Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
I risultati di una nuova ricerca di marketing avviata dalla startup Crowdtap e dalla società di ricerca Ipsos fanno luce sulle modalità di fruizione delle notizie da parte della generazione più connessa, la cosiddetta generazione dei Millennials, definita in questo studio come i nati tra il 1977 e il 1995, che hanno grande familiarità con i media e le tecnologie digitali. Quando si tratta di fiducia, si legge dal rapporto, i Millennials scelgono quasi sempre fonti provenienti dai loro pari.
Gli user generated content (Ugc) sono contenuti mediali sviluppati dagli utenti. Possiamo includere in questa categoria gli aggiornamenti di stato sui social network, i post sui blog, i video su Youtube autoprodotti, le recensioni dei ristoranti, in pratica qualsiasi contenuto pensato e pubblicato da utenti non professionisti, spinti da nessuna specifica motivazione professionale se non quella di offrire la propria opinione nel vasto, e affollato panorama delle opinioni esistenti. Secondo lo studio della Ipsos e di Crowdtap i Millennials si fidano di questo tipo di contenuti al pari delle recensioni dei professionisti o dei contenuti più professionali.
Nello specifico circa la metà dei Millennials si fida delle informazioni che trovano sulle reti sociali (50%) e sui blog e bacheche (48%) a seguire su siti web (49%). Gli user generated content sono anche il 20% più influenti quando si tratta dei consigli d’acquisto e il 35% più incisivi rispetto ad altri tipi di supporti. Il fatto che i Millennials trascorrano più di cinque ore al giorno con questi contenuti chiarisce ulteriormente il quadro.
Via Tech Economy
Il processo di acquisto del consumatore è appare lineare e sempre più diversificato: ci si informa online e si acquista offline ma, al tempo stesso, si fa largo l’abitudine di cercare informazioni mentre si è nel punto vendita o di toccare con mano il prodotto in negozio per poi cercare online il prezzo migliore. L’87% dei consumatori in Italia compera in negozio dopo essersi documentato in rete. 7 su 10 invece, provano il prodotto in store prima di finalizzare l’acquisto online. Facebook e YouTube tra i social con il maggiore potere di influenza sui consumatori del Belpaese. È questo, in sintesi, quanto emerge dalla nuova edizione di Connected Commerce: A Snapshot of the Modern Shopper, una ricerca condotta da DigitasLBi in Belgio, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Singapore, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti, per tratteggiare il comportamento d’acquisto dei consumatori.
“Il potenziale di smartphone e tablet sta rendendo sempre più labili i confini tra lo shopping tradizionale e il mondo dell’online – afferma Carol Pesenti, head of Italy and Spain di DigitasLBi – e se da un paio d’anni si è diffusa tra i consumatori la tendenza Ropo (research online purchase offline, l’abitudine a documentarsi in rete su un prodotto prima di acquistarlo fisicamente in negozio), ora si assiste alla nascita di un fenomeno inverso, lo showrooming: visitare, cioè, il negozio per toccare dal vivo la merce e procedere con l’acquisto online, magari ad un prezzo più contenuto”.
“La diffusione su vasta scala di dispositivi mobile sempre più smart – afferma Gianfranco Pocecai, cto West Europe di DigitasLBi – sta letteralmente rivoluzionando non solo l’esperienza d’acquisto del singolo consumatore, ma anche il mondo del retail a livello globale. Si stanno delineando nuovi scenari per negozi e store che devono ripensarsi, adeguandosi ad un mondo sempre più digitale se vogliono mantenere la propria competitività sul mercato. Ma si fanno avanti anche nuove dinamiche per il consumatore, sempre più combattuto tra un’esperienza d’acquisto digitale e il negozio offline”.
Via Quo Media
“The marketing future belongs to just two groups: technicians and magicians.” Sir Martin Sorrell
Sì, le due cose che cito nel titolo, i dati e l’experience, c’entrano eccome gli uni con l’altra. In un suo recente e-book Scott Brinker dice con grande chiarezza che la celebrata coppia art & copy è fondamentale anche oggi, anzi lo è di più per creare l’esperienza e lo storytelling ma che “in a digital world, art and copy must be augmented by code and data“.
Non abbiamo mai avuto così tante informazioni a disposizione come oggi e nemmeno così tanti strumenti di marketing che permettono di interagire, relazionarsi, ascoltare le persone, al punto che il marketing ha superato l’IT nella spesa per il software. Eppure, c’è ancora una diffidenza diffusa nei confronti degli automatismi e del dato, “roba da tecnici” si dice, e poi il digitale è “un mondo a sé stante, fatto di gente che smanetta”. Mi piace contrapporre a questa visione una frase di Clive Sirkin, CMO of Kimberly-Clark: “We don’t believe in digital marketing. We believe in marketing in a digital world, and there’s a huge difference“.
Il digitale quindi è uno strumento (permeante) per fare business, non il business in sé, e di tutti questi dati bisogna fare un uso intelligente per prendere decisioni velocemente e mettere al centro il cliente, cosa che non si può pensare di fare senza dei processi automatici di marketing. Amazon ci ha insegnato che la strada è offrire sempre la proposta (e quindi l’esperienza) giusta al momento giusto e quasi metà dei top retailer online lavora sulla personalizzazione dell’e-commerce. Tutti trends che si stanno allargando ad un’esperienza offline e multicanale. Leggete anche qui quali sono per Forrester i top trend del CRM 2014. Strategia e dato, marketing e tecnologia.
Oggi poi gli strumenti di visualizzazione del dato e i software che permettono di programmare delle azioni derivanti da queste analisi sono diventati sempre più grafici, intuitivi e semplici da usare.
Il marketing dunque torna ad essere una scienza di dati e strategia, non solo comunicazione, e allora è ovvio che se non tutti coloro se ne occupano devono diventare degli esperti di tecnologia è altrettanto vero che la capacità di cavalcare il nuovo paradigma data driven è indispensabile anche perandare al cuore della customer experience, un terreno emozionale che si prepara su solide basi razionali e che oggi viene indicata come il nuovo business benchmark.
Voi che cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Ti seguo e t’inseguo: il #SocialCare si fa «mobile». Ecco uno tra i risultati più sorprendenti del «Social Customer Engagement Index 2014», appena pubblicato da Social Media Today. Il 49,9% dei Brand interpellati conferma di “ingaggiare” i clienti per attività di Social Caring attraverso piattaforme mobili e di realizzare regolarmente Customer Care via mobile.
Social careUna crescita che lo studio condotto da Brent Leary, con la collaborazione di Paul Greenberg, sull’«uso e l’efficacia degli strumenti social per il Customer Service» definisce «drammatica» rispetto all’anno precedente, quando il livello di coinvolgimento si fermava al 38,1%. Un dato che deve far riflettere anche da noi. È necessario e ormai imprescindibile effettuare Customer Care online tramite le piattaforme consuete, quali Facebook, Twitter e altri social “emergenti”: ma queste piattaforme stesse, per prime, stanno evolvendo. L’accesso a Facebook si svolge prevalentemente da Mobile App: proprio di qualche giorno fa è l’annuncio che oltre un miliardo di utenti accede al social network da dispositivi mobili. Inevitabile così che il cliente “corra”: che chieda assistenza non solo quando è a casa la mattina, prima di andare in ufficio, o la sera al ritorno, o ancora quando è comodamente seduto alla scrivania e si accorge di un problema inatteso: bensì piuttosto quando è in giro, in macchina, in fila alla posta o alla banca, a far la spesa e in attesa alla cassa. Il cliente si muove. E l’azienda deve muoversi con lui: evolvere contestualmente all’evolversi della richiesta. Il cliente è al centro: il Brand, chiamato a seguirlo, se non vuole perderlo deve convincersi e piegarsi a inseguirlo.
Se il 62,5% delle compagnie che investono oltre 250.000 dollari l’anno nel #SocialCare offrono già il servizio via mobile device e il 73% di chi si dice «soddisfatto» del Social Customer Care delle aziende con cui è in contatto specifica che queste offrono assistenza via mobile, vero è che ancora molto alta resta la percentuale di chi deve mettersi al passo coi tempi. Siamo al 34,5%: se la metà o quasi delle compagnie ha intrapreso la strada del cambiamento, oltre 1 su 3 deve aggiornarsi.
Come? Lavorando anzitutto sul proprio mobile website, gettonato dal 51,8% delle compagnie per fornire assistenza in mobilità. Ma anche sulle App per smartphone (usate nel 36,3% dei casi) e per tablet (23,4%). Proprio in App realizzate appositamente per il SelfCare dichiara di voler impegnarsi a investire il prossimo anno il 31,7% delle aziende interpellate, rispetto a un 19,6% che si dedicherà invece al Mobile Self-Service, un 18,9% impegnato su Chat Live via mobile, un 16,7% che si indirizzerà sul «Click-To-Call» e un 12,9% focalizzato su forum accessibili in mobilità.
Resta però un pesante 32,2% che ammette di non volere o non poter impegnarsi a breve in nessuna di queste attività. Il problema maggiore? L’allocazione delle risorse per il 42,3% dei Brand: accanto però – attenzione – per il 29,6% alla «accettazione» della riorganizzazione aziendale che il Social Care impone. Non si tratta insomma solo di un problema di budget: nel 2012 la percentuale di chi individuava la maggior difficoltà nel reperimento risorse era ben più alta, al 48,2%. In un anno chi voleva trovare i soldi li sta trovando: il problema vero resta la persuasione del management, che ancora fatica a convincersi della necessità, dell’urgenza di una riprogettazione della struttura aziendale alla luce di un Customer Care che si faccia online, di un’evoluzione social del DNA del Brand. Anche perché a sfuggire, e con ciò a frenare, è il possibile ROI: il guadagno, il ritorno sul business. Ostacolo, questo, evidenziato dal 26,1%.
E dire che è chiaro ormai il principio: «Vuoi vendere? Aiuta». Gli affari oggi si fanno solo essendo utili, guadagnando credibilità, recuperando affidabilità. Ponendo in opera la «Youtility», un «marketing così utile che la gente sarà felice di pagare», costruito sullo «Help», sull’aiuto, non sull’«Hype», lo strillo pubblicitario. Un “marketing del volontariato” – un “egoismo altruista”, altruismo egoista – che «assiste comunicando, comunica assistendo»: che «ascolta, poi risponde», fermandosi a comprendere l’altro – il cliente – prima di agire.
Uno stop quanto mai complesso da realizzare la prima volta: richiede l’accettazione di una svolta, della sfida dell’innovazione, di una trasfigurazione della propria natura che non è mai indolore. Mettere in gioco il cuore, vestirsi di dedizione e spirito di servizio, per cambiare come cambiano i tempi, non è cosa che si realizza dall’oggi al domani. Reclama una “con-versione”, un mutamento di rotta in animo e spirito che, oltre a realizzarsi nelle coscienze dei singoli, deve nel concreto essere accompagnato e favorito da un’adeguata gestione delle risorse, del capitale umano presente in un’azienda: risorse che anzitutto internamente devono collegarsi, per capire poi come ci si collega, come ci si connette a livello globale nella sharing economy entro cui viviamo.
Rimettersi in gioco è quanto sarà richiesto anche nella scelta pratica delle piattaforme su cui porre in opera le proprie attività di Social Caring. Se Facebook e Twitter, come è evidente, non possono non essere presidiati – e tuttora veicolano il traffico maggiore – emergono però prepotentemente altre realtà come Instagram e YouTube, Google+, LinkedIn e Pinterest: molte delle quali utilizzate soprattutto via mobile. E non ci vorrà molto per vedere la scalata di piattaforme come WhatsApp o la concorrente WeChat: sempre più in voga, tanto da competere ormai col gigante di Zuckerberg per numero di utenti attivi. L’assistenza viaggerà presto (anche) via instant messaging: se ti seguo, devo “inseguirti”, cliente, ovunque tu vada, in mobilità. Un messaggino ci salverà: se non ci faremo trovare impreparati.
Via Tech Economy
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