Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
General Motors ha deciso di non comprare più spazi pubblicitari su Facebook. La società continuerà, però, a mantenere una pagina sul social network. La decisione, secondo una fonte vicina alla compagnia riportata da The Wall Street Journal, nasce dal fatto che il produttore di autoveicoli ritiene che la pubblicità su Facebook abbia poco impatto sui consumatori.
GM, terzo inserzionista pubblicitario negli USA dopo Procter & Gamble e AT&T, ha speso lo scorso anno 1.1 miliardi di dollari in advertising, di cui $271 milioni in online display e search, budget succulento da cui Facebook verrebbe escluso.
La mossa di GM, più di tutto però, sottolinea e rende evidenti dubbi, già circolati, sulla strategia economica di Facebook, a breve distanza dall’IPO, e le incertezze sulla reale efficacia degli ad sul social network. “Mette in risalto quello su cui stavamo discutendo, la pericolosità dell’intero business model di Facebook.” ha commentato Brian Wieser, analista Internet e media presso Pivotal Research Group.
GM non è l’unica compagnia a nutrire dubbi. Un dirigente di un’altra azienda produttrice di un prodotto di largo consumo avrebbe affermato che è difficile capire se gli ad valgono i soldi spesi. “È solo un nuovo brillante oggetto, o una reale proposta di valore?”.
I pareri non sono unanimi e Ford, ad esempio, sta incrementando la propria spesa su Facebook. Scott Monty , portavoce della società, ha spiegato che il punto è cosa si fa nel social network e come. “Non si può comprare l’ingresso in Facebook. Si deve avere una credibile presenza e fare cose innovative.”
Michael McHale, portavoce Subaru, è altrettanto entusiasta dei risultati. “Advertising più contenuti equivale a più click al nostro sito web, il che ci piace.”
“GM è un colpo di avvertimento” secondo John Battelle, presidente del network di advertising Internet Federated Media. Battelle ritiene che Facebook debba investire di più nella costruzione di relazioni con i principali inserzionisti e sviluppare un’offerta di advertising più ricca e personalizzabile.
Facebook si è rifiutata di commentare. Di certo la vicenda getta ombre sul futuro della compagnia e rischia di influenzare l’imminente quotazione in borsa.
Via Tech Economy
L’offerta pubblicitaria sul web è tanto vasta quanto dispersiva, ed anche se i principali attori di rilievo dell’advertising online sono pochi, rimangono sempre molti dubbi quando si sceglie a quale piattaforma affidare la propria campagna, e quanto può essere conveniente puntare su una soluzione rispetto ad un’altra simile.
A conferma della diversità sostanziale nelle offerte pubblicitarie sul web, WordStream ha condotto un confronto in questo senso tra la proposta di Google e quella di Facebook, stabilendo che l’advertising sul social network di Zuckerberg è molto meno efficace rispetto a quello di Google, raccogliendo tutti i dati in questa infografica.
La quota di click-through per un annuncio su internet è in media solo dello 0,1 per cento. Sul celebre social network è ancora più bassa, raggiungendo appena lo 0,051%, mentre le inserzioni pubblicitarie di Google raggiungono un risultato quattro volte superiore alla media, registrando uno 0,4 per cento.
Un altro degli attuali limiti della piattaforma pubblicitaria di Facebook è rappresentato dalla scarsa varietà dei formati disponibili e dalla loro rigidità strutturale, mentre l’offerta di Mountain View è molto più variegata ed adattabile alle esigenze specifiche del committente.
“Finora, la piattaforma pubblicitaria di Facebook non ha tenuto il passo con la crescita esplosiva del social network, e resta da vedere se il CEO Mark Zuckerberg vuole mettere tra i punti centrali delle sue strategie future la pubblicità come principale fonte di entrate. Nella sua lettera agli azionisti, rilasciata questo mese, ha citato la pubblicità solo una volta”, conclude Larry Kim, fondatore e CTO di WordStream.
Via Tech Economy
Ho scelto un titolo provocatorio per attirare l’attenzione su di un post in cui sarò molto schietto a proposito di un tema che mi sta a cuore da tempo: l’incontro e il dialogo tra manager d’azienda e esperti di nuove tecnologie.
Vado spesso (o partecipo in streaming) a interessanti eventi dedicati a mobile, e-commerce, digital communication e chi più ne ha più ne metta e ho sempre l’impressione che i partecipanti siano addetti ai lavori che ascoltano altri loro colleghi. Grandi assenti invece sono spesso i manager d’aziende non digitali, coloro che disegnano le strategie o, più semplicemente, le rendono effettive attraverso tutti gli strumenti oggi esistenti.
Fonte http://whatconsumesme.com
Io ho la fortuna di ricoprire una posizione strategica a cavallo fra questi due mondi e spesso per tale motivo faccio anche da interprete fra le due facce del business, per quanto sempre più vicine. E non ho usato casualmente la parola “interprete”.
Ricordo nitidamente una domanda del test di ammissione all’università su di un concetto di sociolinguistica che poi avrei ampiamente studiato ma che allora probabilmente sbagliai: la variazione di diafasica della lingua, ossia l’adattamento del modo di esprimersi al tipo di interlocutore e di contesto. In molti di questi eventi infatti si discute con grandissima competenza di tematiche importanti anche per chi non è un “tecnologo” ma lo si fa usando una terminologia settoriale corretta ma incomprensibile per chi non è del ramo. Se a ciò si unisce una certa colpevole mancanza di attenzione ai nuovi scenari da parte di una parte del management italiano, ecco che la frittata è fatta.
Non so se sia nato prima l’uovo o la gallina, ossia se i manager non vengono a questi eventi perché li considerano troppo tecnici o se invece questi eventi sono molto specialistici perché si prevede siano destinati agli addetti ai lavori vista la mancata partecipazione di altre figure professionali. E non voglio nemmeno generalizzare.
Dico solo che, secondo me, oggi probabilmente mancano occasioni in cui i professionisti (veri) della strategia digitale possano offrire visioni stimolanti e centrate sul business ai decisori aziendali, in una lingua che loro capiscono. E sono certo che molti esperti del digitale sarebbero in grado di ispirare realmente e concretamente anche persone che non conoscono la tecnologia ma che avrebbero bisogno urgente di capire che cosa oggi è possibile fare per migliorare il proprio business.
Insomma, il punto non è se questi temi possano importare a entrambi, ma solo riuscire a capirsi, dopo essersi trovati in uno stesso luogo per questo, un evento (o un’altra situazione) che sia come una piacevole cena dove si parla di cose interessanti in una lingua simile e fluida.
Poi ci saranno tante occasioni per eventi specialistici che non perderanno di importanza, anzi, saranno vitali per sviluppare i singoli aspetti dell’ecosistema di business creato dagli incontri di cui sopra.
Ma non possiamo dimenticare che la strategia digitale si fa assieme con chi può decidere.
E ora sono curioso di sentire la vostra opinione.
Gianluigi Zarantonello via Internet Manager Blog
Pagare per uno status di Facebook? A molti sembrerà strano, ma il social network ha deciso di creare l’opzione Facebook Highlight per dare la possibilità agli utenti di mettere in risalto un post, un link, una foto ecc. previo pagamento. Al modico prezzo di 1,80 dollari potrete assicurarvi che il vostro aggiornamento di stato sia messo in risalto in modo che i vostri amici lo leggano. In vista dello sbarco a Wall Street, Mark Zuckerberg e il suo team continuano a sfornare novità una dietro l’altra, nella speranza di fare cassa. Ma questa volta non avranno esagerato?.
Dopo il lancio dello store per gli antivirus per rassicurare gli investitori sulla sicurezza del social network e dei suoi utenti e dopo il lancio di un App Store per le applicazioni social, ecco l’ultima innovazione (alcuni la chiamerebbero “trovata”) del sito blu: Faceboook Highlights. Il funzionamento di questa funzionalità è molto semplice, si sceglie un post, un link, una foto, un aggiornamento di stato…che si vuole far vedere a più persone possibili, si paga 1,80 dollari e il post viene messo in evidenza. Una forma di pubblicità a basso costo?, una porta aperta allo spam?, un’invasione non gradita del news feed degli utenti?, ognuno la veda come preferisce. In generale però, quella di Zuckerberg sembra una sorta di test per vedere se gli utenti sarebbero disposti a pagare per mettere in risalto un loro post.
I metodi di pagamento accettati sono PayPal e carta di credito, non vi è comunque alcuno strumento per verificare effettivamente quante persone vedano il post in questione. Facebook ha dichiarato “Stiamo continuamente testando nuove funzionalità all’interno del sito. Questo particolare test è atto semplicemente a valutare l’interesse della gente circa questo metodo di condivisione con i propri amici“. Il test partirà dalla Nuova Zelanda, e se dovesse avere successo, potrebbe essere esteso presto anche agli USA e agli altri stati. Una volta scelto di mettere in risalto il contenuto, questo verrà posizionato nella parte alta del feed degli amici e resterà lì più a lungo. A livello grafico, il post sarà identico a tutti gli altri presenti nel feed.
Dato che, in media, un post raggiunge circa il 12% dei contatti, una soluzione del genere potrebbe anche rivelarsi utile. Ma un sistema del genere può essere adatto ad un social network basato su una sorta di “democrazia”?. In fondo, se un post è interessante, verrà condiviso, sarà commentato e si farà notare senza bisogno di “aiuti” esterni. Se i post a pagamento si dovessero diffondere, gli utenti comuni non disposti a pagare si ritroverebbero in una posizione di svantaggio, mentre i brand inizierebbero a monopolizzare i feed degli utenti. Visto in questo modo, il progetto sembra destinato a fallire, ma tutto dipenderà dal riscontro positivo o negativo degli utenti Neozelandesi (confidiamo in loro). Voi cosa ne dite, vi piace l’idea di Zuckerberg?
Via Trackback
La dipendenza da social network è più diffusa tra i neo iscritti e le donne, mentre rischiano meno le persone più ambiziose e organizzate. Sono alcuni dei risultati della ricerca condotta dalla Università di Bergen, pubblicata sulla rivista Psychological Reports, che nell’ambito del progetto Facebook Addiction analizza attraverso le motivazioni alla base di questa nuova dipendenza e i segnali di allarme da considerare per valutare l’impatto del fenomeno ed eventuali trattamenti.
Secondo la scala progettata dai ricercatori norvegesi, oltre ai neo iscritti a soffrire maggiormente di dipendenza da Facebook sono le donne e le persone ansiose e socialmente insicure, che vedono in questo strumento un tipo di comunicazione più semplice rispetto a quella faccia a faccia.
“La dipendenza è legata al grado di estroversione - ha spiegato Cecilie Schou Andreassen, principale autrice dello studio - che tendono ad avere un certo ritardo nel ritmo sonno-veglia”. Secondo lo studio i sintomi della dipendenza da Facebook sono simili a quelli della dipendenza da alcol e da sostanze chimiche.
Via Quo Media
L’ecosistema digitale è sempre più complesso ma per molte aziende questo fatto non è ancora evidente. I social media e l’evoluzione tecnologica degli strumenti digitali, che vengono abbastanza da lontano, hanno infatti dato una percezione di semplificazione rispetto alla realtà: mezzi gratuiti o poco costosi, simili a quelli che usiamo già come utenti privati e con basso profilo di rischio.
Un esempio di complessità: i frattali
Come sappiamo anche solo limitandoci a una visione superficiale non è così perché, ad esempio, il fatto che gli utenti siano perfino più esperti dei loro interlocutori aziendali e accedano alla pari agli stessi mezzi crea più di qualche grattacapo nel momento in cui vogliono essere ascoltati e dialogare.
Proviamo però ad andare anche oltre a questi temi, piuttosto assodati anche se totalmente ignorati da larga parte di chi si occupa di digitale in azienda, per spingerci più avanti.
Ecco alcune questioni che i CMO (o i Chief Marketing Technologist?) dovranno presto affrontare:
a) Skills tecnologiche: saranno sempre più richieste anche se non in chiave di puro tecnicismo quanto in termini di visione strategica e di comprensione degli strumenti. Non possiamo essere meno competenti sui mezzi rispetto al pubblico target. E la strategia è un’altra cosa rispetto a saperci smanettare.
b) Capacità di ragionare in ottica multicanale: mentre in molte realtà si fa ancora fatica ad adattare la propria comunicazione tradizione al web il mondo va sempre più nella direzione di una ipertestualità diffusa e di una multicanalità in cui i nativi digitali si aspettano un’esperienza coerente in tutti i canali digitali e fisici. Una bella sfida, sopratutto sul piano dei contenuti.
c) Capacità di bilanciare paid, earned e owned media: il panorama degli strumenti è reso ancora più complicato dal fatto che alcuni sono sotto il nostro pieno controllo e altri molto meno. E’ il dilemma di cui ho parlato ad esempio qui, e che non va dimenticato nella costruzione delle basi della nostra digital strategy.
d) Corretto uso di tutti i dati per comprendere le opportunità di business e modificare i propri modelli: è il tema del big data, rispetto al quale la capacità di sfruttare la (fin troppo?) ampia quantità di informazioni disponibili sarà cruciale.
e) Coraggio di cambiare: cambiare l’organizzazione interna, cambiare i modelli di business, cambiare mentalità e vincere il timore di esporsi e dialogare, dato che ormai non è più possibile farne a meno.
Non mi sembra uno scenario così semplice, no? " src="http://s0.wp.com/wp-includes/images/smilies/icon_smile.gif?m=1129645325g" />
Secondo la vostra esperienza stiamo maturando queste consapevolezze in Italia o siamo ancora indietro?
Gianluigi Zarantonello via Internet Manager Blog
L’ecosistema dell’informazione, come sappiamo, sta cambiando. E abbiamo ormai diverse analisi che ci mostrano come l’offerta di news e l’accesso alla realtà dell’informazione stia mutando con il digitale. E abbiamo anche il sentore che i comportamenti dei lettori di news stiano cambiando profondamente e che gli ambienti di social networking in Rete, partendo da Twitter e Facebook, siano rilevanti per il nostro modo di distribuire e consumare news. Si tratta di una percezione che ci sembra di vivere sulla nostra pelle di utenti assidui della Rete e che trova una conferma nell’esperienza americana del monitoraggio costante che fa Pew Research Center’s Internet & American Life Project (qui una sintesi), conferma però che riteniamo “estrema” e “più avanzata”. In fondo l’Italia ha sue logiche produttive e di consumo dell’informazione e le esperienze online ci sembrano (sembrano al sistema dei professionisti dell’informazione, per la verità) casi isolati e quasi sperimentali.
Per questo mi sembra importante per capire la mutazione in atto partire per una volta dai dati nazionali, quelli comparabili con le ricerche Pew, perché ci sanno raccontare come gli italiani stanno modificando il loro modo di costruire una dieta informativa e di consumare news. Per farlo, giocando in casa, vorrei usare i primi risultati della ricerca 2012 del LaRiCA (Università di Urbino Carlo Bo) sui cambiamenti del consumo di informazione in Italia, Cati su un campione di 1031 Italiani adulti rappresentativo della popolazione (una sintesi è stata presentata al #ijf12 e nel sito news-italia.org è possibile trovare gli stati di avanzamento e il report dell’indagine 2011).
Il panorama che ci troviamo di fronte è caratterizzato da un 70% di italiani che dichiara di seguire anche più volte al giorno l’informazione, con un’assiduità di fruizione che decresce al decrescere dell’età, arrivando ad attestarsi al 57% per la fascia dei giovani adulti (18-29 anni). Il medium onnipresente quando parliamo di consumo di news è la televisione nazionale, che per quasi il 90% degli italiani resta un accesso irrinunciabile al mondo dell’informazione anche se va sottolineato come la TV rappresenti “un” elemento di una dieta mediale che è più ricca. Sono infatti pochi (4%) quelli che si affidano a un solo mezzo di comunicazione mentre quasi la metà degli italiani usa una combinazione compresa fra 5 e 7 mezzi di comunicazione diversi (49%) tra tv nazionale e locale, carta stampata nazionale e locale, radio, all news satellitari e Internet. Informarsi per metà degli italiani significa quindi disporre di un media mix di accesso e costruire la propria dieta in modo multicanale.
Rispetto al 2011 possiamo notare un aumento di attenzione per i canali all news (quasi il 60% con +6.6%), mentre diminuisce quella per i quotidiani nazionali (59.6%, -3.5%) e locali (54% -5%) e troviamo una crescita dell’uso di Internet per consumare news (58.5%, +7.4%). Facendo un piccolo gioco scorretto metodologicamente, ma significativo metaforicamente per raccontare lo spirito dei tempi, potremmo azzardare che la diminuzione del consumo di informazione su carta è compensata da quello sul web. Quello che è certo è che la Tv è qui per restare, aiutata probabilmente anche dalle pratiche di social television che associano fruizione televisiva a forme di condivisione e commento online (magari su un social network con i propri friend o nel flusso di un #hashtag). Mentre l’editoria di carta sembra risentire maggiormente di un mutamento dell’ecosistema a cui corrisponde un adattamento di consumo di news che ne mette in crisi formati e probabilmente linguaggi.
Passando ad analizzare gli utenti Internet (in Italia sono il 60% della popolazione) quelli che usano la Rete per accedere e consumare informazione sono più della metà, il 58% con un +7%rispetto al 2011. Ma se vogliamo capire le linee di tendenza allora forse vale la pena osservare il comportamento di consumo delle news online dei giovani adulti. Nella fascia d’età 18-29 anni è il 95% ad accedere all’informazione (anche) attraverso Internet ma solo la metà (57%) segue le news quotidianamente, mostrando un comportamento di consumo più occasionale rispetto alla media degli italiani (70%) e più dedito ad una lettura ad ampio raggio, anche su tematiche sulle quali non si è mai focalizzato particolarmente (93%). Sembra che ci troviamo di fronte ad un uso dell’informazione apparentemente molto più vicina alle logiche di intrattenimento e tempo libero che di approfondimento e quotidianità. Quello che emerge è un rapporto occasionale e meno routinizzato con il mondo news, fatto di incontri casuali e dovuti al fatto di avere tempo a disposizione per navigare più che dedicare specificatamente tempo ad approfondire gli eventi del mondo. Ma è anche un comportamento probabilmente dovuto ad un modo diverso di percepire il valore sociale dell’informazione, come emerge dall’attenzione per una condivisione sociale delle news: oltre il 50% dei giovani adulti ritiene rilevante nella sua scelta del canale news online “poter seguire il sito di informazione attraverso Facebook” e “poter condividere facilmente con gli altri le notizie contenute nel sito, via e-mail o su Facebook o altri siti di social network” (69%). Il fatto è che per i giovani adulti “incontrare” e “consumare” notizie è sempre più anche una moneta relazionale e il processo di fruizione un atto sociale di messa in connessione con gli altri.
Per quanto riguarda invece i siti di social network e i comportamenti correlati cresce chi dichiara di ricevere informazioni attraverso un sito come Facebook o Twitter. Il 37% di chi usa Facebook (+4% rispetto al 2011) dichiara di ottenere notizie e informazione da un’emittente tradizionale o da un singolo giornalista seguito mentre il 49% (+9% rispetto al 2011) dichiara di ricevere informazioni condivise sul social network da un non professionista dell’informazione (inclusi amici personali e parenti). Fra chi usa invece Twitter queste percentuali si attestano rispettivamente al 30 (+6%) e al 46% (+1%). In sintesi quasi la metà degli utenti di social network (equivalenti al 17% degli italiani per Facebook e al 5% per Twitter) si informa attraverso un agenda non completamente controllata dai professionisti dell’informazione. Se è vero che le informazioni condivise fra i pari rimandano spesso a fonti informative alimentate dai professionisti dell’informazione, va comunque sottolineato il cambiamento nella costruzione di un agenda che, nel caso di questi utenti, è spesso frutto degli interessi dei propri contatti sui siti di social network.
Anche ad un primo sguardo ci troviamo di fronte ad un ambiente di consumo di news online in cui i meccanismi di reciprocità relazionale contano, un ambiente in cui emergono nuovi intermediari non professionisti nella distribuzione e selezione delle news che fanno parte della nostra rete di relazioni sociali, un contesto in cui l’informazione tende sempre più a connettersi al valore sociale delle reti attraverso cui la incontriamo.
Più in generale questa tendenza va a miscelarsi con bisogni di multicanalità (l’accesso in mobilità è al 31% con +3% rispetto al 2011) che raccontano una costruzione dell’agenda fatta anche da un accesso plurale ai mezzi di informazione. Costruire l’informazione e renderla accessibile sapendo leggere i comportamenti di consumo mutati rappresenta forse la sfida più urgente dal punto di vista del sistema dell’editoria nazionale.
Via Tech Economy
Arriva in rete TwinPeople, il plug-in gratuito che si installa direttamente sul browser e mette in contatto secondo una logica di affinità tematica gli utenti tra coloro che stanno navigando sulla stessa pagina web.
Scopo dell’applicazione è sviluppare la socialità attorno ai contenuti e non attorno ai contatti: si interagisce perché si condividono le stesse passioni, gli stessi interessi, non perché si è in qualche maniera già amici. Il centro della rete è il singolo tema: la pagina web su cui si sta navigando diventa una piazza virtuale dove tutti gli utenti che hanno TwinPeople e che stanno vedendo quella pagina possono scambiarsi opinioni.
Grazie all’identificazione per tema e alla web-localizzazione, TwinPeople è il promotore del concetto di webmob, un ritrovo online tra utenti su di un specifico sito internet, circoscritto in un lasso di tempo. Ogni sito web diventa una potenziale piazza virtuale tematica dove l’utenza incontrandosi ed interagendo potrà condividere commenti, curiosità e opinioni.
Via Quo Media
Questo post prende lo spunto iniziale dalla polemica delle scorse settimane attorno a una famosa fashion blogger e ai suoi possibili compensi da parte di alcune aziende.
Sulla vicenda mi sono già espresso su alcuni spazi social, in effetti sono stupito del fatto che tutti si accorgano ora di tale fenomeno e, contemporaneamente, le vicende di questa persona (dotata di grandi capacità di personal branding) mi fanno pensare che la corsa all’emulazione di alcuni brand sia poco ragionata e molto dettata dalla moda.
Il ciclo di Hype: ne parlerò poco più sotto
Il fenomeno dei fashion blogger infatti è nato in ritardo in Italia e l’attenzione recentemente dedicata a questo mondo dalla stampa ha creato un mercato fiorente per quei (pochi) che sono riusciti a crearsi un nome noto alle cronache.
La scarsa capacità di valutazione del ROI digitale e la strategia poco distintiva di alcuni brand hanno poi creato una domanda per i soliti noti tale da determinare degli economics fuori scala per i servizi, pur dotati di valore aggiunto, di questi blogger.
Allargando lo sguardo oltre l’episodio però approfitto di questo spunto per riprendere due concetti che ho già trattato in passato: il ciclo di hype e il corretto processo di definizione di una strategia digitale.
Il primo, oggi molto amplificato dall’attenzione dei media tradizionali per il web, è il fenomeno per cui una tecnologia con un impatto sociale vive una crescita, un momento di successo fin troppo ampio (hype) e poi si assesta dopo una fase di disillusione trovando il proprio pubblico più o meno di nicchia (si pensi a Second Life).
Sul secondo invece ricordo l’approccio POST, che prevede di partire dall’analisi del target (e della relativa competenza tecnologica) per poi definire obiettivi e strategia e, solo alla fine, la tecnologia ottimale per avere successo.
Ho messo assieme questi elementi perché guardandoli assieme diventa sempre più importante individuare per tempo e in modo critico i nuovi fenomeni del digitale, con questi consigli che mi permetto di dare:
a) cercate di captare cosa sta prendendo piede sulla rete monitorando e ascoltando gli early adopter del settore che vi interessa e studiate i nuovi strumenti prima che diventino noti, per essere pronti.
b) siate veloci a comunicare non appena i primi media mainstream inizieranno a citare il nuovo servizio: il vantaggio di immagine di essere i primi è notevole.
c) integrate il più possibile il nuovo mezzo con quelli che avete già, e soprattutto con gli owned media: sarà più efficace e vi vincolerà meno nel caso lo strumento perda di interesse in breve.
d) cercate tecnologie che siano davvero rilevanti per il vostro pubblico usando l’approccio POST e non rincorrete solo le mode
e) datevi degli obiettivi e misurate che ritorni vi arrivano in merito: senza sapere che cosa si vuole diventa difficile anche capire il livello di successo.
Per seguire questi consigli ovviamente serve sensibilità, know how e consapevolezza che i mezzi lavorano sempre tutti insieme in un’ottica di ecosistema.
Senza contare che i primi poi possono spuntare i prezzi migliori, sempre ammesso di dover pagare…
Gianluigi Zarantonello via Internet Manager Blog
Le Rosse corrono sempre più veloci, anche sul web e la Ferrari si conferma protagonista assoluta sui social network. A dirlo sono le cifre diffuse dalla casa di Maranello, secondo cui il marchio del Cavallino è primo assoluto nel settore automobilistico e fra i più popolari nella classifica generale.
Pochi giorni fa la pagina Facebook di Ferrari ha superato il traguardo degli otto milioni di fan e a loro è stato dedicato uno speciale filmato con protagonista una 458 Italia che disegna a colpi di sgommate il numero 8.000.000 sullo sterrato della pista di Fiorano.
"Straordinaria", viene definita anche la crescita su Google+, dove la Ferrari occupa la prima posizione con oltre mezzo milione di fan, un numero decuplicato nel primo trimestre 2012. E non finisce qui: il brand Ferrari è da poco presente in Cina sul più importante social network locale, Weibo, ed è subito diventato il più amato del suo segmento.
Via Quo Media
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