Lo scontro è titanico. Da una parte i grandi colossi dell’editoria, Vogue in primis. Dall’altra le nuove leve digitali, i web influencer che catalizzano migliaia di follower e un’attenzione crescente da parte del mondo della moda. In mezzo, posta in gioco del duello, l’attenzione da parte dei marchi di moda, che si traduce in allocazione dei budget pubblicitari. La polemica tra Vogue Us e gli influencer che ha catalizzato la rete e la carta stampata a settembre è stato l’ultimo elemento che ha scoperchiato il vaso di Pandora di uno scontro in atto da tempo. Cosa è cambiato rispetto al passato? Gli investimenti in adv. Che spesso si sono ridotti nei confronti dei media tradizionali a favore dei blogger. Tanto che il confronto tra Davide-web e Golia-magazine, valido fino a qualche tempo fa, oggi sembra riequilibrato. Se non invertito.
BLOGGER A PESO D’ORO
A tracciare l’ascesa del fenomeno (e dei cachet) delle star del web è la Digital brand architects, agenzia di consulenza e management di talenti digitali. “Abbiamo cominciato questo business quattro anni fa – ha raccontato a Pambianco Magazine Alessandra De Siena, partner dell’agenzia The Digital brand architects -. Allora, quando andavamo dalle aziende proponendo progetti di comunicazione legati agli influencer, le aziende ci rispondevano: ‘Preferiamo farlo gratis’. In questi ultimi anni e, soprattutto, nell’ultimo posso dire che è cambiata radicalmente la disponibilità della moda in questo senso. Non solo allocano budget pubblicitari per progetti speciali, ma estendono l’investimento per l’intero anno”. Il risultato di questa evoluzione è semplice. “Se prima si parlava di 20 o 30mila euro di investimenti da parte delle aziende nel digital, ora a questo valore occorre aggiungere uno zero in più – ha proseguito De Siena -. Per una pubblicazione su Instagram si va dai duemila ai 15mila euro in Italia a seconda di parametri, nonché della disponibilità delle web influencer. Capita che siano loro stesse a rifiutare l’offerta per mantenere una linea editoriale coerente”. L’aumento esponenziale di questo valore conferma l’interesse, da parte delle aziende di moda, nella politica digital, tanto che alcune di queste hanno già modificato la loro strategia destinando il 70% degli investimenti a campagne digital che, spesso, garantiscono un feedback istataneo e un sold out della collezione proposta. Poche aziende, però, accettano di scoprire le carte. Contattati da Pambianco Magazine, alcuni dei brand internazionali più coinvolti nell’uso degli influencer per le proprie campagne adv, da Calvin Klein a Tommy Hilfigerfino a Gucci, hanno declinato ogni commento sulla loro strategia digitale. Lo stesso ha fatto Ovs che, in occasione del lancio di una piattaforma di proximity marketing digital, ha ingaggiato una influencer come testimonial. Il no comment sembra tradire un certo nervosismo da parte degli addetti al settore, in attesa che si diradi la nebbia sull’argomento. Per Gabriele Maggio, direttore generale di Moschino, ci può essere convivenza tra i diversi media, “senza pestarsi i piedi ed essere considerati dalle aziende due canali complementari e non sovrapposti”. “Accanto alla classica comunicazione offline – ha aggiunto – i marchi oggi cercano di avvalersi della popolarità dei web influencer sui social per raggiungere un pubblico più ampio e trasversale, che solitamente non legge le riviste di moda”.
GIORNALI A CACCIA DI IDENTITÀ
Quale sarà il destino dell’editoria di fronte alla rivoluzione digitale (e delle nuove generazioni)? I soggetti coinvolti sembrano reagire in ordine sparso. Se Oltreoceano Vogue ha alzato gli scudi e si è preparata allo scontro, in Italia, Grazia, il mensile del gruppo Mondadori, ha invece teso la mano al ‘nuovo che avanza’, dedicando la prima mostra sui nuovi protagonisti del digitale. “L’esposizione ‘You-the digital fashion revolution’ racconta i dieci anni che hanno cambiato la moda”, ha spiegato a Pambianco Magazine Silvia Grilli, direttrice di Grazia. “È dal 2008 che si parla di questo fenomeno, non è certo una novità. E non penso ci sia spazio per uno scontro perché editoria tradizionale e web influencer sono la voce di due progetti diversi con due pubblici diversi. Per intenderci – ha aggiunto – con loro il lettore stringe un patto di partecipazione. Oggi ti seguo, ma domani potrei esserci io al tuo posto. Con i giornali invece è diverso: ti reputo affidabile e ti compro. Questi giovani non ci rubano il mestiere perché per molti di loro l’aspirazione principale è ottenere la copertina del giornale”. Un recente articolo del Guardian dipinge però una situazione diversa. Secondo il quotidiano britannico, gli editori stanno diversificando da tempo il loro business per far fronte alla crisi di questo settore e all’inesorabile calo delle copie e della pubblicità. Uno degli sbocchi più interessanti sembra quello dell’e-commerce. Non è un caso che Condè Nast abbia messo sul piatto 75 milioni di sterline per lanciare il suo business e-tail Style.com. Il funzionamento ruota attorno a una formula in via di perfezionamento: in alcuni articoli di prodotto delle testate del gruppo Condé Nast saranno presenti dei link di reindirizzamento alla piattaforma e-commerce. In Italia, Grazia è stato tra i primi a mettere un piede nell’e-commerce, ma con esiti non così definiti. Nel 2014 ha lanciato Graziashop.com, ma a luglio di quest’anno ha fatto un passo indietro. Niente più e-commerce diretto, ma un aggregatore di prodotti di alcune boutique, acquistabili poi nei rispettivi siti di e-commerce dei retailer o dei brand. Zeno Pellizzari, general manager di Mondadori International Business ha commentato così al Guardianla decisione: il mercato del fahsion e-tail “è altamente competivito e sono necessari ingenti investimenti per affrontarlo”. Come dire, trasformarsi da editori a venditori non sarà un passo per tutti.
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Pambianconews