Provenendo da una lunga carriera come pubblicitario, naturale che il tema m’interessi, molto. E ogni tanto ne scriva.
Anche perché regolarmente mi capita di imbattermi in opinionisti che predicano la fine di questa disciplina, sorpassata dalle magnifiche sorti del social/digitale.
Un digitale, mi permetto di aggiungere, che ancora raggiunge poco più di una metà degli italiani. E che quindi è inutile per comunicare con l’altra metà. Sulla metà che c’è, ci sono da fare un po’ di distinguo.
La parte più visibile e glorificata dell’utenza è quella che spinge l’innovazione nei modi di rapportarsi socialmente col prossimo, di relazionarsi con marche e prodotti. L’italiano 2.0, se volete.
Ma facendo un giro in Rete in occasione di eventi nazional popolari, ascoltando quella maggioranza che normalmente interagisce poco, scopriremo un’Italia (ovvio, dati i tempi dei movimenti culturali epocali) ancora parecchio 1.0. Specialmente al di sopra di una certa età. Su questa fascia di utenza, tanti dei discorsi che leggiamo non si applicano molto. Non basta comprare ogni tanto i biglietti per le vacanze online per essere dei veri e propri digitali.
Niente push, non facciamoci notare
Potremmo tentare di farli interagire con iniziative social, aprendo per esempio una nuova pagina Facebook; ma come farlo sapere? Non a caso ormai sappiamo che la maniera migliore per lanciare un’iniziativa social è quello di fargli un po’ di pubblicità. Così facciamo della metacomunicazione, pubblicizziamo una nostra forma di comunicazione commerciale… ma ormai il mondo funziona così.
Non possiamo poi negare il fatto che uno spot potente possa arrestarci, emozionarci, farci di botto pensare, prendere coscienza. Possa convertirci a una causa sociale, farci cambiare idea su un prodotto, con una potenza emozionale che spesso il digitale si sogna.
Ma nemmeno sorvolare su un altro fatto: che la pubblicità è più superficiale del digitale, che non è un buon strumento per dare informazione e approfondimento e che non è una verità indipendente essendo pagata da una parte in causa.
Ci sono alternative?
Potremmo tentare di farli interagire con iniziative social, aprendo per esempio una nuova pagina Facebook; ma come farlo sapere? Non a caso ormai sappiamo che la maniera migliore per lanciare un’iniziativa social è quello di fargli un po’ di pubblicità. Così facciamo della metacomunicazione, pubblicizziamo una nostra forma di comunicazione commerciale… ma ormai il mondo funziona così.
Non possiamo poi negare il fatto che uno spot potente possa arrestarci, emozionarci, farci di botto pensare, prendere coscienza. Possa convertirci a una causa sociale, farci cambiare idea su un prodotto, con una potenza emozionale che spesso il digitale si sogna.
Ma nemmeno sorvolare su un altro fatto: che la pubblicità è più superficiale del digitale, che non è un buon strumento per dare informazione e approfondimento e che non è una verità indipendente essendo pagata da una parte in causa.
Quello che cambia è prendersi i rischi
La vera differenza è che la pubblicità è sempre (o quasi) stata fatta facendo attenzione a non rischiare troppo, prioritario non fare un autogol. Mentre online il perbenino non buca, non se lo fila nessuno, non interessa e non funziona. Ma soprattutto quello che conta è avere un’idea. Senza di quella, ne’ la pubblicità ne’ i social cosi funzioneranno mai.
Via Tech Economy