Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ho visto con piacere nei giorni scorsi in televisione e sul web la campagna sociale “Posta con la testa” che invita i giovani, e non solo, ad usare prudenza nel caricare materiali personali in rete.
Sento spesso parlare infatti dei rischi per la privacy insiti nei social network ed in generale sugli strumenti del web 2.0, preoccupazione certamente non priva di ragioni che però nasce da un problema di fondo: la mancanza di cultura e consapevolezza del mezzo.
Infatti ritengo vi sia una reale assenza di percezione di ciò che avviene davvero quando, ad esempio, si posta una foto in rete: di fatto la nostra immagine diventa disponibile al mondo intero su di una macchina server da cui può essere scaricata in un istante e ricopiata in infiniti altri luoghi, senza possibilità reale di bloccarne la diffusione.
Nulla di male se ci sta bene così, un po’ meno se invece si trattava di qualcosa di riservato. Lo stesso vale, potenziato, per i profili dei social network: scrivere delle sbornie o delle avventure di una sera in un posto potenzialmente accessibile a tutti non sembrerebbe una buona idea offline, mentre sul web lo si fa con assoluta disinvoltura.
Con ciò non voglio difendere a tutti i costi i social network: la possibilità, ad esempio, di postare foto o commenti sui profili altrui sicuramente è qualcosa che lede il diritto alla privacy di ciascuno.
Anche sotto questo punto di vista tuttavia, escludendo i casi di malafede, ancora una volta torniamo al problema della mancanza di cultura: non vorremmo mai così male ad un amico da dire che tradisce la moglie davanti all’interessata, eppure lo facciamo sul suo profilo (pubblico) di Facebook.
Ancora, sempre restando su Facebook, quante persone che conoscete non hanno chiara la differenza fra messaggio (privato) e bacheca (pubblica) nello scrivervi qualcosa?
Ecco dunque che si pone il problema della consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, cui si aggiunge la mancata comprensione di un fattore chiave: nel nuovo web ci si mette la faccia.
E’ finito infatti il tempo dell’anonimato assoluto dietro un nickname, ora quando siamo in rete facciamo, come ho scritto recentemente, del personal branding, ossia presentiamo noi stessi al mondo. Sono certo che la pensiamo così saremo più attenti nei comportamenti e, magari daremo una mano anche ai più giovani a capire meglio come vanno davvero le cose (con un po’ di buon esempio).
Mi piacerebbe, al solito, conoscere la vostra opinione.
Gianluigi Zarantonello via http://webspecialist.wordpress.com/
Nel 2008, quaranta miliardi di file musicali, il 95 per cento di tutti i download musicali, sono stati "piratati" dal web e condivisi sul web. Le cifre sono pubblicate dall'Ifpi (international federation of the phonographic industry), associazione industriale che riunisce più di 1400 etichette in 72 paesi del mondo. Tutto questo nonostante il lancio massiccio di piattaforme di musica digitale del tutto legale. Come dire, gratis piace sempre di più a uno zoccolo duro di imperterriti downloader.
A quanto pare, la pirateria impatta negativamente soprattutto sul repertorio di artisti locali; un fenomeno che assume caratteristiche rilevanti in Francia e in Spagna. Il tutto, si inserisce in un contesto di mercato che registra una crescita molto forte, intorno al 25%, del business della musica online, che porta il fatturato mondiale del mercato legale a 3,7 miliardi di dollari. Per la cronaca, si tratta in termini percentuali di ricavi maggiori realizzati dall'industria editoriale in generale. In questo senso, la musica è la frontiera della rivoluzione online e mobile.
Resta il danno grave che la pirateria arreca al mondo delle sette note. Quale la risposta del settore ai downloader incalliti? Più che puntare su misure repressive (che pure ci sono), l'industria discografica risponde con nuovi modelli di business, con l'obiettivo di offrire ai consumatori una scelta più ampia di servizi nuovi, realizzati con partner tecnologici di prima grandezza, la collaborazione con Isp e fornitori di banda larga, l'avvento di nuovi servizi in abbonamento (Music phone di Nokia, PlayNow plus di Sony Ericsson, per esempio), servizi à-la-carte music, il sorgere di nuovi canali. In questo contesto, non può che far bene l'avvento del web 2.0, con le sue reti sociali e i suoi blog.
di Pino Fondati su ILSOLE24ORE.COM
A riportare il dato la società di analisi Morgan Stanley, che riferisce di un calo di vendite iPhone negli Usa del 24% nell’ultimo trimestre.
Apple ha venduto complessivamente, nel trimestre considerato, 1,75 milioni di iPhone, dato nettamente inferiore rispetto ai 2,3 milioni venduti nel trimestre di settembre.
C’è di buono che, nonostante il rallentamento delle vendite di iPhone, Apple riesca comunque a realizzare buoni utili rispetto ad altre società, e soprattutto resta superiore rispetto ad Android con un rapporto di 6 a 1.
Via Quo Media
Una crescita che sfiora il 2% ed un profitto di 1,58 miliardi di dollari: questi i dati diffusi ieri da Apple che, comunicando i risultati, mostra un’azienda che non teme la crisi ma anzi la supera con buoni risultati e liquidità per il primo trimestre 2009 chiusosi il 27 dicembre 2008.
Nonostante Apple abbia perso terreno negli Stati Uniti (-19%), le vendite mancate nei negozi statunitensi sono state compensate da quelle effettuate nei negozi europei e giapponesi, che hanno visto una crescita rispettiva del 30 e del 27%.
Il successo è stato reso possibile dalla vendita di 2 milioni e mezzo di computer Mac (effettuata per buona parte da nuovi acquirenti nel mondo Apple, dato molto significativo per le previsioni future), ma soprattutto dal record di vendite iPod che ha raggiunto quasi i 23 milioni per questo primo trimestre, facendo riconfermare Apple quale re incontrastato sul mercato dei lettori musicali, mentre l’iPhone, che comunque continua ad andare bene con 4 milioni e 363 mila unità vendute, ha perso lo slancio iniziale. Jobs conferma i dati dichiarando che “Questo trimestre si rivela il migliore della storia di Apple”.
Il settore iTunes , su base annua, cresce del 25% e, rispetto al trimestre precedente, cala del 4%.
Come confermato da Cook, Apple non fa compromessi di prezzo per andare in contro alla crisi economica: “Non è la nostra identità e non è per questo che siamo qui…Il nostro obiettivo non è fare molti telefoni, ma il miglior telefono sul mercato.”
Riflettendo anche sui netbook inferiori ai 500 dollari, Cook aggiunge che “Stiamo osservando il settore, ma i prodotti attuali sono poco potenti e poco ergonomici. Il nostro attore in quel settore è iPhone, che permette di fare quello che fa un notebook, e sta in una tasca”.
Mentre Apple si gode i successi ottenuti, la Sec apre un fascicolo sulla salute di Jobs, per verificare se le comunicazioni riguardo al suo stato di salute siano state fatte in ritardo, al fine di non allarmare gli investitori.
Via Quo Media
Una riflessione che abbraccia le grandi forme distributive organizzate e il piccolo dettaglio locale; una razionalizzazione delle novità di cui i primi sono portatori e degli stimoli per gli imprenditori che si adoperano in questa formula distributiva. Questo è l’approccio con cui voglio trattare il tema dell’assetto del punto vendita.
Il dettaglio oggi è oggetto di molti studi di marketing e da esso quindi trae tecniche e strumenti per svilupparsi al meglio. Senza la presuntuosa pretesa di riassumere la materia, voglio comunque cercare una sommaria generalizzazione dell’argomento. Proverò infatti a presentare alcune delle tecniche più innovative, cercando di trovare in esse un minimo comune denominatore. Due sono i presupposti da cui partono i miei ragionamenti. Il primo: il commercio al dettaglio soprattutto se di piccole dimensioni e non strutturato in forme organizzate, vive un profondo periodo di difficoltà. Al di là dei singoli dati congiunturali, è una evidenza che il piccolo negozio patisca uno stato di sofferenza che rende sempre più lontani i tempi in cui un’attività di questo tipo era considerata una sicura fonte di guadagno.
In secondo luogo il comportamento d’acquisto dei consumatori appare in evoluzione seguendo una traiettoria che vede una sempre maggiore importanza conferita al momento, all’atto del comperare. Sto cercando di raccontarvi la dimensione ludica dello shopping ovvero la ricerca di esperienze d’acquisto entusiasmanti e coinvolgenti. Quando si vende si deve aver chiaro che oggi lo shopping è uno dei divertimenti, non a pagamento, più graditi dalle persone; i consumatori trovano piacevole vagare per gli spazi commerciali. Si compra non solo il prodotto, ma l’emozione che scaturisce dal suo acquisto.
In un quadro quindi di difficoltà e di cambiamento, si innestano tecniche innovative e spesso estreme. A quest’ultima categoria, quasi per definizione, appartengono quegli esercizi di marketing non convenzionale denominati Guerrilla store. Si tratta di negozi temporanei che aprono all’improvviso con una fine imminente già preventivata. Un po’ come il cambio di una collezione così questi PV chiudono per poi riaprire in altre location. Spesso gli spazi scelti vengono mantenuti nelle stesse precarie condizioni in cui sono trovati, con l’evidente tentativo di contenere al massimo i costi; nessuno spazio a forme di pubblicità, fede assoluta nel passaparola che scaturisce. Si vende la merce al minimo costo possibile e poi si chiude!
Riavvicinandoci al convenzionale e riprendendo una delle osservazioni poste a presupposto dei ragionamenti, inserisco le logiche tipiche del marketing emozionale. Il consumatore passa dall’essere considerato un mero operatore razionale, che paragona le differenti offerte secondo funzionalità e prezzi offerti, per divenire un più “romantico” consumatore emotivo che nella sua scelta d’acquisto cerca un piacere che va al di là della merce acquistata. In questa ottica la capacità del PV di interagire con tutti i sensi del suo fruitore appare fattore determinante; dal solo arredo si passa alla oculata scelta delle luci, dei colori, delle musiche, dei profumi e oggi sempre più spesso dei sapori.
Proseguo il mio ragionamento riportandovi un’altra delle terribili definizioni delle disciplina: visual merchandising. Si tratta della teatralizzazione del prodotto ovvero del processo della spettacolarizzazione della merce in cui il punto vendita diventa il palcoscenico ove viene messo in scena per il cliente ciò che si vende. In questa logica appaiono molteplici le possibilità di un brand di comunicare attraverso diversi artifici architettonici i valori di cui è portatore. E’ sempre più vero che con un PV così strutturato si acquisti la marca e gli attributi che si riescono a far rivivere nella location.
Chiudo la presentazione con un irrinunciabile riferimento ai concept store; anche in questo caso la materia non offre definizioni univoche. Mi limito a mutuarne un abbozzo dall’idea di concept di prodotto cioè una forma di sperimentazione. Il concept store è appunto un luogo di sperimentazione in cui si possono fondere stili, prodotti, ambientazioni e servizi che in altrove potrebbero risultare incompatibili.
Credo che in queste ultime osservazioni risieda il punto di contatto, il denominator comune che andavo ricercando: la capacità di innovare, di creare un punto vendita che veramente sia di appeal per il consumatore. La capacità di offrire una novità soddisfando il modo di concepire lo shopping da parte del consumatore. Il negozio temporaneo, la multi-sensorialità, il negozio teatro sono tutti tentativi di fornire novità al cliente. Ricordatevi che se create un negozio straordinario non dovrete spendere in comunicazione in quanto i clienti stessi ne parleranno e l’idea girerà autonomamente tra i diversi media.
Un punto vendita avrà successo se saprà andare oltre le normali regole e convenzioni con cui normalmente veniva progettato, risultando portatore di novità per il cliente.
Dario Ferrigato
Come tante altre cose, una stanza d'albergo è un bene esperienziale - cioè sostanzialmente si scopre se è una sola o meno solo quando è troppo tardi.
Con lo scopo di creare buzz ma anche di permettere di sperimentare in qualche modo un prodotto (la stanza, appunto) che normalmente è ben celato agli occhi dei possibili clienti, il Roger Smith Hotel di New York ha pensato bene di fare un accordo con una coppia di visitatori.
Invece di ospitarli in una tranquilla stanza all'ennesimo piano, essi sono stati alloggiati in una stanza a bordo strada, dotata di un'ampia vetrina che permette a chiunque passi di verificare in prima persona come se la passano nella loro permanenza in hotel.
Parallelamente, invece di pagare il conto, la fortunata coppia viene ospitata a gratis per 5 giorni, con l'unico obbligo di tenere le tende aperte (ebbene sì, la loro privacy non è stata totalmente sacrificata sull'altare del marketing) dalle quattro e mezza alle sette e mezza del pomeriggio.
Cresce il Marketing Shopper, lo dicono le più recenti statistiche: secondo Popai, l’Associazione Internazionale del Retail Marketing, oltre il 70% dei consumatori va ormai conquistato quando si trova già in negozio, perché è qui che compie le sue decisioni di acquisto.
Nella stessa direzione i dati di Kinetic, secondo cui il modello «in store» cresce del 20-30% in media ogni anno, con picchi del 70-80% in relazione alle nuove strutture con un valore commerciale dell’intero comparto pari a circa un miliardo di euro.
L’ultimo trend in tema di Marketing Shopper è il “Temporary” Shop Sharing. Come se non bastasse l’idea di un negozio con “scadenza mensile”, ecco che arriva il negozio “in multiproprietà”!!!
“Shop Sharing” non è da intendersi letteralmente come condivisione del negozio, quanto più come un’alternanza di diverse marche all'interno del medesimo spazio espositivo, posizionato in una location strategica., di solito centrale e facilmente raggiungibile. Ciascuno dei Brand “multiproprietari” gestisce e organizza il negozio secondo la propria strategia di shopper marketing per il periodo di un mese, passando poi il testimone all’azienda successiva.
Stravolgendo il concetto di fiducia legata al negozio abituale, lo Shop Sharing conquista il consumatore perché ne attira la curiosità offrendogli ogni mese qualcosa che lo sorprenda.
Molteplici i vantaggi offerti da questi negozi pro tempore: possibilità di usufruire di un luogo strategico ad alta visibilità ma con un notevole abbattimento dei costi dovuto alla temporaneità e senza dover per questo compromettere la personalizzazione dello store che resta assolutamente distintivo del proprio Brand e, se accompagnato dalla giusta campagna di comunicazione, non rischia di creare confusione tra le marche.
L’interesse per questo tipo di attività sta crescendo in Italia, sia da parte di aziende che, vendendo abitualmente attraverso la grande distribuzione, hanno finalmente un’occasione di contatto diretto col consumatore, sia da parte dei grandi Brand retail che ne riconoscono l’opportunità strategica per lanciare un prodotto o un servizio nuovo, o semplicemente per dare un tocco di distinzione e innovazione alla loro immagine.
Via Business International
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