Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Buon lunedì. Mi è capitato recentemente e per vari motivi di leggere diversi report sul social caring e la capacità di risposta delle aziende, come questo di Blogometer e altri, anche di provenienza straniera.


Al di là di numeri e trend quello che, secondo me, dovrebbe balzare più all'occhio è il fatto che questi canali molto spesso sono ancora trattati in modo separato dal customer care tradizionale e dal CRM.
Viene persa quindi una grandissima opportunità di arricchire la conoscenza che abbiamo dei nostri clienti (nurturing) che spesso invece sono disponibili a condividere molte informazioni con noi a patto di essere ascoltati e supportati. La logica di ecosistema si porta dietro anche il concetto di single customer view ed i social media, spesso in bilico tra sopravvalutazione e disincanto eccessivo, sono un canale bidirezionale e quindi ideale per attingere dal dialogo. Al di là delle varie metriche, è questo il loro reale valore, non certo il numero totale di fan/follower acquisiti in modi magari non leciti.
Ovviamente tutte queste informazioni poi devono essere in qualche modo rese disponibili a tutti coloro che ne possono trarre informazioni utili al business (basta con i silos!), per dare valore agli inevitabili investimenti che questo tipo di collezionamento comporta.
È ovviamente un tema di tecnologia per gestire tutto questo ma anche e soprattutto di processo interno all'organizzazione. E voi, che esperienze avete in merito?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Se la Delorean di “Ritorno al futuro” potesse portarci indietro di quindici anni almeno, in un mondo pre social media di massa, le scelte per un piccolo imprenditore italiano in campo pubblicitario appaiono alquanto limitate. Volantini, annunci pubblicitari sul quotidiano locale, cartelloni pubblicitari e per i più coraggiosi banner su internet e pay-per-click. Forse più che limitate, sarebbe più corretto definirle onerose. Basti pensare al tempo e alle risorse spese non solo per impaginare e stampare volantini ma anche per distribuirli oppure i costi e le tempistiche dei piccoli giornali e nessun modo per misurarne l’efficacia se non contare l’aumento di clienti senza poter attribuire in maniera certa, in molti casi, se ció fosse proprio dovuto all’investimento pubblicitario.
Una via d’uscita Ma un salto veloce sulla Delorean ci porta avanti di qualche anno e l’arrivo dei social media, Facebook in particolare, che sconvolge la cultura italiana per sempre. Il piccolo imprenditore vede finalmente la possibilità di farsi pubblicità gratis (parola magica!). Non serve nemmeno un sito web, la pagina Facebook diventa in molti casi il baluardo online della piccola impresa. Like dopo like, il piccolo imprenditore può comunicare con il cliente direttamente (nel bene e nel male) senza aver bisogno di capacità specifiche o risorse aggiuntive.
Una bolla pronta a esplodere, perché questo scenario c’é qualcuno che non ci guadagna abbastanza. E così Zuckerberg & co, algoritmo dopo algoritmo, azzerano o quasi le chance del piccolo imprenditore. Prima con l’EdgeRank, che da solo ha fatto vittime anche fra i grandi marchi (si pensi a Eat24 o Copyblogger) poi con modifiche successive che portano in vista contenuti di prima classe. Sono ormai scomparsi dal blog di Facebook e dai feed le menzioni dei programmi per piccole imprese o i vari esempi di campagne di successo, persino i coupon ed offerte come opzione pubblicitaria sono passati in secondo piano.
Content is king Facebook adesso promuove lo storytelling come maniera efficace per non annoiare i consumatori con pubblicità invadenti. Propone esempi di campagne di McDonald’s e Coca Cola, come la recente realizzazione di video con patatine fritte in stop motion che certamente avrà avuto un budget notevole.
Un miglioramento per i consumatori certamente, ma un cambiamento di direzione che dovrebbe far riflettere i piccoli imprenditori sulla validità dei social come mezzo di promozione. Storytelling e content marketing su i social media tempo, risorse ed esperienza in maniera costante, non tutti gli imprenditori ne hanno a disposizione.
Alla luce di tutto ciò, gli esperti cominciano a tentennare e quello che era un must, adesso diventa un optional.
L’ultimo avamposto In un mondo in continua evoluzione, dove social media come Ello o Rooms (la nuova app targata Facebook) cambiano le regole del gioco in continuazione, forse ha senso rivalutare il sito web. Google attesta con abbondanza di dati che effettuiamo ricerche su internet più che mai e questo accade con maggior frequenza con gli smartphone. Un sito web semplice e responsive, ottimizzato e contenente tutte le informazioni necessarie può essere valido per anni a venire, un investimento che vale la pena fare piuttosto che inseguire i mulini a vento dei social media.
Via Republic+Queen Magazine
Un marchio forte, si sa, è un bene estremamente prezioso. Le aziende di consumo, in particolare, dedicano molto tempo e risorse al consolidamento del proprio marchio. Secondo la ricerca annuale condotta da Forbes sui marchi più importanti del mondo, Apple si guadagna il primo posto con un valore di 124,2 miliardi di dollari , il doppio rispetto alla seconda classificata Microsoft con i suoi 63 miliardi di dollari.
Il valore di Apple è cresciuto del 19% rispetto all’anno precedente, confermando la forza guadagnata nel tempo dal colosso su alcuni settori strategici: telefonia, tablet, lettori mp3 e musica. Si appresta ora ad aggredire nuovi mercati come quello degli smartwatches con Apple Watch e dei pagamenti attraverso Apple Pay. Apple ha venduto 39,3 milioni di iPhone nell’ultimo trimestre e 12,3 milioni di iPad, generando un margine di profitto superiore del 33% rispetto all’anno precedente .
Al secondo posto tra le aziende con più alto valore troviamo Microsoft, in crescita dell’11% dopo tre anni di stasi ed una strategia volta a conquistare il mercato del mobile. Grande successo anche grazie alla scelta di fornire licenze di utilizzo del software in ambiente cloud. Microsoft sta puntando inoltre sulle sponsorizzazioni, come dimostra l’accordo da 400 milioni di dollari firmato nel 2013 con la NFL – National Footbal League, con il marchio Surface a bordo campo e l’uso di tablet Microsoft per l’instant replay. Medaglia di bronzo a Google con un valore di 56,6 miliardi di dollari, in crescita del 19% rispetto all’anno precedente. Negli ultimi 12 mesi ha generato utili per 16 miliardi di dollari ed è uno dei più grandi spender pubblicitari in tecnologia con 2,8 miliardi nel 2013.
Per determinare i most valuable brands Forbes ha analizzato oltre 200 marchi globali, ponendo come requisito la presenza negli Stati Uniti, eliminando dalla classifica aziende multinazionali come Vodafone o China Mobile. L’analisi è realizzata sugli utili degli ultimi 3 anni, assegnando un punteggio percentuale in base al settore (alto per i beni di lusso e bevande, basso per compagnie aeree e petrolifere). I 100 marchi più prestigiosi coprono 15 paesi in 20 settori industriali. I marchi di aziende con sede negli Stati Uniti costituiscono poco più della metà della lista, seguiti da Germania (9 marchi), Francia (7) e Giappone (5). Le aziende del settore tecnologico dominano la lista con 16 marchi in totale, di cui 5 tra le prime 10 e 11 tra le prime 25. Seguono le aziende automobilistiche con 16 marchi nella top 100, guidate da Toyota al nono posto con un valore di 31,3 miliardi di dollari. IBM con un valore di 47,9 miliardi di dollari in calo del 5% rispetto all’anno precedente si piazza al quinto posto tra due colossi del settore alimentare Coca Cola, al quarto posto con un valore di 56,1 miliardi di dollari in crescita del 2%, e McDonald’s al sesto con un valore di 39,9 miliardi di dollari, in crescita dell’1%.
Il miglior risultato tra tutti i valuable brandes di Forbes lo ottiene Facebook, classificato al diciottesimo posto ma con un aumento del 74% rispetto all’anno precedente e un valore di 23,7 miliardi di dollari. Buoni risultati anche per Amazon al 24° posto con un aumento del 45% ed un valore di 21,4 miliardi di dollari.
I numeri di Forbes rafforzano quanto già sostenuto da Eurobrand agli inizi di ottobre.
Via Tech Economy
Kindle Unlimited signfica per i possessore di un ebook Kindle l’accesso illimitato a oltre 15.000 titoli in italiano e oltre 700.000 in altre lingue da tutti i dispositivi a 9,99 euro al mese. Funziona così: i titoli disponibili sono contrassegnati dal logo Kindle Unlimited, entrando nella pagina di dettaglio del singolo eBook si clicca su Leggi gratis con Kindle Unlimited. È possibile iniziare oggi il proprio periodo di prova gratuito di 30 giorni su www.amazon.it/ku-provagratuita.
Come funziona?
Finché si paga tutto bene. Quando annulli l'abbonamento a Kindle Unlimited, si continuia ad usufruirne fino alla scadenza del periodo di fatturazione. Decorso questo termine, non avrai più accesso a tutti gli eBook Kindle Unlimited scaricati. I segnalibri, le note e le evidenziazioni salvati all'interno dell'eBook resteranno memorizzati sul tuo account Amazon e potrai accedervi nuovamente se deciderai di acquistare l'eBook in futuro. La vittoria della formula flat
In fondo è la vittoria dello streaming e di un modello di business che punta sull’accesso al servizio. L’idea di Amazon è quella di Spotify e dei moltissimi servizi di streaming video (Infinity, SkyGo, Apple iTunes, ecc). Si paga l’accesso e non il possesso. Quando si smette finisce l’esperienza d’uso. Quello dell’abbonamento flat è un cambio di paradigma per l’utente. Un incubo per i collezionisti e gli amanti dell’oggetto fisico. Un sogno per chi invece con pochi dollari può restare sintonizzato con le novità di mercato. Prima o poi qualcuno cercherà un modo di far parlare questi due mondi apparentemente lontani.
Via IlSole24Ore.com
Audiweb ha rilasciato i nuovi dati dell’audience mobile e della total digital audience del mese di agosto 2014: in questo periodo sono stati 27,4 milioni gli italiani dai due anni in su che si sono collegati a internet almeno una volta, online in media per 42 ore e 49 minuti per persona. La total digital audience nel giorno medio è rappresentata da 19,5 milioni di utenti collegati per 1 ora e 56 minuti.
La fruizione di internet da device mobili (smartphone e tablet) nel giorno medio supera ancora l’accesso alla rete tramite computer. Sono, infatti, 15,5 milioni gli italiani tra i 18 e i 74 anni che ogni giorno hanno dedicato in media 1 ora e 37 minuti alla navigazione in mobilità, mentre l’audience online da PC registra 10,5 milioni utenti unici (2+ anni) online per 1 ora e 13 minuti a persona.
Con 1 ora e 43 minuti nel giorno medio e 45 ore e 53 minuti di tempo speso in media per persona nel mese, le donne confermano un maggiore consumo di internet da mobile rispetto agli uomini. Oltre il 62,5% dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni era online nel giorno medio ad agosto (7 milioni), principalmente da device mobili. Più in dettaglio, risultano 2,6 milioni i giovani tra i 18 e i 24 anni che nel giorno medio hanno usato device mobili (smartphone e tablet) per accedere a internet (il 60,2% dei 18-24enni), mentre l’accesso da PC vede solo 962mila utenti unici di questa fascia d’età (il 22,6% della popolazione di riferimento).
Dai dati sull’uso dei differenti device utilizzati per accedere a internet, risulta che il 66,4% del tempo totale speso online è generato dalla fruizione di internet da mobile e, più in dettaglio, il 55,7% del totale dalla fruizione tramite mobile applications.
Via Tech Economy
C’è un equivoco che ancora ha molto seguito nel marketing e nelle aziende, specie quando ci si sposta sui mezzi a vocazione più digitale: bisogna essere su quel canale o utilizzare quella tecnologia perché ci daranno un vantaggio o solo perché altri ci sono già.

Certo grazie alla diffusione di internet, degli smartphone e a mille altri fattori sono cambiate molte cose negli ultimi anni rispetto agli strumenti per comunicare, e in particolare:
a) si sono pesantemente ridotte le barriere all’ingresso per la produzione di contenuti, sia in termini di competenze tecniche sia sul piano dei costi;
b) i privati ormai posseggono in molti casi una tecnologia pari o perfino migliore di quella aziendale e non è raro che la sappiano padroneggiare meglio;
c) in termini teorici la distribuzione su vasta scala è accessibile a tutti.
Fermiamoci un attimo: rispetto a quanto sopra nella gran parte dei casi il nostro pubblico come privati sono degli amici per i quali ciò che creiamo ha un significato che nasce dal contesto, dalle relazioni, da una storia e che prescinde da qualità e mezzo di produzione. Ma se siamo delle aziende, quali dovrebbero essere i motivi per cui dovremmo avere successo ora che la fruizione dei media è frammentata tra tanti device, asincrona e personalizzata? Per quale (abbondante) mancanza di umiltà noi dovremmo essere per forza interessanti nel frastuono della conversazione collettiva?
Senza un palinsesto unico dei media che ci dia una mano a dettare l’agenda e i tempi, come avveniva per la tv tradizionale, e con tanti stimoli continui che arrivano nello stesso momento da fonti disparate per livello, qualità e vicinanza il solo esserci non serve. E anzi è controproducente.
La domanda giusta infatti non è tanto “dove devo essere” ma che cosa voglio fare e rispetto a chi. L’ormai storico acronimo POST viene rispettato infatti inconsciamente dagli utenti, per i quali la tecnologia è qualcosa di indifferente purché sia comodo per fare ciò che vogliono, ma non dalle aziende.

Un contenuto di qualità e rivolto alle persone giuste quindi è la prima chiave. La seconda è la capacità di gestirlo attraverso i canali e nel tempo: fondare una strategia su di un singolo media, specie se earned, vuol dire essere a rischio ad ogni nuovo arrivo nell’ecosistema. In più, la possibilità (tecnica e organizzativa) di rilavorare e adattare in tempi brevi ad ogni nuovo mezzo le storie ciò per cui veniamo scelti dal cliente è il secondo pilastro di una sana capacità di cavalcare l’evoluzione frenetica dei nostri tempi.
Contenuto può poi volere dire tante cose ma al centro ci sono sempre le persone, le storie, le aziende, i bisogni, l’immaginazione: è questo che riempie di senso un libro come un post di Facebook. E allora si capisce che partire solo dal supporto non è davvero una buon idea.
P.s. Tutto ciò si applica alla grande anche agli strumenti di collaboration, ma lì c’è materiale per più di un altro post!
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Come annunciato un anno fa e dopo sei mesi di test, Instagram lancia ufficialmente gli annunci pubblicitari video. Fondata da Kevin Systrom e Mike Krieger e di proprietà Facebook dal 2012, ha stretto accordi con Disney, Activision, Lancome, Banana Republic e CW per mostrare 15 secondi di spot in autoplay. Gli annunci inizieranno in queste ore per poi continuare nelle prossime settimane.
Come per le immagini degli annunci pubblicitari lanciati lo scorso anno, Instagram è stata e sarà particolarmente attenta con i brand coinvolti negli annunci video. La società ha visionato tutte le clip al fine di garantire contenuti “freschi”, che ben si adattino all’atmosfera della piattaforma e che non siano semplicemente la replica di spot televisivi o su web.
I video sono diventati una parte importante della pubblicità su mobile e alcuni competitor di Instagram, come Tumblr e Snapchat, hanno recentemente lanciato prodotti pubblicitari simili: snapchat, ad esempio, ha venduto il suo primo annuncio video di questo mese per Universal Pictures, che ha promosso un trailer per il film Ouija. Ma l’introduzione di ads all’interno di queste piattaforme, dicono gli esperti, dovrà avvenire con grande delicatezza, con una introduzione graduale in app che, fino ad oggi, sono state libere da qualsiasi pubblicità. E che si tratti di un argomento delicato lo dimostrano le reazioni registrate dai primi inserzionisti su Instagram che hanno provato ad introdurre immagini sponsorizzate sono stati attaccati da commenti negativi da parte degli utenti che non amano attività pubblicitarie nel loro feed. Eppure Instagram condivide feedback che scavano più a fondo dei commenti e guardano alla brand awareness e all’ad recall, con risultati positivi su tutti i fronti, sostiene la società.
I brand che hanno preso parte al primo lancio degli annunci video di questa mattina concordano sulla necessità di essere i primi, rafforzare la reputazione e rendere innovativo il proprio brand. ”Non è stata una decisione difficile per noi“, ha detto Brian Chang, assistente al VP Media di Lancome USA. “Noi, come marchio, abbiamo voluto cogliere il vantaggio di essere i primi sul mercato.” Lancome sta promuovendo una nuova fragranza e un mascara, mentre Activision lancia il gioco Call of Duty, con un lavoro di mesi per ottenere risultati positivi, lanciando il video in contemporanea sulla propria pagina Facebook con 23 milioni di fan.
Immagine“Il nostro pubblico sta diventando sempre più mobile-centric, e Instagram è una piattaforma mobile-centric“, dichiara Jonathan Anastas, Capo della sezione Digital e Social media di Activision, “quindi è una parte importante del marketing mix.” Anastas si aspetta che l’annuncio raggiunga inizialmente i 2 milioni di utenti, e grazie a like e condivisioni, altri milioni lo vedranno e convoglieranno il traffico verso il video su Facebook. “Uno dei grandi vantaggi di lavorare nel team di marketing per Call of Duty è che i giocatori in linea di massima, e il nostro target di riferimento specifico, inalano contenuti“, sostiene Anastas. Non è pertanto preoccupato per una possibile reazione negativa alla visualizzazione di contenuti sponsorizzati. Activision lavora con Omnicom Media Group, che ha firmato in esclusiva la scorsa primavera un contratto da 40 milioni di dollari con Instagram, per offrire ai propri clienti in anticipo offerte su nuovi prodotti pubblicitari. Il primo annuncio pubblicitario di Banana Republic è invece uno sguardo dietro le quinte presso l’azienda con suggerimenti di moda per le vacanze. Il video presenta la creazione dei bozzetti in fast-motion, con un effetto di manipolazione del tempo reso popolare da Hyperlapse, la prima applicazione stand-alone di Instagram. “Ci stanno prendendo di mira le donne, perché si tratta di illustrazioni di moda e il focus è sui prodotti delle donne“, ha detto Marissa Webb, Direttore creativo e Vice Presidente esecutivo del design a Banana Republic. L’orientamento degli annunci su Instagram è ancora piuttosto semplice, ma concede al marketing la possibilità di raggiungere il target per età, sesso e paese.
Via Tech Economy
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