Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Il digital advertising si sta trasformando nel campo di battaglia principale per la sopravvivenza e la redditività di newspapaer e magazine. Una delle testate del gruppo Time Inc. ha, così, pensato di sfruttare ogni spazio disponibile con un’originale iniziativa.
People StyleWatch, lo spin-off del magazine People dedicato alla moda e allo shopping, ha deciso di utilizzare lo sfondo del proprio profilo Twitter come spazio pubblicitario. Solitamente lo sfondo dei profili viene utilizzato dalle testate per promuovere se stesse; People StyleWatch vi ha, invece, inserito una pubblicità del brand Jergens Daily Moisture, all’interno di una campagna che prevede l’utilizzo degli spazi offerti dal magazine sulla carta, nel web e nei social media.
Twitter, da parte sua, alla richiesta di un commento sull’iniziativa, ha risposto ad Advertising Age che gli utenti sono liberi di usare gli sfondi a fini promozionali. “Lo spazio è a disposizione degli utenti per essere personalizzato” spiega un portavoce, precisando però che la società “incoraggia gli utenti a chiarire se stanno promuovendo qualcosa, per denaro o altre forme di compensazioni”.
L’iniziativa di People e la risposta positiva di Twitter sembrano presagire un utilizzo più diffuso di tale modalità promozionale.
Via Tech Economy
Lo studio annuale dell’Ericsson ConsumerLab – TV &Video Consumer Trend Report 2012 (qui scaricate il pdf) ci dice che il 69% dei telespettatori italiani usa i Social almeno una volta alla settimana mentre guarda la TV (+18% vs. 2011): più accentuato questo uso nelle donne (66%) rispetto agli uomini (58%).
Ci dice anche che in Italia il fenomeno è più accentuato che in altri paesi.
Ovviamente in tutto questo giocano un ruolo importante i dispositivi mobili (la maggior parte usa, in queste situazioni di “socializzazione della TV”, tablet, smartphone, portatili…) – anche perché la TV in mobilità sta crescendo… assolvendo ad una domanda di palinsesto personalizzato e di decisione, di on-demand sui contenuti che si fa sempre più evidente nel pubblico.
E adesso, che facciamo?
Quali sono le implicazioni, le opportunità e le rotture di scatole per chi lavora in marketing e comunicazione?Se vi interessa la mia opinione, potete leggere il mio più recente articolo su Tech Economy - ci arrivate cliccando qui.
Eccoci qui, la pausa estiva è finita da tempo ormai ma come sempre il lavoro è ripartito a grande velocità e ha assorbito tutto il tempo, non senza darmi però occasioni di raccogliere spunti, come per questo post.
Si tratta come sempre di cultura e organizzazione. Ho l’impressione infatti che ancora oggi in Italia le persone che si occupano di marketing temano in qualche modo la tecnologia, nel senso che non vogliono entrarci in dettaglio pensando di non capirla e che sia “roba da informatici”. Non parlo in questo solo di un’eventuale vecchia guardia (l’intelligenza per altro non ha età) ma anche delle nuove leve. Nel resto del mondo si va affermando invece una figura di chief marketing technologist che ha ancora contorni un po’ sfumati ma i cui numeri sembrano essere di tutto rispetto.
Marketing Technology Landscape Supergraphic (2012)
Qual è il punto? Il marketing digitale non solo è sempre più pervasivo ma è anche dannatamente complesso e interconnesso con tutti gli aspetti di business: troppo tecnico per il marketer che rifiuta di scendere in profondità e troppo ampio per chi lo guardi da una prospettiva It tradizionale. Ovunque questa percezione dell’importanza delle nuove tecnologie sta portando il marketing a diventare il principale ente aziendale che spende in software e in una miriade di strumenti, non sempre in modo coordinato con le funzioni “informatiche”.
Per non disperdere però questi investimenti e, soprattutto, le enormi potenzialità date dalla web analytics, dal socialytics di cui ho parlato da IDC delle settimana scorsa e del big data, occorre una serie di professionalità nuove, in grado di capire in profondità e con strategia tutto questo. C’è chi può permettersi di prendere queste risorse dal mercato, come WalmartLabs, ma anche al di là della figura del chief marketing technologist ritengo che le persone che lavorano del marketing debbano superare la loro diffidenza verso i nuovi strumenti. La sola lettura degli analytics ricavabili da un sito web aziendale per esempio è una fonte enorme di dati, ma quanti sanno che esiste questa possibilità? E i social? E l’integrazione fra gli strumenti del digital e l’offline? Chi ha una visione di insieme integrata con tutti gli altri strumenti del business?
Infine per il marketer si tratta di una questione di sopravvivenza: anche le figure di estrazione tecnica si stanno avvicinando al business e in questo processo di convergenza chi saprà adattarsi meglio alle nuove sfide rivestirà i ruoli chiave di domani.
Voi che ne dite?
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
I brand stanno scommettendo molto sui social media al fine di entrare in relazione con i propri clienti e, quasi sempre, concentrano la propria attenzione sui social network più popolari come Facebook. Stando ad una ricerca condotta da Duepuntozero Research e Connexia, lo scanrio potrebbe non essere così nettamente a vantaggio dei social.
“Sono diverse le possibilità che oggi i marketer hanno per convertire la volontà di relazione dei consumatori in capitale di brand e vendite – spiega Federico Capeci, Ceo di Duepuntozero Research – Il consumatore non è più solamente pronto alla relazione con i brand, ma sta già facendo molto in rete e sta chiedendo una relazione più articolata, più gratificante, fondata su ascolto, coinvolgimento e gratificazione reciproca: non sempre e non tutto questo, però, può essere soddisfatto con un unico strumento e non sempre solo su Facebook”.
8 milioni gli italiani, secondo la ricerca, partecipano abitualmente a community legate a specifici brand o aziende e un milione e mezzo di questi visita tali community quotidianamente. Per i brand il valore percepito tra gli iscritti a tali iniziative risulta, inoltre, più alto; sia per quanto riguarda i valori del brand che le opportunità di business.
Aziende e utenti focalizzano la propria attenzione su Facebook (ad esempio il 45% degli iscritti a una brand page Facebook legge i post pubblicati contro il 26% nelle brand community), ma nonostante ciò le brand community sembrano più efficaci. L’86% dei consumatori iscritti a brand community dichiara di essere più informato su prodotti ed iniziative contro l’84% degli iscritti ad una brand page Facebook; e l’81% sente di conoscere meglio il brand e le iniziative di questo (71% Facebook). Le brand community riescono anche ad esercitare un’influenza maggiore sul business aziendale stando alle dichiarazioni degli iscritti (65% degli iscritti dichiara di consumare maggiormente i prodotti vs 55% Facebook).
Le community dedicate specificamente ad un brand sono, inoltre, maggiormente in grado di attrarre ‘veri’ fan rispetto a Facebook. Solo il 26% degli iscritti a una brand page Facebook dichiara di essere realmente un fan e un consumatore della marca, contro il 32% rilevato tra gli iscritti a brand community. In entrambi i casi risulta, comunque, molto forte l’iscrizione dovuta a concorsi o promozioni.
La presenza dei brand nei social network non dedicati riscontra comunque una forte adesione da parte dei consumatori. Il 57% degli utenti Facebook italiani è fan di almeno una brand page di un brand e in media ogni utente del popolare social network è fan di 40 pagine dedicate a brand e prodotti. Il fenomeno risulta molto più ridotto per quanto riguarda Twitter (23% segue profili di aziende o brand).
I consumatori italiani risultano, in generale, molto interessati a informazioni sui brand, alla possibilità di entrare in relazione con i prodotti preferiti ed a contribuire attivamente alla costruzione collettiva del brand in rete. Il 79% degli intervistati, infatti, legge opinioni e raccoglie informazioni online riguardo a brand, aziende e prodotti. E il 29% va oltre, partecipando attivamente a discussioni su tali temi o scrivendo recensioni.
Via Tech Economy
L’ascolto di musica in mobilità sarà sempre più dominato da servizi remunerati tramite advertising, stando alle previsioni di eMarketer.
Si parla molto di servizi di streaming o download a pagamento, ma già attualmente la maggioranza delle entrate del settore derivano dalla pubblicità. Il mercato della musica in mobilità genererà, infatti, il 69% del fatturato USA dall’advertising; contro il 17.2% proveniente da abbonamenti a servizi di streaming e il 14.1% dal download. Nel 2016, la pubblicità dovrebbe generare addirittura l’86% del fatturato.
Contemporaneamente, il settore, nel periodo in esame, attraverserà una fase di forte espansione, passando dai 429.3 milioni del 2012 agli 1.68 miliardi del 2016 (eMarketer non tiene conto dei servizi multipiattaforma).
Nonostante il trend positivo la musica continuerà a generare meno risorse sia rispetto ai mobile game che ai contenuti video, arrivando, però, a rappresentare una quota più consistente del fatturato (+7%). I contenuti video attraversano, al contrario, una fase opposta e, mentre nel 2010 generavano più della metà delle entrate, nel 2016 scenderanno a circa un terzo. I mobile game, dopo una fase di espansione della propria quota di mercato negli ultimi anni, nei prossimi vedranno la stabilizzazione di questa. Rappresentano, in ogni caso, e continueranno a rappresentare la fonte maggiore di entrate (1.8 miliardi nel 2012 vs 1 miliardo da contenuti video).
Il settore dei mobile game attraverserà, inoltre, nei prossimi anni, una sostanziale trasformazione delle modalità di remunerazione degli sviluppatori. Mentre attualmente la fonte principale di entrate è il download a pagamento, in futuro la quota maggiore di fatturato proverrà dagli acquisti all’interno delle app. Fatturato che nel 2016 dovrebbe toccare, negli Stati Uniti, i 3.02 miliardi di dollari.
Via Tech Economy
Nello scenario delle nuove professioni il digitale ha sicuramente un ruolo importante e ricco di sfaccettature, tanto che ancora oggi è piuttosto difficile classificare ruoli e competenze, in molti casi davvero specialistiche ma non per questo meno utili.
Il continuo aumento della complessità e la velocità dei cambiamenti dal canto loro non aiutano certo a mettere facilmente dei punti fermi, rassicuranti e sempre uguali a se stessi.
In più, la content curation e i filtri più o meno automatici che gli strumenti online offrono permettono un’esperienza sempre più su misura di fruizione dei contenuti che però, talvolta, rischia di rendere ciechi rispetto all’insieme.
Questa apparente frammentazione nasconde tuttavia un’opportunità straordinaria per delle persone che non sono né imprenditori che creano nuove startup né specialisti di settore che conoscono ogni piega di uno specifico ambito: quella di poter cogliere i fenomeni emergenti e collegarli in un unico disegno.
Il social ne è un esempio piuttosto emblematico: cambiano infatti i player ma per chi ha saputo impostare una strategia in cui questi strumenti sono solo una parte di un mondo di contenuti e di idee più vasto e sotto il proprio pieno controllo questo fatto non è che un dettaglio.
Ancora di più tali considerazioni valgono per il mobile, una tecnologia che sta diventando la chiave per collegare il mondo fisico a quello virtuale e viceversa, fino a giungere a punte davvero spinte come nel caso del so.lo.mo. Il valore attribuito a tante startup del settore (tra cui l’Italiana Glancee) deriva proprio dal loro prestarsi a numerosi scopi che il marketer può inventare a partire dalla propria strategia di insieme.
Il big data infine è un altro degli esempi che si possono fare per evidenziare come da una quantità enorme e caotica di dati si possa generare una visione di insieme che costituisce un vero vantaggio competitivo. Bene lo hanno capito i big della rete come Facebook, Microsoft, Apple, Amazon e tanti altri che stanno costruendo un’offerta a 360 gradi fatta di hardware, software, contenuti e esperienze.
Bisogna però sapere cogliere i trend e capire come collegare fra loro tanti mezzi che, presi singolarmente, hanno in fondo un valore relativo e soggetto alle mode. Chi invece riesce a capire come tessere una tela con tutte le opportunità che gli capitano davanti, con una mente aperta e con le competenze giuste può davvero cambiare l’azienda, le sue sorti e la sua organizzazione.
Il web non era (ed è) fatto di link? Ecco, anche l’ecosistema digitale alla fine non è altro che qualcosa che innerva il business e la società e che chiede di essere sfruttato e capito, senza essere schiavi della tecnologia del singolo momento.
Voi che cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in materia?
Gianluigi Zarantonello via http://internetmanagerblog.com/
L’economia digitale è il motore propulsivo di internet nel 2012. La diffusione sempre maggiore di dispositivi mobili (con relative connessioni) ha dato ulteriore forza all’e-commerce, delineando quelle che saranno le linee guida nei prossimi tre anni: acquisti via smartphone, web tv via tablet e una continua digitalizzazione del mercato consumer.
Secondo i dati resi noti dall’Osservatorio del Politecnico di Milano in occasione della presentazione di Smau 2012, entro il 2015 in Italia saranno venduti 32 milioni di smartphone, 2,5 milioni di internet tv e 2,9 milioni di tablet. Ciò significa che nel breve periodo crescerà ulteriormente il mercato digitale consumer, che nell’anno in corso ha fatto registrare in Italia un +14% rispetto al 2011, con un valore complessivo di 16,2 miliardi di euro. A guidare il settore è l’e-commerce, con un giro d’affari di 9,14 miliardi (56% del totale), mentre i contenuti digitali (con i servizi) valgono 4,95 miliardi (31%). La pubblicità, sino a pochi anni fa considerata la principale fonte di profitto della rete, vale 2,13 miliardi di euro (solo il 13% del totale).
Gli acquisti effettuati dagli italiani via cellulare sono aumentati del 143% nel 2012, raggiungendo il 5% del comparto e-commerce. iPhone e simili sono sempre più importanti anche per la raccolta pubblicitaria via web: +50% nell’anno in corso e raggiungimento del 4% del totale di settore. Discorso simile per la diffusione di contenuti e servizi digitali, che sugli smartphone è aumentata del 17%.
I numeri parlano chiaro: anche nel Belpaese si sta affermando la così detta nuova internet, ovvero la rete veicolata e vissuta tramite i device mobili, con le loro app per i servizi e la fruizione di video, news e negozi virtuali. Nel prossimo triennio, l’esplosione sarà definitiva, ammesso che le infrastrutture si sviluppino velocemente così da consentire il proliferare della rete di nuova generazione e del suo mercato.
Via Quo Media
Il Reuters Institute for The Study of Journalism, con sede ad Oxford, ha rilasciato un nuovo report sull’evoluzione del giornalismo e dei media. Il report, “Ten Years that Shook the Media World”, afferma chiaramente che siamo ancora all’inizio di una fase di profonde trasformazioni e cambiamenti. “Dopo più di un decennio di turbolenze spesso drammatiche nel settore dei media, siamo solo all’inizio di un periodo di transizione più lungo.” L’istituto paragona la rivoluzione digitale al periodo di forti cambiamenti economici, politici, sociali e culturali seguito all’invenzione della stampa. Mutazioni prolungate e dagli effetti profondi, che nel caso attuale sono soltanto all’inizio.
Il report nota, ad esempio, che anche nelle aree geografiche dove l’accesso e l’utilizzo della rete sono molto diffusi, il giornalismo professionale viene principalmente finanziato da aziende del comparto media tradizionale e remunerato tramite canali tradizionali di distribuzione (stampa-TV). “Attualmente, forme mediali ereditate, in particolare la televisione lineare, continuano a dominare le diete mediali, ad attrarre una grossa fetta dell’advertising, e a sostenere la maggior parte della creazione di contenuti, specialmente quando si tratta di news.”
L’Istituto, proprio per queste ragioni, sostiene che senza profonde innovazioni industriali e di mercato, le fondamenta finanziarie del giornalismo continueranno ad indebolirsi, seguendo la traiettoria di parziale declino dei media tradizionali e il loro parziale disimpegno verso il mondo delle news; in un contesto in cui un modello economico per le iniziative giornalistiche in rete non è stato ancora pienamente trovato.
Il report riscontra alcune differenze negli 8 paesi analizzati, in particolare tra le 6 democrazie occidentali (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) e le due economie emergenti (Brasile e India), ma ritiene i trend di fondo analoghi se pur declinati e trasformati dal contesto locale. “Le sfide strategiche fondamentali sono le stesse in tutto il mondo, ma differenze nelle condizioni sul terreno significa che le tattiche e i risultati variano in modo significativo.”
L’istituto di ricerca, in ogni caso, individua alcune tendenze centrali all’interno di quella che definisce “una tempesta solo all’inizio”.
La produzione di news professionali di interesse generale sta diminuendo in molte democrazie occidentali e il trend dovrebbe proseguire, nonostante iniziative di nicchia e non-profit. Nelle economie emergenti il numero di giornalisti professionisti sta crescendo, ma principalmente nei media popolari e non di élite. Il pluralismo nella produzione di news sta crescendo, ma non in termini di quote di mercato e molti dei nuovi fornitori di news sono molto piccoli sia per capacità di produzione di news sia in quanto ad audience raggiunte. Conseguentemente, pochi operatori dominano sempre maggiormente il mercato in contrazione delle news nelle democrazie occidentali; mentre la crescita del mercato favorisce una maggiore diversità nelle economie emergenti. Le news, al momento, mantengono alto il proprio tasso di penetrazione nella popolazione, soprattutto grazie alla TV, ma una maggiore diversificazione dell’offerta porterà ad una crescente segmentazione del mercato e le abitudini di consumo rifletteranno sempre più interessi e gusti delle audience. Dove l’interesse per le news è basso, come negli USA, si espanderà il gap informativo tra differenti settori della popolazioni, con una piccola parte che consumerà una maggiore quantità di news e la maggioranza dei cittadini che ne consumeranno sempre meno. Nei paesi con un interesse più alto ed equamente distribuito nella popolazione, la diffusione delle news dovrebbe rimanere simile nonostante la diversificazione delle diete mediali individuali. Al contrario, nelle economie emergenti, l’espansione del mercato permette la penetrazione dei contenuti giornalistici in fasce di popolazioni più vaste e al di là della tradizionale élite urbana.
Via Tech Economy
Si avvicina il periodo delle feste natalizie, miniera d’oro per le compagnie hi-tech, che con i loro dispositivi negli ultimi anni hanno dominato le liste dei regali per amici e parenti. Samsung, Apple, Amazon e Microsoft si preparano alla grande abbuffata con investimenti pubblicitari da capogiro, nella speranza che gli spot convincano gli utenti.
Lo scontro frontale comincia il prossimo fine settimana, con Microsoft che si appresta a vivere una tre giorni intensa come mai prima, con il lancio di Windows 8 in versione desktop e mobile. Redmond vorrebbe così iniziare la sua rivoluzione tecnica e commerciale, aiutata anche da una campagna da 1,6 miliardi di dollari su scala mondiale (“come nemmeno durante le elezioni presidenziali”, dicono dalla compagnia). Samsung foraggerà la linea Galaxy con un investimento di poco inferiore a quello di Mircosoft: la casa sudcoreana ha previsto un budget pubblicitario di 2,7 miliardi di dollari per il 2012, la sfida ad Apple è anche questione di marketing. Da parte sua, la Mela si limita a campagne di contenimento, forte dell’aura del suo marchio, cui basta un accenno per rendere i prodotti riconoscibili e appetibili. Così, a Cupertino non spenderanno più di 1 miliardo di dollari in pubblicità, nell’anno in corso. Nella lotta tra giganti, non può mancare Amazon, che non può contare sulle rivendite fisiche dei suoi ammennicoli, ma ha una base di clienti invidiabile. Jeff Bezos ha messo a disposizione 1,4 miliardi di dollari per lanciare Kindle Paperback e Fire Hd. Il basso costo dei due prodotti potrebbe aiutare a farne due best seller natalizi.
Un caso particolare è invece quello di Google. A Mountain View vendono prodotti o, meglio, contenuti (tramite Play) e software per dispositivi mobili (Android), ma fanno anche da principale collettore di pubblicità online (con il motore di ricerca). Da una parte, Google spende 1,5 miliardi di dollari per spingere la linea Nexus e i suoi servizi, dall’altra è il primo beneficiario degli investimenti in adv dei suoi rivali. Gli americani la chiamerebbero una ‘win win situation’: BigG vince in ogni caso. Non a caso l’Antitrust Usa sta spulciando bilanci e strategie del motore di ricerca. I dominatori, spesso, hanno qualche scheletro nell’armadio.
Via Quo Media
Quanto rende agli inserzionisti la pubblicità sui social network? A maggio la General Motors, ha cancellato tutta la pubblicità a pagamento da Facebook, perchè l'investimento non si è tradotto in auto comprate dai consumatori. I vertici della casa di Detroit hanno dichiarato di aver speso dieci milioni di dollari per gli annunci sul social network. E i suoi marchi, hanno deciso di rivolgersi al principale sfidante di Facebook, Twitter.
Secondo quanto riportato dal Financial Times, il direttore Chevrolet, Andrew Dinsdale, sarebbe entusiasta del sito di microblogging: "È un mezzo unico nel suo genere e offre opportunità esclusive per coinvolgere i clienti sui social network ad un livello con cui nessun altro può competere. Chevy ha visto tassi di risposta agli annunci di Twitter compresi tra l´1 e il 3%", dichiara Dinsdale, e il dato sarebbe molto più alto dei tradizionali annunci online.
Facebook può comunque annoverare risultati positivi tra altri grandi marchi, tra i quali Electronic Arts, che ha attribuito a Facebook un incremento di 12,1 milioni di vendite. Il social network dichiara che, in media, il 70% degli inserzionisti vede un ritorno di almeno tre volte il loro investimento. "Tutti i giorni un marchio ha la capacità di raggiungere il mezzo miliardo di persone", dice Brad Smallwood, responsabile di Facebook.
Via Quo Media
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