Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Non sono più solo i grandi social network mondiali ad attirare le attenzioni degli utenti. Business Insider ha confrontato le grandi reti sociali di tutto il mondo in due modi, ovvero valutando la dimensione totale del pubblico e considerando i mercati in cui ognuno ha il maggior potenziale di crescita, insieme ai loro dati demografici in termini di paese di origine.
Dal confronto emergono dati interessanti:
Facebook vanta ancora la più grande popolazione di utenti a 1,16 miliardi al mese ma è meno noto che Youtube non abbia numeri così inferiori, viaggiando sul miliardo anch’esso. L’86% degli utenti Facebook sono esterni agli Stati Uniti.
Il gigante social network della Cina, Qzone, è in terza posizione a 712 milioni di utenti totali . Per avere una dimensione del fenomeno basti pensare che è due volte più grande della app di messaggistica WhatsApp, e tre volte più grande di Twitter.
Tre dei primi 10 sociali del mondo sono piattaforme di messaggistica : WhatsApp , LINE , e WeChat.
Facebook ha 95 milioni di utenti in Cina ( nonostante il fatto che sia ufficialmente bloccato ), 68 milioni in India , 42 milioni in Brasile . In altre parole in questi mercati si raggiunge una massa di utenti due volte più grande della popolazione di Facebook negli USA.
Quasi il 25% degli utenti di LinkedIn sono in India ed è l’unico grande social a non essere bloccato in Cina, dove ha oltre 20 milioni di utenti nel paese.
Google+ ha 100 milioni di utenti in Cina , Twitter ne ha 80, e YouTube 60 milioni.
Via Tech Economy
Uno degli aspetti più difficili e interessanti del mio lavoro è dato dall’evoluzione in senso digitale dell’organizzazione aziendale e mi capita spesso di riflettere su come i mezzi che oggi abbiamo a disposizione possano influenzare il nostro modo di operare. E in molti casi trovo che ci sia una grande immaturità nel loro utilizzo. Sicuramente il contesto culturale italiano non ci aiuta, infatti siamo spesso portati a pensare che lavorare tanto, comprese le sere e i weekend, sia sinonimo di efficienza e produttività. Ovviamente questo non è vero, tantomeno per chi usa molto la testa e poco le mani, ma il fatto di avere sempre al seguito dei device perennemente connessi ci ha creato questo mito di poter agire in qualsiasi momento e, di conseguenza, di essere appunto produttivi.
Io credo che le cose siano invece un po’ diverse, e non parlo solo della qualità della vita (su cui si potrebbero spendere molte parole) ma di capacità di lavorare in una realtà moderna così competitiva e veloce. Che abilità servono?
1) saper programmare in modo nuovo quello che si deve fare e avere pronte delle alternative: essere sempre raggiungibili non vuol dire decidere al momento
2) avere la visione di insieme: quando si modifica al volo un tassello occorre la consapevolezza del fatto che ogni azione ha una ricaduta su altre realtà interconnesse nell’ecosistema
3) essere flessibili è un beneficio che si costruisce con fatica impostando strumenti e procedure che permettano velocemente un cambiamento improvviso o la gestione dell’emergenza. Se ogni variazione costa invece tanta fatica non è questione di impegnarsi di più: c’è un problema.
4) saper cambiare idea è un’ottima cosa se questo risponde a un’esigenza reale, supportata da fatti e dati. Altrimenti si chiama insicurezza, e non ha nulla a che fare con i benefici dei nuovi strumenti di lavoro.
5) bisogna saper collaborare: banale ma se proviamo fastidio davanti a software fatti apposta per questo e viviamo male il fatto di dover passare informazioni e lavorare in team vuol dire che il problema non sono gli strumenti, è la testa
6) non si può fare tutto solo a distanza: ogni tanto bisogna parlare guardandosi in faccia. Anche perché è più difficile fare certe di persona sparate e viene meno il coraggio di replicare le mail grondanti sangue per qualsiasi stupidaggine che si scrivono di notte quando si è sfiniti dalla sindrome da Burnout. E dunque ci si capisce meglio.
immagine tratta da Manageronline.it
Tutto questo non ha nulla a che fare con i software e gli strumenti in dotazione perché alla fine, come recita la legge di Conway, “any piece of software reflects the organizational structure that produced it“. E dunque il cambiamento deve partire dall’organizzazione e dalla cultura aziendale. Un recente report del MIT Center for Digital Business e di Capgemini è molto netto: “whether using new or traditional technologies, the key to digital transformation is re-envisioning and driving change in how the company operates. That’s a management and people challenge, not just a technology one.”
Voi che ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
YouTube meglio di Facebook tra i teenager statunitensi. Secondo l’indagine di The Future Company, società che si occupa di ricerca e sondaggi, il 50% degli intervistati (compresi tra i 13 e i 20 anni) ha eletto il sito video di Google come il suo preferito, mentre il 45,2% ha scelto il social network di Mark Zuckerberg.
Il dato, anche se parziale, conferma la perdita di fascino di Facebook presso i minorenni, motivo per cui il sito ha deciso di rivedere le norme sulla condivisione dei contenuti e l’accessibilità alla sua rete da parte degli utenti tra i 13 e i 17 anni.
Con le ultime modifiche, che rendono di fatto i profili dei più giovani visibili a tutti (equiparandoli a quelli di un iscritto adulto), Facebook vorrebbe ripopolare il suo traffico di teenager, segmento molto ambito dai pubblicitari che investono nel social network e ne garantiscono i ricchi guadagni.
Via Quo Media
Ho scritto tante volte che quando si parla di digitale si tende a dimenticare il quadro strategico e si precipita nella tattica. Ho anche detto altrettante volte che il marketing ormai è digitale e che tutti quelli che se ne occupano non posso più temere la tecnologia ma devono invece saperla sfruttare con abilità senza diventare dei puri tecnici.
Una delle conseguenze di questi due temi irrisolti è che oggi si tende a pensare ai mercati e ai consumatori come a qualcosa di totalmente altro da 20 anni fa ed alle attività di marketing come lontane dalle teorie che hanno fondato la disciplina. Questo è vero nei modi ma non nei concetti, perché il marketing si occupa sempre di soddisfare bisogni, solo che non lo fa più per grandi gruppi omogenei di persone ma per individui informati, connessi e con aspettative differenziate. Ma che chiedono pur sempre di soddisfare delle necessità, esplicite o latenti.
La classica piramide di Maslow
I video online soddisfano infatti il bisogno di intrattenimento, le foto digitali quelle di documentare ricordi ed emozioni, gli smartphone e i social media quello di comunicare e tenersi in contatto e così via. Con le statistiche alla mano, gli esempi non mancano anche per i settori non prettamente tecnologici: il 43% degli italiani usa le nuove tecnologie per soddisfare il bisogno di informazioni sulle aziende, per quello di risparmiare tempo compiendo certe operazioni da casa (es. Il 30% di uso di home banking) o per quello di avere più scelta con gli acquisti online (24,4%).
Il primo grande errore dunque, legato al mancato utilizzo di una metodologia tipo quella POST, è di scambiare il bisogno da soddisfare con la tecnologia che utilizziamo, scegliendo un mezzo perché alla moda senza considerare le persone cui ci rivolgiamo e senza un obiettivo.
A rovescio poi molti grandi player sono caduti negli ultimi anni perché ciò che loro offrivano ai proprio clienti non era uno strumento ma il soddisfacimento bisogno che vi stava dietro, che è stato esaudito in modo migliore e diverso da terze parti, rispondendo però alla stessa richiesta del consumatore. Blockbuster, Kodak, BlackBerry, Nokia sono solo alcuni nomi della lunga lista che si potrebbe stilare.
La seconda grande opportunità che viene spesso perduta è poi quella di usare i nuovi strumenti digitali per ascoltare prima che per comunicare. Si tratta di un retaggio del marketing push, questo sì superato, basato su di una spinta unidirezionale dell’azienda verso i potenziali target. Il vero valore che giustifica le quotazioni miliardarie dei social media o dell’ecosistema di Google è invece data dalla montagna di dati che le persone ogni giorno mettono a disposizione dei brand sulla rete, spontaneamente. C’è per questo chi parla di figure come il Chief Data Officer e chi calcola in oltre 300 miliardi di dollari il costo di un cattivo customer service che invece da questo ascolto può trarre grande forza.
Qui il problema vero diventa filtrare il rumore di fondo, certo, ma quante realtà anche importanti si prendono davvero la briga di provare a capire che cosa le persone stiano chiedendo a loro e al mercato, senza trovare risposte? Nella maggior parte dei casi i brand si buttano anche loro nella mischia, partendo da ciò che credono unilateralmente e aumentando il rumore. Qui i dati tratti dal rapporto The State of Social Business di Altimeter Group.
A questi dati di fatto corrisponde senza dubbio un aumento della complessità e della velocità che non ha avuto probabilmente eguali negli ultimi anni, e che pone delle sfide che Chris Heuer, CEO di Alynd riassume così in un suo guest post: “The market leaders in the 21st century will need to focus on modernizing talent management, operational systems and organizational models for a fully connected society, where the social physics are fundamentally different than the one we lived in just over a decade ago. [...] This is compounded by a need for the organizations be more agile, so that they may respond in real time to both opportunities and threats, and to empower employees to serve as authentic ambassadors of their brands in both situations”.
Questo vuol dire dunque muoversi guardando sempre di più al cliente, visto che come scrive Rita Gunther McGrath le barriere all’ingresso della teoria del vantaggio competitivo sono sempre più labili e che i mercati sono delle arene dove si possono conquistare degli spazi anche fuori dai tradizionali confini del proprio business.
Questo può essere aiutato in modo dirompente dalla tecnologia, che secondo lo studio di IBM “The Customer-activated Enterprise” è diventata la priorità anche per i CEO. Ma se si confonde la tecnologia con il mercato si rischia di non essere rilevanti e di dimenticare che la missione del marketing è di essere significativamente differenti per essere scelti.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Sapevate che dal 2010 i lavori retribuiti che includono attività sui social media sono aumentati del 1357% a livello globale? Il dato arriva da un analisi fatta da LinkedIn, che ha monitorato le offerte di lavoro postate sulla propria piattaforma negli ultimi 3 anni.
Inoltre, un recente studio condotto da Adobe mostra come il social media rimarrà la più importante area marketing dei prossimi tre anni.
Quindi, negli ultimi tre anni si sono aperti nuovi scenari e nei prossimi tre ci sarà spazio per ampliare il business. Per avere un quadro completo non ci resta che capire lo stato di salute delle principali piattaforme per individuarne i trend.
A questo proposito Facebook con i suoi 1,18 miliardi di utenti, di cui quasi il 58% attivi tutti i giorni con una media di 20 minuti al giorno, è destinato a mantenere una posizione di privilegio, ma rischierà di perdere la leadership.
Al di fuori dei mercati emergenti, dove la crescita è ancora in corso, Facebook avverte un calo tra le generazioni più giovani, in particolare quella degli adolescenti [13-17 anni].
Uno studio condotto Piper Jaffray a fine Settembre di quest’anno ha rilevato che sempre più adolescenti stanno passando da Facebook a Twitter e soprattutto a Instagram. Questo perché si tratta di strumenti meno impegnativi e la privacy è assicurata dall’assenza dei genitori.
Gli altri social, Google+ e Pinterest su tutti, rischiano di dividersi le briciole, mentre Tumblr sembra stazionario.
In forte crescita la tendenza a entrare in altre piattaforme, sicuramente minori e focalizzate su argomenti specifici. Instagram si è oramai emancipata da social di nicchia ma ne mantiene tutte le caratteristiche che troveremo chiaramente nel 2014: mobilità, velocità e verticalità di contenuto.
Via Republic+Queen Magazine
Gli investimenti pubblicitari in Italia sono scesi a settembre al 5,8% portando il calo da inizio anno a -14,6% rispetto al -15,8% registrato da gennaio ad agosto. I dati sono stati diffusi da Nielsen Reserch che sottolinea che, dopo due trimestri negativi, il terzo trimestre rallenta la discesa, rispettivamente si è passati da – 18,7 del primo trimestre al -6 di quest’ultimo. Gli esperti però non parlano ancora di ripresa “se pensiamo che il valore assoluto di questi primi nove mesi del 2013 corrisponde esattamente alla raccolta del primo semestre 2011“, si legge nella nota.
La stampa continua ad avere segno negativo, rimanendo vicino “quota 20” nei nove mesi appena trascorsi, con una riduzione del 21,5% per i quotidiani e del 24,3% per i periodici. A settembre, invece, torna in “terreno neutro” anche Internet, attestandosi a +0,4% e anche la TV recupera con una riduzione dello 0,6%, che porta il dato cumulato da inizio anno a -13,1%, grazie al ritorno in positivo di alcuni singoli operatori. Nessuna apprezzabile differenza rispetto ad agosto per la Radio, che chiude i nove mesi a -12,6%.
Grazie a un +2,9% continua la crescita dell’Informatica. “Comincia a intravedersi qualche segnale di ripresa, anche se tra gli operatori permangono opinioni contrastanti che rendono incerta la situazione e un confronto con un pessimo finale 2012” – ha concluso Alberto dal Sasso, advertising information services business director di Nielsen – “le nostre elaborazioni proiettano un 2014 con una TV in crescita rispetto al mercato, grazie in particolare al contributo dei Campionati Mondiali di Calcio. Ancora in negativo la Stampa, seppur più vicina alla cifra singola e superata per quota di mercato da Internet che – considerando anche i Social e il Search – sarà il mezzo con la performance più interessante“.
Via Tech Economy
Quanti di voi possiedono uno smartphone? Quanti leggono le email da mobile? Quanti poi acquistano direttamente da tablet o da smartphone?
Io possiedo uno smartphone da tempo, leggo le email spesso in tempo reale, soprattutto se devo riempire un tempo morto, utilizzo app per instant messaging e sono in buona compagnia! Basta pensare a quanto è cresciuta solo nell’ultimo anno la lista dei contatti su WhatsApp.
A chi fa marketing di mestiere i dati sulla user experience del mobile interessano molto e, interesserà una ricerca [scarica qui la versione integrale] realizzata da MagNews, key player per l’email marketing, in collaborazione con l’Istituto di Ricerca Nielsen, dove emerge:
- la crescita dell’utilizzo dei dispositivi mobile da parte degli uomini (60% contro un 48% “rosa” del campione), e giovani (66% entro i 25 anni, contro un 29% oltre i 50 anni).
- la diffusione dell’istant messaging non va a diminuire l’apertura delle email, ma piuttosto veicola altrove le conversazioni “veloci” e personali. Il 58% del campione (a maggioranza giovani) utilizza queste app al posto degli sms;
- il 28% (a maggioranza donne) utilizza meno il telefono per chiamare e il 6% riferisce che interagisce meno dal vivo.
In questo quadro emergono 4 cluster, utilizzatori “tipo” della rete, che possono essere classificati in: Vintage, il gruppo più “adulto” rispetto alla media del campione. Utilizzano internet soprattutto per informarsi, solo il 25% è sui i social network, il 25% controlla la posta da mobile e non lo fa in tempo reale.
Mainstream, il gruppo più ampio, a maggioranza femminile. Non sono tra i più “confident” rispetto allo strumento, ma ne riconoscono le potenzialità: per loro il web è presente, ma ancora di più il futuro prossimo. Pragmatici, utilizzano soprattutto le funzioni più utili per la vita quotidiana: acquistano online, si connettono quotidianamente, utilizzano l’home banking. Fan, iperconnessi, utilizzano tablet, smartphone, chattano, sono sui social e accolgono entusiasti ogni nuova opportunità che la rete offre.
Ne emergono interlocutori attenti all’esperienza Mobile, che sia una mail, sms, social network o istant message, e un’evoluzione significativa di fruizione del web: non solo tecnologica, ma culturale. É bene, quindi, considerare che i comportamenti di chi ci legge si stanno andando sempre più verso una diversificazione e ciò implica una dovuta attenzione alla scrittura declinata alla piattaforma.
Via Republic+Queen Magazine
L’advertising britannico ha un nuovo protagonista: le agenzie per le scommesse e il gioco d'azzardo. Da quando, nel 2007, il Parlamento permise agli operatori la pubblicità senza limiti su ogni mezzo di comunicazione, i principali marchi hanno conquistato tv e giornali: gli spot su piccolo schermo, nel 2012, sono stati quasi 1,4 milioni, a dispetto dei 234mila del 2007.
Una vera e propria invasione monitorata con qualche preoccupazione da Ofcom, il regolatore dei media britannici, che fa notare come i minorenni siano esposti ciascuno - mediamente e in un anno - a 211 pubblicità che hanno a che fare con scommesse e gioco d’azzardo.
Nel complesso, l’adv di genere rappresenta ormai il 4,1% degli spazi pubblicitari televisivi. I prodotti più reclamizzati sono i casinò online, il poker via internet e le scommesse sportive, oltre ai più classici bingo e lotterie. Prima del Gambling Act, entrato in vigore nel settembre del 2007, la legge permetteva annunci solo per le giocate sul calcio, la vendita dei biglietti della lotteria nazionale e del bingo.
Via Quo Media
Google offrirà una carta di debito prepagata, di fatto una carta bancomat, che permetterà ai consumatori di acquistare prodotti nei negozi e di prelevare contanti da sportelli bancomat, ma anche inviare denaro poichè collegata a Google Wallet. Di fatto sarà possibile spendere, prelevare e inviare denaro senza doverlo trasferire dal Wallet ad un conto corrente bancario. Una comodità che sarà certamente apprezzata in Usa dove Wallet è molto diffuso.
La carta, associata al circuito MasterCard, permette a Big G di entrare in un mercato, quello dei pagamenti elettronici, già sufficientemente maturo e “popolato” e per, almeno parzialmente, ovviare a questo limite, offre il servizio in modo gratuito, senza prelevare tasse, nè canoni mensili o annuali, al contrario di quanto di norma preteso dalle carte (di debito e di credito) classiche.
Un portavoce di Google ha confermato che i dati sulle transazioni effettuate con la nuova scheda Wallet – compresa una descrizione dei beni acquistati, l’importo della transazione e il nome e l’indirizzo del venditore – sarebbero aggiunti ai profili interni che Google ha degli utenti dei suoi servizi.
Via Tech Economy
I social media sono un tema di dibattito sempre caldo e sempre controverso, perché se è chiara la potenza e la diffusione di questi strumenti tra le persone (anche in Italia) molto meno evidente è la misurabilità dei benefici per le aziende, e come tutti gli argomenti in cui la valutazione è difficile dunque l’alternanza è tra l’entusiasmo e lo scetticismo.
Io credo che ci sia una sopravvalutazione del social media come strumento di comunicazione puro, troppo spesso i messaggi delle aziende si inseriscono come corpi estranei nelle normali conversazioni delle persone, perché partono da una logica unidirezionale di vecchio stampo. In più il social per antonomasia, Facebook, ha ridotto ulteriormente la visibilità dei messaggi non a pagamento indebolendo pesantemente l’efficacia.
Inoltre l’economicità e la facilità di questi strumenti è bella fin quando non viene il momento della critica o della crisi, perché nel social media il controllo della comunicazione è parziale e il canale è aperto in forma bidirezionale.
Infine a molte aziende sfugge un particolare fondamentale: un fan di Facebook o un follower di Twitter restano iscritti del social network, e quindi persone di cui l’azienda sa poco o nulla. Acquistare fan dunque non è solo è dannoso ma è soprattutto è inutile, perché i loro dati sono destinati a restare inaccessibili e volatili nel momento in cui uno qualsiasi di questi servizi decida di chiudere o cambiare politica.
Tutto sbagliato e inutile dunque? Assolutamente no.
Come ho scritto la settimana scorsa uno dei benefici fondamentali del social è l’ascolto, che permette di intercettare bisogni, richieste e stimoli dei clienti come mai prima è stato possibile. Il punto è che bisogna voler ascoltare. Inoltre le fonti sono così tante e destrutturate che, anche senza arrivare al tema del big data, occorre dotarsi di strumenti idonei e di un piano strategico per capire che cosa si vuole ricercare davvero.
Inoltre Facebook e tutti i suoi simili sono un caso in cui viene portata alla massima evidenza l’errore che si fa spesso guardando al digitale: quello di vederlo come ramo a sé e non come parte di una strategia e di un ecosistema di strumenti. I social infatti fanno parte di uno dei tre tipi di media che oggi sono disponibili, gli earned, ossia quelli su cui conquista dello spazio grazie all’attenzione che si riesce a stimolare. Ci sono però anche i paid media (semplificando, la pubblicità) e gli owned (quelli di proprietà). Come ho già scritto, le tre cose devono andare assieme.
In più, pensare al digitale in modo sganciato dal resto della strategia aziendale è ormai qualcosa di superato dai fatti, ma non dalle pratiche, e per questo spesso i linguaggio, le logiche e gli obiettivi sono divergenti. Non è il massimo, nel punto i maggiore contatto e dialogo diretto con i clienti e gli stakeholder.
Senza dunque arrivare a una social enterprise, su cui oggi già si discute in contesti evoluti, resta ancora molto da fare per una corretta valutazione di un fenomeno straordinario e dirompente. E non certo nato dal nulla.
Che ne dite, qual è la vostra esperienza in merito?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
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