Secondo un rapporto di Econsultancy in collaborazione con e LBi bigmouthmedia, due aziende americane su tre hanno dichiarato che l’apporto fornito dai social media alla loro performance sul mercato è molto importante. Per il 43% i queste l’influsso è stato di media entità, e comunque tutte hanno avuto un incremento del 21% rispetto al 2010.
Sempre dal rapporto emerge però anche un dato inverso: sono diminuite, passando dal 40% del 2010 al 31% di quest’anno, quelle società che utilizzano esclusivamente i social media come canale di marketing.
A questo proposito allora mi torna decisamente utile ragionare su di un’interessante presentazione cui ho assistito qualche giorno fa al Forum Italiano Gartner Executive Partners di Napoli, tenuta dall’analista Steve Prentice sul tema di “The Big Data“. Si tratta di un concetto che negli USA, ma anche nel mondo IT in genere, sta diventando popolare e studiato e che in buona sostanza ci porta a considerare le sfide poste dalla grande quantità di dati che oggi sono potenzialmente gestibili dalle aziende (e non solo).
La moltiplicazione dei punti di contatto con i clienti e tutti i possibili pubblici, l’interazione attraverso i social media, la reperibilità e storicizzabilità dei commenti che un tempo erano solo verbali si unisce dunque a tutti gli altri dati business per costruire nuove opportunità. Senza contare poi il tema dell’interattività e dell’ipertestualità diffusa e di tutti i feedback che potrebbe fornire.
Tutto questo ovviamente mette le aziende davanti a grandi temi gestionali per la cattura e la gestione di questi dati, vista la mole, la complessità e la varietà.
Dal mio punto di vista però l’aspetto cruciale è che tutto ciò ci obbliga a riportare il digitale in una logica strategica, in cui questo ampio mondo è tutto interconnesso e contribuisce in modo chiave alla costruzione del business. In altri termini, l’intero ecosistema deve essere ripensato dal punto di vista della big picture, mentre oggi spesso le attività sui nuovi media sono tattiche, scollegate e senza strategia.
Per il 73% dei consumatori che acquistano online è importante, se non addirittura fondamentale, il costo delle spese di spedizione. Da uno studio americano emerge che, per il 70% degli utenti, risulta molto significativa per la scelta finale dell’acquisto da operare anche la gratuità della spedizione, seguite dalle promozioni speciali (62%) e dalla presenza di buoni sconto (56%). Un omaggio oppure le formule 3x2 sono invece considerate meno attrattive per gli acquisti.
C'è un'Italia che snobba gli odiosi rallenty della politica e tira dritto sulla strada dell'innovazione. E' il Paese dell'economia digitale e in particolare dell'ecommerce, un business sempre più solido che, secondo l'Osservatorio della School of Management del Politecnico di Milano (in collaborazione con Netcomm), nel 2011 varrà 8,141 miliardi di euro, +20% sull'anno precedente, quando la crescita 2010 sul 2009 era stata già di un buon 17 per cento (scarica qui report sull'ecommerce).
Numeri sui quali gli esperti non sono sempre d'accordo, ma comunque un boom sostenuto dalla “moltiplicazione” degli internauti, che nella fascia 18-64 anni hanno superato i 25 milioni, con il 35% di questi che ha fatto un acquisto online negli ultimi tre mesi. Parlando di settori, crescono bene tutti i comparti merceologici, con l'abbigliamento in pole position (+38%) grazie all'ottima performance di piattaforme come yoox.com. Seguono editoria, musica e audiovisivi (+35%), trainati da big come Amazon ma anche da merchant nostrani come Bol, Ibs.it e Feltrinelli. Per avere un'idea più precisa dei settori, degli 8 miliardi e cento la metà è fatta dagli acquisti online di viaggi (49%), il 10% dall'elettronica, il 10% dall'abbigliamento, il 9% dalle assicurazioni, il 3% dall'editoria e dalla musica, l'1% dai generi alimentari (grocery), mentre il rimanente 18%, classificato come “altro”, include servizi come le ricariche telefoniche, il couponing e i biglietti online.
Tutto molto bello, se non fosse che siamo ancora “piccoli”: il commercio elettronico italiano vale un sesto di quello inglese (51 miliardi di euro, +10% nel 2011), un quarto di quello tedesco (34 miliardi, +10%) e meno della metà di quello francese (20 miliardi, +12%).
I social network hanno diffusione ormai capillare, ma a dominare la scena è comunque Facebook, capace di coinvolgere un’utenza molto differenziata per età e gusti. Secondo una recente indagine di Forrester sul web statunitense, il 96% degli internauti che usano i social network è iscritto a Facebook.
Una percentuale stabile tra le diverse generazioni (anche per quanto riguarda gli utenti sopra i 65 anni d’età). Alle spalle di Mark Zuckerberg & Co., il vuoto o quasi. Il secondo sito più seguito è LinkedIn, che coinvolge il 28% dell’utenza 2.0 e riscuote successo soprattutto tra i professionisti adulti (30-50 anni, target designato). In terza posizione c’è Twitter, che catalizza l’attenzione dei più giovani, teenager e universitari.
Ho avuto la fortuna di partecipare nel giro di una settimana al 4th Iads-Igds IT Executive Meeting (Mestre) e al Forum Italiano Gartner Executive Partners (Napoli), incontrando CIO e analisti tecnologici provenienti dalle maggiori aziende italiane e da tutto il mondo.
Ho dunque avuto modo di sentire moltissime opinioni ed esperienze da cui trarrò senz’altro nuovi post, c’è però un primo tema comune a entrambi gli incontri e che mi piace evidenziare, ossia il mutamento organizzativo che sta interessando le persone che si occupano di tecnologia in aziende per cui quest’ultima non è il core business.
Da un lato infatti il cliente finale ha in mano sempre più tecnologia (smartphone, tablet etc) che lo abilita a interagire con l’azienda e con i propri amici, e questo tipo di device è poco padroneggiato dalle tradizionali strutture IT.
Dall’altro lato internamente alle imprese molte attività innovative sui social network, sul mobile e altri fronti come l’e-commerce sono portati avanti spesso dal marketing o da altri dipartimenti, che non coinvolgono in questo il mondo IT.
Alla fine però il cerchio si chiude perché tutti questi strumenti richiedono, presto o tardi, un’integrazione con i sistemi gestionali dell’azienda (che frequentemente non sono adeguati alle nuove necessità), coinvolgendo solo a quel punto il personale che in precedenza non aveva partecipato.
Mi ritrovo molto in questa constatazione, anche perché il mio ruolo in azienda mi porta quotidianamente a portare avanti l’innovazione coordinando le persone di marketing e del business in genere con chi gestisce i sistemi informativi.
Inoltre ciò conferma la mia visione sui nuovi media, che richiedono ormai una professionalità in grado di disegnare la strategia, con il know how complessivo di più aspetti e la capacità di dialogare con tutte le aree aziendali.
A medio termine dunque sarà sempre più necessario affrontare le nuove sfide, come ad esempio the big data (ossia l’analisi coordinata delle quantità enormi di dati che vengono da social, customer care etc.), connuovi professionisti e un diverso modo di organizzare le risorse in azienda.
Secondo voi siamo pronti? Che esperienze avete in merito?
Si è aperta a Londra la Conferenza internazionale sul cyberspace che vede la partecipazione dei rappresentanti di 60 Paesi del mondo, oltre ai maggiori operatori del mercato internet.
Vantaggi socio-economici, sicurezza e affidabilità dell'accesso, cyber-crimine e sicurezza internazionale, sono gli argomenti oggetto della due giorni di conferenze fortemente voluta dal ministro degli esteri britannico, William Hague. Alla due giorni londinese partecipano rappresentanti provenienti da Stati Uniti, Russia, India e Cina, personalità della rete come Jimmy Wales di Wikipedia o Joanna Shields di Facebook.
Per molti anni le aziende che hanno avuto a che fare con i media si sono confrontate con editori che vendevano loro spazi pubblicitari, e dunque non hanno avuto alcun controllo su di essi se non per quanto riguarda quanto acquistato su questi paid media.
In un secondo momento poi alcune imprese hanno iniziato a sviluppare media propri, i cosiddetti owned media, su cui avere il pieno controllo, fenomeno che si è democraticizzato con l’avvento del web e dei siti aziendali.
Infine, soprattutto grazie all’avvento del social web, è arrivata a maturazione una nuova categoria, gli earned media, ossia quei particolari mezzi in cui la visibilità si conquista con il word of mounth e dove l’acquisto di spazi, dove presente, è complementare.
Quest’ultima categoria ha dunque suscitato, non senza ragione, grande entusiasmo e attenzione, sia per gli indubbi vantaggi di un approccio più dialogico con il consumatore sia (soprattutto?) per il risparmio monetario.
Non entro qui in tutti i temi del corretto approccio al social media marketing, mi preme però evidenziare un tema banale e dimenticato: come dice il nome gli earned media non sono mezzi propri, anche dove riteniamo di avere il pieno controllo, come ad esempio nel caso delle pagine Facebook.
Il servizio infatti potrebbe cessare il qualsiasi momento, come da contratto, in più a moltissime aziende sfugge il fondamentale particolare che i lead degli utenti dei social, a meno di specifiche attività, restano dei vari Facebook e Twitter. Ossia non si sa quasi nulla di loro e in caso di chiusura del servizio sono a tutti gli effetti persi.
D’altra parte il traffico che può essere intercettato su questi mezzi è difficilmente riproducibile su siti e strumenti propri, senza contare i costi di sviluppo, gestione ed evoluzione di certe feature social da parte di chi non ne abbia il know how. É il dilemma dei social media, di cui mi sono già occupato: meglio inventare ogni giorno la ruota o consegnare ad altri i nostri clienti?
Una risposta c’è, e sta nel non facile equilibrio tra un’attiva ma intelligente presenza sugli earned media focalizzata però ad un percorso graduale di acquisizione sugli owned media, che vada da una semplice registrazione al sito alla sottoscrizione di una loyalty card fino a tutti i gradi del crowdsourcing e della co-creazione.
Dal mio punto di vista è questo percorso strategico che finora è mancato nell’approccio ai nuovi media, siano essi paid o earned, con molte aziende che hanno progressivamente abbandonato il presidio del proprio sito e di altri canali di comunicazione a favore delle più facili pagine social.
I tempi e gli strumenti invece sono maturi per consentire ad ogni azienda di costruire i propri mezzi attraverso cui comunicare ai propri clienti, risparmiando anche budget da reinvestire in adv e in social media marketing, con lo scopo di incrementare ancora il circolo virtuoso della relazione. E in questo i social media sono importanti ma da soli non bastano.
Resta poi molto importante la costruzione di metriche adeguate, in combinazione con la capacità e la volontà di leggere i dati che gli strumenti digitali sono in grado di fornirci.
Ho la percezione che queste logiche stiano iniziando solo ora ad affermarsi nelle aziende più illuminate, ma la progressiva necessità di misurare il ROI dei nuovi media porterà, almeno così mi auguro, sempre più imprese a ragionare seriamente su questi temi.
La prima ragione riportata nel testo è la disponibilità sempre maggiore di buone connessioni 3g e, prossimamente, 4g che abilitano una navigazione affidabile e veloce, con il plus di accessi alternativi come il wi-fi pubblico. Una tendenza in atto anche in Italia, nonostante i costi alti di navigazione in mobilità e la scarsità di reti wireless accessibili.
A tutti questi argomenti mi permetto di aggiungere una citazione di quello che è il grande tema dell’ipertestualità diffusa, concessa da strumenti come i QR Code, la realtà aumentata e, presto, l’Rfid e l’NFC.
Di Altri Autori (del 26/10/2011 @ 07:05:16, in Mobile, linkato 1845 volte)
Se il predominio negli smartphone passa attraverso la disponibilità (e la qualità) delle applicazioni è indubbio che Google sia oggi nella condizione di poter alzare la voce al cospetto di Apple. La forza dell'ecosistema di Cupertino (apps, iPhone, esperienza d'uso) non è in discussione ma la crescita registrata da Android, anche sotto il profilo della capacità di attrarre sviluppatori e utenti, è evidente.
E lo dicono i numeri. Stando per esempio ai dati resi noti da Abi Research, nel corso del secondo trimestre il negozio virtuale di Mountain View ha superato per numero di download effettuati l'App Store della Mela: il 44% di tutti i programmi scaricati dagli utenti sui propri telefonini da aprile a giugno è attribuibile infatti all'Android Market, contro il 31% raggiunto dallo store della Mela. Il restante 25% delle apps è stato quindi "pescato" dai negozi delle varie Amazon, Nokia, Microsoft e Research in Motion.
Il forte incremento delle vendite di smartphone androidi ha naturalmente contribuito al "clamoroso" sorpasso ma a confortare i vertici di Cupertino c'è il dato che riguarda il numero di download effettuati da ogni utente, visto e considerato che ad ogni dispositivo iOs venduto corrispondono circa 2,4 prodotti basati su Android (ed entro il 2016, stando alle previsioni, tale rapporto sarà di 3:1).
C'è però un altro studio, a firma della società specializzata Research2Guidance, che mette in risalto come Google abbia fatto passi da gigante per annullare il gap che la separa da Apple quanto a disponibilità di applicazioni da offrire agli utenti mobili. L'Android Market avrebbe infatti superato a settembre la fatidica soglia di 500mila software disponibili al download avvicinandosi quindi alle 600mila accessibili per gli utenti di iPhone nell'App Store di Apple. In realtà l'effettiva dote dello store di Mountain View è oggi nell'ordine delle 315mila apps in quanto ben il 37% sono state sì pubblicate ma subito dopo rimosse (la percentuale per Apple è del 24% per un netto di 456mila apps e quella del Marketplace dei Windows Phone è del 13%, per un totale di circa 35mila).
Google "paga" quindi un approccio più leggero verso gli sviluppatori che caricano nel Market demo o versioni di testing e incomplete dei programmi che poi non vengono ultimati (e quindi cancellati) mentre a Cupertino permangono criteri più rigidi nella selezione delle apps, di cui sono per esempio bandite le versioni multiple di prova. Quanto, in generale, allo stato di effervescenza del mercato delle applicazioni mobili parlano chiaramente i numeri elaborati dagli analisti di Abi Reserarch: fra giochi, musica e servizi di vario genere, il totale delle apps che verranno scaricate su scala mondiale dovrebbe arrivare nel 2011 a quota 29 miliardi, rispetto ai nove miliardi dell'anno passato. E tanto per rafforzare il concetto c'è anche la stima elaborata da Berg Insight, secondo cui i download raggiungeranno il tetto dei 98 miliardi entro il 2015 (il 40% verrà effettuato nella regione Asia Pacific) e il giro d'affari delle apps a pagamento arriverà a 8,8 miliardi di euro rispetto agli 1,6 miliardi registrati a consuntivo nel 2010.