente la sua esclusione dallagone dei grandi nellofferta sui device per la mobilità). La ricchezza di Apple, proprio dal punto di vista finanziario, e come liquidità, è stupefacente, ma non vediamo una strategia superiore oltre device e intrattenimento multimediale. Insomma, Cupertino si è ritagliata un altro mercato, con al centro device e contenuti. E in questa fase sono più i competitor che per presidiare entrano con le proprie proposte nelle piattaforme iOs, mentre Apple monetizza le preferenze che gli utenti le concedono nei negozi quando comprano i device e computing, apprezzano la qualità del software, la sicurezza, ma magari poi in cloud scelgono soluzioni più aperte o che siano disponibili su tutte le piattaforme. Nella prossima era Iot la chiusura di Apple potrà costare molto cara. Anche in questo caso siamo a due task su tre ben completati: esperienza utente, e device Ok. Iot e Cloud no.
Microsoft E siamo a Microsoft. Redmond ha compiuto passi da gigante in ambito cloud con la proposta di una piattaforma come Azure, ha mantenuto livelli qualitativi molto alti nellesperienza software in azienda con Office 365, ha retto le defaillance di Windows 8, anche per mancanza di concorrenza valida nel computing tradizionale (anche perché la concorrenza non ha investito più di tanto in un ambito che non è così centrale o in pieno sviluppo come lambito mobile), ha svolto un grande lavoro per aprirsi e proporre soluzioni interoperabili. Allo stesso tempo ha mancato almeno due obiettivi: il primo è quello di una proposta smartphone convincente. Le quote di mercato sono disastrose, al momento. Doveva crescere di più.
La strategia duocentrica Arm/Intel non è mai stata chiara né chiarita. Non siamo per nulla convinti che senza avere una forte presenza con il proprio sistema operativo in ambito smartphone, nel wearable, e nellIot si possa reggere la partita. Windows nella sua declinazione embedded sarà il sistema del futuro anche per gli oggetti? Vedremo. Quando Microsoft si definisce platform vendor, in un certo senso esorcizza i rischi di non essere più il riferimento nei livelli sottostanti, nella galassia mobile, come lo sono Google e Apple.
Amazon Basta un minuto di riflessione per vedere le intuizioni geniali di Bezos e le occasioni mancate. Completamente fallito lapproccio mobile, Amazon ha letto prima di tutti gli altri le potenzialità del cloud. Limpero e-commerce ha rappresentato palestra quotidiana per unofferta cloud del tutto temperata sulle esigenze reali delle aziende. Allo stesso tempo Amazon non ha mai voluto o saputo chiudere il cerchio per unesperienza utente perfetta, interpretando anche la sua presenza nellambito dellofferta dei tablet come dispositivi per la fruizione di servizi e prodotti, ma senza mai estendere a 360 gradi la propria proposta. E possibile ma non ancora evidente che limportanza del device sia nulla. Lo sarà se tutti i vendor saranno pronti a posizionarsi su tutte le piattaforme e sarà loro consentito di farlo. Alla fine come è accaduto anche a Microsoft, sono le sue app ad essere diventate disponibili per gli altri OS, senza permettere ad Amazon di presentarsi come piattaforma completa per lesperienza utente se non a un livello superiore. Proprio quei AWS che sono il fiore allocchiello, attuale, dellesperienza cloud. Il bilancio attuale è che per gli utenti, qualsiasi sia la loro scelta in ambito di servizi e device da utilizzare in mobilità, come in ufficio, non cè ancora un protagonista assoluto in grado di offrire il meglio a 360 gradi. Ogni vendor ha un tallone dachille nella propria strategia. In questo senso la situazione è ancora molto fluida e allo stesso tempo è anche possibile che si delinei uno scenario per cui non sarà mai necessario, per avere il meglio, scegliere un unico vendor per dispositivi, esperienza software e piattaforma cloud.
Via TechWEEKeurope
Nel corso dellultimo anno e mezzo su Instagram sono apparse inserzioni occasionali e generiche, non profilate e identiche più o meno per tutti (uniche differenze finora sono su età, sesso e paese). Questo tipo di approccio alladvertising del social delle foto è destinato a cambiare radicalmente: presto infatti Instagram saprà se abbiamo 20 o 30 anni, se ci piacciono i gatti oppure le gite al mare, se amiamo il cioccolato o se invece siamo sensibili a cause di beneficenza e molto, molto altro.
Tutte queste informazioni verrano prese dai database di Facebook e incominciano ad essere più chiari alcuni dei piani che Mark Zuckerberg ha in serbo per Instagram, comprato nel 2012 per un miliardo di dollari: profilazione e advertising. Come scrive Business Insider, al momento solo brand di grandi dimensioni hanno la possibilità di fare advertising su Instagram, ma a partire dal mese di luglio, la società ha intenzione di ampliare il proprio range ed aprire anche alle aziende di dimensioni più ridotte.
Entro linverno infatti, gli strumenti per lacquisto di spazi pubblicitari su Instagram saranno integrati con quelli di Facebook, consentendo ad ogni brand che pubblicizza sul social di Zuckerberg di acquistare annunci anche su Instagram. A questo proposito in un post sul blog ufficiale di Instagram è possibile leggere che la società sta lavorando per dare a tutte le imprese la possibilità di raggiungere le persone giuste attraverso lintegrazione delle API di Facebook e Instagram.
Inoltre secondo la società, le persone vogliono entrare in contatto con aziende di ogni dimensione su Instagram, dai loro negozi di abbigliamento preferiti vicino casa ai ristoranti, fino ai più grandi brand del mondo. Secondo Forbes si tratta di un cambiamento epocale per Instagram: un primo serio tentativo di monetizzare la piattaforma da parte di Facebook a tre anni dallacquisizione.
Via Tech Economy
Il tasto buy arriva anche sulle applicazioni per le fotografie Dopo YouTube, Twitter e Facebook - e in attesa di Google - l'ecommerce conquista anche i social network "fotografici" con il tasto "buy": Pinterest e Instagram. Nel primo caso, gli utenti troveranno il pulsante per l'acquisto sotto l'immagine dei quasi due milioni di prodotti che saranno messi in vendita sulla bacheca entro la fine del mese. Si comincia ovviamente con la sperimentazione solo negli Usa e per i device Apple. Instagram offrirà invece un panorama di servizi più ampio come "compra ora", "installa ora", "registrati a una newsletter" e "scopri di più". A fornire i dati per la profilazione delle offerte sarà ovviamente Facebook, proprietaria dell'applicazione.
Via Business People
Le notizie dentro Facebook, dicevano le indiscrezioni, e ora cè lannuncio ufficiale dellazienda di Mark Zuckerberg: il nuovo prodotto si chiama Instant Articles ed è dedicato agli editori. Permette di creare, allinterno dellapp iOS di Facebook, articoli veloci e interattivi.
Facebook spiega la nuova offerta come risposta alla crescente condivisione di news allinterno del social network, specie su mobile, che ormai da anni è la prima piattaforma di accesso (nellultima trimestrale il 73% dei ricavi arrivavano proprio dallapp per smartphone). Il problema è la lentezza di caricamento: da click sul link allapertura dellarticolo lazienda calcola che in media ci vogliano 8 secondi.
Con Instant article lapertura diventa 10 volte più veloce. Instant Articles introduce inoltre una serie di funzioni interattive che stanno sperimentando al momento 9 grossi partner: The New York Times, National Geographic, BuzzFeed, NBC, The Atlantic, The Guardian, BBC News, Spiegel e Bild.
Nei video di demo si vedono alcune funzioni: sarà possibile zoomare e esplorare le foto ad alta risoluzione inclinando il telefono, guardare video in auto-play scorrendo larticolo, mappe interattive esplorabili, didascalie audio e la possibilità di mettere like e commentare le singole parti di un articolo. Lesperienza sembra ispirarsi alle web stories che da qualche anno sono diventate una opportunità per visualizzare in profondità - con video, grafiche, testo e immagini - reportage e storie anche di ampio respiro.
Il punto più delicato è il modello di business e il rapporto con gli editori, visti i trascorsi di Google. Facebook, a differenza di Google News che dà solo una anteprima e un link a un articolo, con Instant Articles fa qualcosa di più ma propone allo stesso tempo una spartizione dei ricavi ai publisher. Abbiamo progettato Instant Articles per dare agli editori il controllo sulle proprie storie, brand experience e opportunità di monetizzazione. Gli editori possono vendere pubblicità all'interno dei propri articoli e mantenere le entrate, oppure possono scegliere di utilizzare Facebook Audience Network per monetizzare gli spazi invenduti. Gli editori avranno anche la possibilità di monitorare i dati e il traffico attraverso comScore e altri strumenti di analisi spiega la nota di Facebook. Come aveva scritto il Wall Street Journal, le pubblicità potranno apparire allinterno a Instant Articles. Nel caso in cui queste siano vendute dagli editori, il 100% dei ricavi rimarrà a loro, se invece se ne occuperà Facebook, dovranno rinunciare al 30%.
Via IlSole24Ore.com
Perché questo titolo? Beh dopo ormai 15 anni di onorato servizio nell’ambito del digital marketing prima e dell’ecosistema digitale poi non posso non notare che tanti progetti che usano la tecnologia ancora oggi sono di breve periodo, notiziabili e…senza un piano su ciò che avverrà dopo.
Non c’è niente di male a sparare i fuochi d’artificio, anzi!
Avrete sentito parlare del ciclo di hype, spesso anche da me: le tecnologie e le innovazioni che hanno un impatto sociale e sulla vita delle persone infatti raramente sfuggono a questo percorso. Siccome nel mondo multicanale ci deve conquistare una reputazione e una visibilità che non sempre può essere ereditata da quella che abbiamo nella nostra tradizionale attività di business, cavalcare l’hype è una capacità importante.
Cavalcare poi non vuol dire sposare qualsiasi cosa per sentito dire, senza considerare i nostri clienti e tutti i fattori in campo, sia chiaro, tuttavia essere pionieri aiuta molto, a volte anche a prescindere dai risultati sui KPI che non siano quelli sulla visibilità. Insomma, ogni tanto centrare il momento giusto per un’iniziativa che possa essere poi integrata in seguito è utile, anche verso l’interno della vostra organizzazione, per dare forza e visibilità alle vostre cause.
I tempi però sono maturi per qualcosa di più
Non ho usato a caso il termine ecosistema. Ancora 5-6 anni fa si poteva pensare a progetti slegatida qualsiasi contesto tecnologico dell’azienda, oggi questo è molto meno fattibile perché la nostra reputazione e la customer experience passano attraverso la coerenza e la consistenza di tutti i punti di contatto che offriamo.
La pervasività dei dispositivi tecnologici
Se quindi non sempre si può partire da subito con un’integrazione profonda per non perdere il treno del momento bisogna pensare anche al dopo, pena la creazione di una serie di isole scollegate fra loro.
L’influenza degli strumenti digitali ormai è troppo forte e pervasiva, e il contributo che questi danno deve essere sostanziale, misurabile e di lungo periodo, anche quando non è roboante.
La fatica (e l’importanza) di trovare un equilibrio
Come si trova un compromesso accettabile tra queste due forze, la visibilità e la strutturazione? A mio avviso si passa ancora una volta per competenza e governance.
Competenze (bimodali) perché bisogna sapere riconoscere le opportunità vere da quelle di pura moda e capire per ciascuna le implicazioni sul disegno complessivo.
Governance perché bisogna avere un piano e un metodo con cui portare a bordo l’innovazione in modo sistematico, senza creare colli di bottiglia ma nemmeno senza lasciare all’anarchia l’ecosistema aziendale.
Con questi due pilastri si possono costruire serenamente tutti i tipi di iniziativa, senza dimenticare ogni tanto dobbiamo far ricordare che ci siamo. Mafe De Baggis dice che noi uomini e donne del digitallavoriamo per essere inutili quando la digitalizzazione sarà matura, io preferisco dire invisibili, perché guidiamo un processo che appare ormai naturale ma che deve essere continuamente evoluto.
E per non essere troppo invisibili (anche ai fini di budget!), ogni tanto serve un piccolo o grande fuoco di artificio.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
I risultati dello studio internazionale The Battle for Competitive Advantage in the App Economy, commissionato da CA Technologies, hanno rilevato la necessità di una accelerazione da parte delle aziende che oggi devono competere in quella che viene definita leconomia delle applicazioni. Firmata da Oxford Economics, la ricerca si basa su un sondaggio riguardante la strategia applicativa e il relativo impatto sui risultati aziendali condotto fra top manager di tutto il mondo. I dati emersi mostrano chiaramente che le aziende si stanno adeguando a ritmi sempre più sostenuti alle nuove esigenze dettate dalleconomia delle applicazioni, approfittandone per rivisitare i concetti di vantaggio competitivo e differenziazione.
A fronte della crescente dipendenza dal software evidenziata dalle imprese in ogni settore, ridurre i tempi necessari per mettere sul mercato applicazioni di elevata qualità diviene uno degli elementi cruciali per distinguersi dalla concorrenza. Il 43% dei soggetti intervistati ritiene infatti che oggi la trasformazione di ogni realtà aziendale in unimpresa il cui business è fondamentalmente basato sul software costituisca una leva fondamentale ai fini del vantaggio competitivo percentuale che sale al 78% se si considera un orizzonte temporale di tre anni.
Maggiore agilità e un time-to-market più rapido sono i due principali fattori strategici emersi dalle risposte delle aziende interpellate in merito agli elementi che possono creare un reale vantaggio competitivo nellapplication economy. Secondo gli intervistati, questa trasformazione verso modelli di business e operativi sempre più dipendenti dal software incide in maniera significativa sui tempi decisionali: il 45% la considera già oggi una realtà, mentre il 61% ritiene che si concretizzerà nei prossimi tre anni.
incoraggiante vedere che le organizzazioni europee sono avanti nelladozione e nella comprensione delle potenzialità dellApplication Economy, ha dichiarato Marco Comastri, General Manager e President EMEA di CA Technologies..
Secondo i risultati a livello mondiale, la crescente dipendenza dal software ha effetti positivi anche sulla quota di mercato (47%), sullo sviluppo di nuovi prodotti e servizi (42%) e sui risultati finanziari (36%) tutte tendenze date in accelerazione dai manager intervistati.
Fra gli altri rilievi in evidenza:
- Oltre la metà dei soggetti intervistati (51%) afferma di aver investito in nuove forme di software (mobile app, software gestito tramite API, ecc.) negli ultimi tre anni, mentre una percentuale di poco inferiore dichiara di aver intenzione di aumentare il livello degli investimenti nel corso dei prossimi tre anni.
- Il 54% sta elaborando nuove strategie di interazione con i client.
- A testimonianza del ruolo strategico attribuito al software, il 49% del c.ampione interpellato sta riportando in azienda gran parte dello sviluppo software e il 47% sta considerando o ha già in progetto una strategia di M&A per potenziare le capacità di sviluppo applicativo.
Per unazienda non è più sufficiente avere prodotti o servizi di qualità superiore. Al giorno doggi, il successo dipende dalla capacità di offrire una customer experience migliore, ha dichiarato Otto Berkes, Chief Technology Officer di CA Technologies. La trasformazione digitale in atto nelle aziende impone la necessità di far leva sulla customer experience elemento chiave di differenziazione nellodierna Application Economy.
Via Tech Economy
Amazon, in costante ricerca di metodi innovativi per la consegna dei propri prodotti, sta valutando di creare un programma di crowdsourcing per la spedizione dei propri pacchi: si tratterebbe di pagare persone comuni per la consegna, al fine di velocizzare il processo e risparmiare, almeno secondo le fonti del Wall Street Journal.
Il servizio chiamato internamente On My Way si baserebbe sullidea di reclutare rivenditori in aree urbane per depositare i pacchetti. Le persone potrebbero usare unapp per capire dove stanno i pacchetti e dove devono essere consegnati, in modo da passare al negozio, ritirare e recapitare la merce.
Amazon sta seriamente prendendo in considerazione il programma ma i suoi sforzi per farlo partire potrebbero anche finire immediatamente. In effetti, non sono certo poche le sfide che un servizio del genere dovrebbe affrontare: ad esempio, non è chiaro come gestire le responsabilità nel caso in cui i pacchi scompaiono o vengano danneggiati (come riporta Business Insider Amazon notoriamente non si fida nemmeno troppo dei propri magazzinieri).
Inoltre, la società dovrebbe anche trovare un equilibrio per pagare sufficientemente le persone abbastanza da incentivarle, ma mantenendo comunque un basso limite tale da giustificare la messa in piedi di unoperazione di questo tipo.
Lo sforzo potrebbe essere motivato dal fatto che le spese di spedizione di Amazon sono aumentate del 31% rispetto allanno scorso, ma questa non è lunica soluzione paventata dal colosso di Jeff Bezos: è da tempo infatti che le-commerce preme lamministrazione USA per lapprovazione delluso dei droni a fini commerciali.
Proprio oggi, infatti, il suo vice presidente per le politiche globali, Paul Misener, ha ribadito limportanza di trovare delle regole e delle norme comuni per lutilizzo dei droni e ha incalzato la FAA (Federal Aviation Administration), invitandola ad interagire anche con lInternational Civil Aviation Organization al fine di trovare un modo per non limitare linnovazione tecnologica
Via Tech Economy
Twitter ha sempre cercato di spiegare come utilizzare al meglio il proprio social network agli inserzionisti allo scopo di massimizzare la portata e lefficacia degli annunci: ovviamente, se i risultati sono migliori per gli inserzionisti, Twitter riuscirà ad aumentare la loro fiducia, incrementando di conseguenza le proprie entrate. In questa fase della vita del social network catturare la fiducia degli inserzionisti e, quindi, degli investitori, sta diventando un aspetto cruciale: alla base delladdio dello storico fondatore Dick Costolo allazienda ci sarebbe, infatti, anche lo scontento di Wall Street per i risultati finanziari non entusiasmanti degli ultimi mesi.
Come riportato da re/code, proprio per questo Twitter ha pubblicato un nuovo studio specificamente incentrato sui direct response ad, un tipo relativamente nuovo di pubblicità per Twitter che ha lo scopo di ottenere un risultato specifico, come far installare unapp o far visitare un determinato sito web. Il problema che Twitter ha riscontrato, però, è che quando in questi tipi di annunci viene incluso un hashtag o menzionato un altro account, la loro performance risulta deludente
In dettaglio, secondo Twitter, quando si tenta di portare visitatori al proprio sito web tramite un tweet che non include un hashtag o una menzione, esso genera il 23 % di clic in più. Quando il tweet è focalizzato sullinstallazione di unapp, rinunciare allhashtag o alla menzione porta ad un aumento di clic dell11%.
Quello che è stato riscontrato in realtà ha una semplice spiegazione: tutte le altre parti cliccabili del tweet distraggono gli utenti dal compiere lazione desiderata da chi ha pubblicato lannuncio. Come dichiarato da Anne Mercogliano, responsabile marketing di Twitter, se stai cercando di partecipare ad una conversazione online è assolutamente necessario utilizzare un hashtag, ma per incentivare un clic specifico che punta fuori da Twitter è meglio non creare rumore.
In sintesi, gli hashtag possono distrarre gli utenti dal cliccare sul link sponsorizzato attraverso il direct response ad: questo si traduce in perdita di efficacia dellinserzione e uno spreco di denaro da parte degli inserzionisti, che rischiano di allontanarsi dalla piattaforma a beneficio degli altri social network.
Via Tech Economy
Ci sono alcuni argomenti che rischiano di cadere nei luoghi comuni e nella retorica appena si nominano,e uno di questi è la collaborazione.
Immagine tratta da destinationmarketing.org
Si parla tanto, e spesso a sproposito, di sharing economy e di enterprise 2.0 ma oggi voglio tornare sul tema alla luce di oltre 6 anni di post (vedere qui e l’archivio del blog per credere) e soprattutto di un bel documento che vi linko qui e di cui vi riassumo alcuni concetti che ho trovato interessanti.
I 5 WE DRIVER
Alla fine un approccio collaborativo non è solo un bel concetto intellettuale ma anche qualcosa di obbligato sotto la spinta di 5 driver.
- Obbligo tecnologia. Il modo in cui viviamo e lavoriamo ci porta continuamente ad interagire, spesso in tempo reale, con molti soggetti attraverso diversi strumenti. Questo networking più o meno voluto va compreso e gestito ma ci obbliga a collaborare.
- Obbligo complessità. Ci troviamo in un ecosistema molto complesso, non ci sono vie di uscite da questo e l’acronimo di origine militare Vuca (volatilità, incertezza, complessità e ambiguità) va sempre piu di moda nella letteratura manageriale perché gestire questo contesto è un fatto di sopravvivenza. E serve collaborare.
- Obbligo innovazione. Ho scritto spesso che molte innovazioni si diffondono prima di essere realmente comprese, dagli individui e soprattutto dalle aziende. L’innovazione che attinge al crowdsourcing, alle collaborazioni tra funzioni diverse, enti accademici e quanto altro ci viene in mente ci aiuta a non basarci solo sulle nostre forze, in modo autarchico.
- Obbligo bramosia. Il documento cita Richard Branson e il suo concetto di “better world company” ma l’idea di questa famosa sharing economy resta affascinate anche oltre qualche momento di retorica eccessiva e tutte le nostre aziende vorrebbero essere cosi (poi farlo è un altro argomento).
- Obbligo generazione. Questi millennials che sono citati dappertutto! In realtà il fatto diventa reale, le persone che non hanno conosciuto un mondo senza internet, cellulari, social e (presto) anche cloud sono ormai adulte, spendono ed entrano nel mondo del lavoro con un nuovo mindset e tante aspettative.
IL QUOZIENTE DI INTELLIGENZA COLLABORATIVA
Qui vi cito quanto trovate nel documento: “Peter Spiegel, ricercatore e futurologo di spicco in Germania, ceo del think tank Genisis che a settembre fa uscire il suo nuovo libro intitolato WeQ more than IQ. La sua tesi: l’IQ sta per un quoziente d’intelligenza individuale – la mia intelligenza, le mie competenze, il mio genio – ma oggi abbiamo bisogno di ‘We qualità’. Insomma, inizia la partita quoziente di intelligenza individuale vs. quoziente di intelligenza collettiva. Le risorse umane sono avvisate. […] Che non sia una semplice moda o slogan è evidente e non necessita di esempi ormai noti a tutti. Semmai il tema è come dominare questi processi di cooperazione fra società, economia e imprese. Il management ha impiegato tempo a capire che l’economia collaborativa non era (solo) l’ennesimo gioco da provare ma un nuovo paradigma”.
QUINDI NON SOLO TECNOLOGIA
Non lo dico di sicuro solo io: se la tecnologia abilita opportunità enormi essa da sola non basta a far collaborare le persone tra loro.
Sharing va bene, ma con un concetto dietro
La digital transformation è fatta anche in larga parte di consapevolezza, di formazione, di motivazione e le persone devono trovare utilità e valore nel collaborare attraverso gli strumenti, senza trovarsi qualcosa di calato dall’alto. La tecnologia oltre che un fondamentale abilitatore diventa anche uno dei fattori di spinta che ci obbligano a cambiare paradigma ma, come ho scritto qualche tempo fa, si tratta di ingegneria del software ma anche dell’organizzazione.
Voi che ne pensate? Quali sono le vostre dirette esperienze quando si tocca questo tema?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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