Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
«Youtility»: ecco il nuovo fenomeno che sta facendo impazzire l’America. «Why smart Marketing is about Help, not Hype»: così recita il sottotitolo del libro di Jay Baer, nuovo manuale del Social Media Marketing, inteso come “aiuto”, non “strillo”, “lancio pubblicitario”. Un “marketing così utile”, spiega, “che la gente sarà felice di pagare”. “Help, not Hype”: “la differenza tra aiutare e vendere sta tutta in due lettere. Ma queste due lettere sono i fattori determinanti del successo del business oggi”.
“Come uscire dalla crisi?“, ci siamo chiesti più volte.
La crisi che tutti noi viviamo ogni giorno, che impatta cittadino, cliente e azienda – la quale deve continuare a vendere per sopravvivere e cerca un’alternativa nei social network.
Ma anche la nuova crisi determinata dall’imporsi dell’esigenza di “pubblicità” anche nei Social: dunque d’investimenti economici imprevisti, di spese nuove che gravano sul bilancio. «Ooops, Facebook non è mio!», sembrano scoprire tutti ora che il buon Mark [Zuckerberg ndr] ha cambiato zitto zitto l’algoritmo e, in due minuti, ha spedito una galassia di aziende nel buco nero dei News Feed, rendendole invisibili.
Soluzioni: investire milioni in pubblicità? Beato chi può: certo diverrà strada sempre più necessaria. Ma non sufficiente. “E i contenuti?”, si chiedeva giustamente Piero Vendittoli in una discussione sul tema giorni fa. “Riuscirebbero a mantenere vivo il falò dei contenuti? A prendersi cura dei fan? È una comunicazione a senso unico. Io pago, tu mi leggi. Cosa, non ha importanza. Come i cartelloni 6×3 per strada. Mi vedi, ma io non vedo te”.
Altre soluzioni? Certo: un ripensamento radicale della strategia di comunicazione. Ma come? Andando a battere i sentieri, per molti ancora inesplorati, del “Villaggio dei Social Media”. Google+ anzitutto, ma anche Instagram e Vine, WhatsApp e SnapChat.
“Google+ is Google”, dichiara Martin Shervington a «Social Media Examiner“. Tanto basta a piazzarlo – coi suoi 540 milioni di utenti attivi – come alternativa urgente a Facebook: della serie che “se ancora non lo sfrutti, il peggio è il tuo”, come tante volte ribadito da Alessandro Vitale, per cui da anni Facebook non è che un «FailBook».
Instagram? Certo. Proprio l’altro giorno il New York Times ha intervistato Liz Eswein, ritrovatasi d’un colpo imprenditrice milionaria con la sua start-up, «The Mobile Media Lab», che “ha generato oltre un milione di dollari di fatturato” insegnando alle aziende a usarne bene i servizi.
E non parliamo di WhatsApp: miniera d’oro di recente adoperata in modo esemplare da Hub09, che ha travolto la Rete portando sulla piattaforma niente meno che Babbo Natale, pronto a ricevere via messaggio la “letterina” e a chiacchierare in real time a suon di «Ohohoh!».
Ma tutto ciò potrebbe non bastare. «È un circuito destinato a farti aumentare sempre più l’investimento, a far arricchire “la macchina”» commentava Dario Ciracì quanto alla tendenza “Ads-oriented” che riguarda comunque ogni «Social Media». «Ora saremo tutti spinti a investire in Ads, ma a lungo andare, come già accade per gli AdWords di Google», CPM e CPC dell’annuncio cresceranno e «la differenza col costo degli AdWords diventerà inesistente».
I problemi così non si risolvono. Anche perché, nel frattempo, le aziende che provano a evolvere si sono imbarcate nel tentativo di “parlare in lingua social”, estranea fino all’altro ieri ma ora necessaria per il Customer Care come per Marketing o Vendite. Così l’“addetto ai lavori” si trova cacciato dal suo terreno, coll’onere di reinventarsi un ruolo chiave che lo riporti ad essere insostituibile.
Ecco una strada: «Youtility», “utilità, aiuto per Te”. Ecco il nuovo “modello di marketing per l’età dell’information overload”, dell’overload d’informazioni, di quel “buco nero del News Feed” che è vuoto, buio di trasmissioni interrotte, da cui un autentico Social Care a 360 gradi – che si dona a servizio prendendo per mano e camminando insieme ai propri amici in Rete – pare possibile exit strategy, via di fuga verso la luce di un rinnovato impulso al business.
Ecco sancito, dai Social Media Guru a stelle e strisce, il nuovo «marketing del volontariato» come già istintivamente lo avevamo definito in passato, e che cade certo a pennello sottoporre all’attenzione ora, giocando sul suo aspetto “natalizio & buonista” ma che, proprio nel suo essere risposta costante a un SOS, è aiuto che aiuta tutti – cliente e Brand. “Aiutati che Dio ti aiuta”? No. Piuttosto “Io aiuto te che aiuti me”. E non è un Do ut Des: qui c’è cuore, amore, dedizione, servizio, “devozione” verso il proprio network. Solo se mi metto al tuo servizio, dandomi a te completamente, tu mi darai la tua ben riposta fiducia: tu mi crederai.
“Per vincere”, continua Baer, «la domanda da porsi è: “Come possiamo aiutare?”». Ove riecheggia anche Seth Godin, col suo noto «May I help you?». «Se vendi qualcosa», dice Baer, «ti fai un cliente oggi, ma se aiuti genuinamente qualcuno ti fai un cliente per la vita».
Stessa spinta a un Social Media Marketing pienamente social (quasi davvero “sociale”, verrebbe da dire) invocata d’altronde anche da John Haydon, autore di Facebook Marketing for Dummies, nella recente intervista a «Social Media Examiner», che non a caso titola «Facebook Engagement: come esser visti nel News Feed». Vuoi coinvolgere la Rete? Lascia perdere autocelebrazioni e sponsorizzazioni massive, che trattano il network come «la lista contatti di una newsletter»: «sii utile». «Le aziende devono ascoltare la loro gente, porre attenzione alle loro domande. Prima capire, POI rispondere».
La crisi così può non solo trovare una via d’uscita almeno parziale, ma trasformarsi in irripetibile opportunità di crescita. Nel 2014 proviamo a portarci questo: un Social Care nuovo e inedito, consapevole che «se ti sarò utile, tu resterai con me». Se non penserò a me, allora sì che tu a me ci penserai. E comprerai.
Comunico assistendoti. Assisto comunicandoti. Altruismo egoista o egoismo altruista? Chissà. Ma se “aiuta”… perché no?
Via Tech Economy
Penserete dal titolo che a inizio anno la stanchezza mi stia portando a un po’ di esaurimento e a un improvviso rifiuto di quello di cui mi occupo. Niente di più sbagliato (a parte un po’ di esaurimento, quello sì reale): l’anno appena trascorso mi dà ancora più convinzione che il mio ruolo (specie nella sua evoluzione) sia sempre più cruciale.
Immagine tratta da www.http://chiefmartec.com
Il punto è che il digitale ormai si avvia sempre di più a non essere distinguibile da marketing, comunicazione e anche strategia perché è pervasivo, determinante e potente. Ma non è un’entità astratta e autorganizzata.
Un sito o una tecnologia non può parlare al posto di chi non sa che cosa dire ma in compenso ha la grande dote di evidenziare, invece che mimetizzare, i casi in cui le idee siano confuse.
L’enterprise 2.0 (no, non quella di Startrek) non funziona se manca una cultura dell’organizzazione che premia lo scambio di informazioni e il coordinamento tra funzioni diverse.
Infine, solo per fare qualche altro esempio, se non sapete qual è il vostro target reale nemmeno Google è in grado di trovarlo per voi.
Il passaggio non facile che le aziende oggi vivono in realtà è mio avviso dovuto al fatto che da un lato imessaggi tutto sommato semplici che una volta bastavano sono diventati poco credibili e accattivanti e che dall’altro un mondo multicanale bussa alla porta aspettandosi un’esperienza coerente attraverso tutti i punti di contatto. Ciò viene fatto in grande parte attraverso la tecnologia ma alla fine è un dettaglio, rilevante ma un dettaglio perché è una parte della storia, e non la storia stessa.
L’ho scritto tante volte ma non c’è ormai molto tempo per chi non riesce a concepire un ecosistema di business dove a solide basi tecnologiche si affianchi una visione di insieme che parte dalla strategia e poi usa in modo fluido tutti gli strumenti senza mai partire dalla fine, dal “dobbiamo fare qualcosa su“.
Niente alla fine è del tutto nuovo: l’email marketing è ancora un potente canale che deve però parlare con il mobile, il sito è sempre la proprietà digitale per eccellenza ma si deve poter fruire su tutti i device, l’estetica è fondamentale ma non è più solo soggettività perché si può misurare puntualmente ciò che funziona meglio.
Quello che deve cambiare allora è sì la competenza ma prima ancora l’organizzazione. Potrebbe essere l’obiettivo del 2014, voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
La televisione ha dominato anche nel 2013, e il merito pare sia da attribuirsi alla svolta digitale, grazie alla quale la tv ha recuperato parte del suo pubblico moltiplicando l’offerta dei canali. Un’indagine condotta dal Sole 24 Ore illustra le preferenze degli ascoltatori: Rai 1 si conferma la rete più vista, seguita da Canale 5 e Rai 3.
Il 2013 è stato il primo anno interamente digitale della televisione italiana che ha compiuto il suo processo di trasferimento dall’analogico al digitale nel luglio del 2012. La digitalizzazione e moltiplicazione dei canali segmentati ha riportato davanti a un televisore acceso quanti se ne erano allontanati per insoddisfazione e distanza culturale dalla programmazione generalista. Nella media di tutti i giorni dell’intero anno si sono accomodate a consumare televisione 10,5 milioni di italiane ed italiani. Nelle due ore della classica prima serata le persone attente a quanto programmato in tv sono 26,1 milioni. La rete preferita dalla popolazione nel suo complesso è ancora una volta il primo canale della tv di Stato, lo è ininterrottamente dal 1995 e, da che esiste la rilevazione Auditel, non lo è stata soltanto negli anni 1992,1993 e 1994.
Tra i nativi digitali è Real Time il successo dell’anno, con una quota d’ascolto dell’1,5% nel giorno medio migliora la propria perfomance del 2012. Un altro alloro per il successo ottenuto va a Rai Yo Yo, che pur essendo un canale segmentato sul target bambini, target meno numeroso di altri, occupa la seconda posizione, e con una quota d’ascolto dell’1,3% sorpassa Rai 4, Rai Premium, Rai Movie, Boing e Iris, quest’ultimo supera Rai 4 e Rai Premium, si piazza sul terzo gradino del podio dei nativi digitali nel giorno medio e conquista il primato in prima serata. I canali nativi digitali sin qui citati sono editi da Rai o da Mediaset con la sola eccezione di Real Time e sono Rai e Mediaset a produrre l’ascolto più elevato tra gli editori di canali nativi digitali.
Via Quo Media
Si chiama Jelly ed è il primo social network del 2014. L'ha creato il co-fondatore di Twitter, Biz Stone insieme a Ben Finkel e si pone l'obiettivo di rendere più efficaci e divertenti le ricerche in rete: basta scattare una fotografia di qualcosa che ci incuriosisce, scrivere una domanda al posto della didascalia e attendere la risposta dalla nostra cerchia di amici o dai loro contatti.
L'applicazione è disponibile sia su Google Play che sull'App Store. Dopo un anno di rodaggio, ne ha dato notizia lo stesso Stone, amministratore delegato della startup, in un post sul blog di Jelly. L'app ha l'ambizione di porsi come un'alternativa più umana al motore di ricerca di Google, perché al posto del freddo algoritmo di Mountain View sfrutta la conoscenza diretta delle persone tramite Twitter e Facebook. Come ricorda l'amministratore delegato nel post di presentazione, “non è importate cosa conosci, ma chi conosci”. Così il nuovo social network prova ad unire la logica di successo delle Yahoo! Answers alla forma del popolarissimo Instagram.
Ad un primo sguardo il funzionamento dell'app non sembra molto diverso dal chiedere informazioni con un'immagine attraverso Facebook o Twitter. I followers possono già rispondere alle nostre curiosità. La novità riguarda la possibilità di disegnare sulle fotografie scattate dallo smartphone: una funzione che rende facile evidenziare il particolare dell'immagine sul quale vogliamo più informazioni. Inoltre, se si riceve una domanda alla quale non sappiamo rispondere, si ha la possibilità di girarla alla nostra cerchia di amici, aumentando la possibilità di ottenere una risposta rapida.
A differenza di Facebook o Twitter, le domande non verranno pubblicate sui profili di tutti i nostri contatti. Nonostante le ricerche possano apparire più umane, è comunque un'algoritmo, il Finkelrank (dal nome del co-fondatore), a scegliere chi può rispondere. Dopo aver dato il permesso all'app di collegarsi agli account dei nostri social network, Jelly scandaglia i followers e gli amici di volta in volta per capire quali persone possono essere le più adeguate a rispondere al singolo dubbio. “Non spariamo domande a tutti - ha spiegato Stone in un'intervista al New York Times - e speriamo di rendere l'algoritmo sempre più sofisticato”.
Se Jelly avrà un successo paragonabile a quello di Twitter è tutto da vedere. Di fatto non aggiunge una funzione inedita a quello che è già possibile fare con gli altri social network, ma rende più semplice, e grazie alla centralità delle fotografie anche più divertente, formulare una domanda ai contatti di Facebook e Twitter. Si tratterà di capire, come spiega Stuart Dredge sul Guardian, se gli utenti avranno voglia di aprire un'altra applicazione con la frequenza con la quale già usano Facebook e Twitter. E se le persone alle quali verranno rivolte le domande si sentiranno altruiste al punto da darci una risposta in breve tempo.
Via Sky TG24
L’utilizzo dei social media da parte dei giornalisti, come fonte e mezzo per il loro lavoro, è ormai pratica diffusa e quotidiana. Secondo Il Network internazionale dei giornalisti, le applicazioni 2.0 più sfruttate dai reporter di tutto il mondo sono cinque.
Innanzitutto, RebelMouse, un aggregatore di social network che, attraverso l’inserimento di parole chiave, permette di fare ricerche incrociate su Twitter, Facebook, Instagram, YouTube, Google+, LinkedIn e Tumblr. Testate celebri come The Guardian e Al Jazeera hanno dedicato un angolo dei loro siti web ai risultati più interessanti dati dall’utilizzo di RebelMouse. Ottimi riscontri anche per Storyful Multisearch, che offre funzionalità simili e permette di ricevere una scheda diversa per ogni contenuto ricercato, a seconda dei diversi social da cui proviene (Facebook però non è supportato).
Geofeedia si concentra invece sui commenti in diretta, ovvero a evento in corso e a notizia calda, raccogliendo i post su Fb, i tweet, i video volanti di YouTube e le foto apparse su Flickr, localizzando l’origine del materiale (grazie a servizi come Foursquare). Si chiude con Topsy, che permette di setacciare tutti, ma proprio tutti, i messaggi postati su Twitter dalla sua fondazione a oggi, classificandoli secondo contenuto, numero di re-tweet e altro ancora.
Oltre a modificare sensibilmente la distribuzione dei contenuti giornalistici, i social media hanno così radicalmente cambiato le tecniche di una professione che non può fare a meno dell’interattività e della compartecipazione del web.
Via Quo Media
I consumatori sono disposti a condividere i propri dati personali con i rivenditori, soprattutto se ricevono qualcosa in cambio. A rivelarlo un nuovo studio di IBM, condotto su oltre 30.000 consumatori a livello mondiale e pubblicato in occasione dell’edizione 2014 della National Retail Federation.
La percentuale di consumatori disposti a condividere la loro posizione con i rivenditori via GPS, ad esempio, è quasi raddoppiata anno su anno, toccando il 36%. Il 32% dei consumatori condividerebbe i propri dati “social” con i rivenditori e il 22% fornirebbe il proprio numero di cellulare allo scopo di ricevere sms. Questo perchè “Il consumatore è abituato ormai in molti settori – dall’assistenza sanitaria ai viaggi – a ricevere interazioni personalizzate attraverso diversi canali”, spiega Jill Puleri, IBM Retail Global Industry Leader. “Lo studio IBM dimostra che i consumatori sono disposti a condividere i dati che li riguardano, in particolare se ricevono in cambio un’esperienza personalizzata. È indispensabile che i rivenditori mettano in atto una strategia Big Data e l’analytics in grado di assicurare un saggio utilizzo delle informazioni dei consumatori, che consenta di conquistane la fiducia ed in cambio permetta di fornire loro dei vantaggi”.
showroomingIbm spiega che anche se le vendite omnicanale, ovvero la prassi di fornire ai consumatori un’esperienza connessa e personalizzata attraverso i canali online, il mobile commerce e il negozio tradizionale, sono l’obiettivo dichiarato di quasi ogni rivenditore, i consumatori non le richiedono in sé e per sé. Si aspettano semplicemente la possibilità di utilizzare la tecnologia in tutti gli aspetti della loro vita, incluso il modo di fare shopping. Lo studio, infatti, ha riscontrato che le cinque funzionalità più importanti per i consumatori sono: la coerenza dei prezzi tra i vari canali di shopping, la possibilità di ricevere direttamente a casa propria gli articoli esauriti in negozio, la possibilità di monitorare lo stato di un ordine, l’assortimento di prodotti coerente tra i vari canali e, infine, la possibilità di restituire gli acquisti online in negozio.
Lo studio IBM ha rilevato che i consumatori rientrano in quattro gruppi diversi, che si distinguono per il loro interesse e utilizzo delle tecnologie social, di localizzazione e mobile durante lo shopping. Il 19% dei consumatori intervistati resta indietro rispetto alla maggioranza della popolazione quando si tratta di utilizzare la tecnologia per fare acquisti. Un altro 40% di acquirenti si serve delle tecnologie social, di localizzazione e mobile per raccogliere le informazioni, ma tende a non utilizzarle per l’acquisto dei prodotti. Il 29% utilizza le tecnologie social, di localizzazione e mobile molto più diffusamente, dalla ricerca dei prodotti all’ordinazione delle merci. Il 12% dei consumatori intervistati rientra nella categoria degli “apripista”, ossia coloro che usano queste tecnologie tra vari canali e scelgono il rivenditore che offre questa possibilità.
E i dati di vendita confermano la tendenza crescente verso gli acquisti online. Nel 2013 l’84% degli acquirenti intervistati da IBM aveva scelto il negozio per il suo più recente acquisto, se si esclude la comune spesa alimentare. Quest’anno, la cifra è scesa al 72%. In altre parole lo “showrooming”, ossia l’abitudine di vedere e provare gli articoli in negozio ma di acquistarli poi via web, non è alla base di questa crescita delle vendite online. Anche se un maggior numero di intervistati ha fatto “showrooming” quest’anno (l’8% rispetto al 6% dello scorso anno), solo il 30% di tutti gli acquisti online è stato effettivamente frutto di tale pratica – con un calo di quasi il 50% rispetto allo scorso anno. Il 70% degli acquisti online è stato effettuato da persone che si sono rivolte direttamente al web.
Via Tech Economy
In un futuro forse non troppo lontano Amazon sarà in grado di spedire i pacchi con gli ordini dei clienti ancora prima che questi abbiamo effettuato l’acquisto. E’ questo l’oggetto di un nuovo brevetto rilasciato al colosso dell’e-commerce secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, un brevetto che consente il cosiddetto “anticipatory shipping”: Amazon sarà in grado di prevedere i prodotti che probabilmente saranno acquistati da determinati clienti, e “sposterà” tali prodotti verso i centri di spedizioni loro più vicini. Con grande vantaggio, ovviamente, per i tempi di spedizione e consegna che sarebbero ulteriormente ridotti.
Ma come Amazon riuscirà a farlo? Secondo il Wsj, Amazon studierà l’imponente di mole di dati sui suoi utenti per poi utilizzarli in modo predittivo. Ordini passati, ricerche su Internet, il contenuto dei carrelli, la tipologia di merce restituita e, forse, anche il tempo che il cursore del mouse trascorre su determinati articoli, a dimostrazione dell’interesse verso quel particolare oggetto, saranno scandagliati e verificati al fine di estrarne modelli di comportamento d’acquisto.
Secondo quanto scritto nel brevetto, Amazon potrà persino compilare parzialmente indirizzi stradali o codici di avviamento postale, nella marcia di avvicinamento al cliente, e poi completare l’ etichetta in transito. Amazon sostiene che il metodo di trasporto predittivo potrebbe funzionare particolarmente bene per un libro popolare o altri oggetti che i clienti vogliono il giorno in cui vengono rilasciati. Ma è anche plausibile che Amazon potrebbe suggerire prodotti già in transito verso i clienti per assicurare che essi siano consegnati effettivamente.
La consegna preventiva va ad aggiungersi ad altre iniziative con cui Jeff Bezos sta attirando l’attenzione di mezzo mondo. A dicembre ha annunciato il testing di Amazon Prime Air, un servizio di consegna pacchi con droni, che aveva subito suscitato reazioni contrastanti.
Via Tech Economy
Autunno interminabile per il mercato pubblicitario nazionale. Secondo i dati raccolti da Nielsen, il settore ha perso il 7,2% (su base annua) durante lo scorso mese di novembre, con proiezioni arrivate al -12,5% per il 2013. Il capitale complessivo disperso, rispetto al 2012, è stato di 870 milioni di euro.
A soffrire maggiormente è stata la carta stampata, che ha registrato un -20% degli investimenti sui quotidiani e un -24,2% sui periodici. Male anche tv (-11%) e radio (-9,5%). Inciampa anche internet, che ha perso per strada il 2,3% della raccolta pubblicitaria a novembre.
In questo panorama desolante, la notizia positiva è la riduzione del decremento rispetto al mese di ottobre, che già aveva diminuito l’emorragia rispetto a settembre. “Si va delineando una chiusura dell’anno vicino a quel -12,5% previsto da più parti nei mesi scorsi, migliorando il -14,3% con cui si era chiuso il 2012”, dice Alberto Dal Sasso, advertising information services business director di Nielsen.
Il lento ricovero del mercato pubblicitario continua: la ripresa è fiaccata dal perdurare della crisi internazionale, anche se il 2014, con l’avvicinarsi di Expo, i Mondiali di calcio e le Olimpiadi invernali, potrebbe fornire spunti per un futuro rilancio.
Via Quo Media
A dispetto delle funeste previsioni di due studiosi della University in America che la danno “morente” entro tre anni, Facebook gode di ottima salute. A rivelarlo è il Social Summary diffuso da GlobalWebIndex sui dati di adozione e uso dei social media in più di 30 mercati globali.
Stando ai numeri rilevati da GWI, Facebook è ancora ampiamente dominante senza ovviamente ignorare il fatto che anche altre reti sono in aumento. Il social di Zuckerberg rimane il numero uno in cima alla lista per numero di account (83 %), per uso attivo (49%) e per frequenza delle visite, con il 56 % degli utenti che accede sulla piattaforma più di una volta al giorno. Certo è che il sito continua a registrare diminuzioni nei livelli di uso attivo, ma è una diminuzione, spiegano da GWI, che nella seconda metà del 2013 (-3 %) è stata notevolmente esagerata in alcuni rapporti, visto che è ancora molto popolare tra tutti i gruppi demografici e ci sono in effetti stati aumenti nelle dimensioni del pubblico grazie alla sua app.
Alcuni degli altri principali attori registrati piccolo un modesto incremento tra il Q2 e Q4 – tra cui Google+ (+6 %) , LinkedIn (+9 %) e Twitter ( +2 % ) – ma i più grandi aumenti nel numero di utenti attivi sono avvenuti in reti più recenti o meno consolidate di Facebook. Ne sono esempio Instagram (+23 %) e Reddit (+13 %).
Via Tech Economy
Facebook ha avviato la sperimentazione del suo nuovo sistema di raccolta pubblicitaria, ispirato ad AdSense di Google, vero e proprio dominatore dell’ad online. Il servizio, come quello del motore di ricerca, legherà inserzionisti-partner alle app mobili, dando informazioni a tutto tondo sui like, così da migliorare la qualità del messaggio pubblicitario.
L’idea di Menlo Park è quella di rafforzare il rapporto con gli inserzionisti, rendendo Facebook ancora più appetibile, grazie all’interrelazione più stretta con i dispositivi mobili e i milioni di utenti che quotidianamente ne fanno uso (e hanno un account sul social network).
Il sistema coinvolge infatti gli investitori, ma anche gli sviluppatori delle applicazioni per iOs, Android e Windows Phone, nel tentativo di costruire un circolo virtuoso in cui ai pubblicitari verranno date informazioni sempre più precise, complete e live riguardanti gli utenti e le loro attività, stimolando così gli investimenti adv, che arricchiranno Facebook (in gran parte) e chi programma le app. L’implementazione degli annunci sarà automatica e agirà sul sito quanto sulle applicazioni mobili di terzi.
La piattaforma, una volta lanciata in maniera ufficiale, andrà a infastidire quella di Google sul sistema operativo Android: Facebook può infatti contare su decine di inserzionisti pronti a popolare di spot le app più celebri che agiscono in simbiosi con il social network (come Candy Crush), insidiando lo strapotere del motore di ricerca sui suoi stessi prodotti. L’evoluzione del social parte dal (vecchio) mantra pubblicitario.
Via Quo Media
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