Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Il marketing attraverso la posta elettronica sarà, per il 60% degli esperti aziendali, la leva di stimolo al mercato più importante per il 2012. E’ quanto emerge da una ricerca svolta da StrongMail in collaborazione con Zoomerang. Dai dati della survey emerge che gli intervistati prevedono di aumentare i loro bilanci attraverso i social media (55%), più che grazie al marketing attraverso i cellulari (37%).
Al contrario, pochi dirigenti prevedono di aumentare la loro spesa su direct mail (18%), fiere ed eventi (18%), o sulle pr (16%). Nel complesso, poco più della metà degli intervistati (51%) prevedono di aumentare il loro budget 2012 dedicato al marketing, mentre solo l'8% pensa a una diminuzione. Secondi i responsabili della comunicazione aziendale, risulta importante e centrale anche l’integrazione tra due metodologie di promozione: principalmente tra social media e e-mail (24%), rispetto alla posta elettronica unita alla comunicazione mobile (13%).
Via Quo Media
Mentre per la prima volta tra gli inserzionisti pubblicitari americani la spesa in advertising on line ha superato quella sulla carta stampata, negli Stati Uniti ci si interroga su quanto dovrebbero durare gli spot pubblicitari sulle piattaforme di video sharing più utilizzate sul Web, affinché abbiano efficacia e siano apprezzati dai consumatori on line. Questione all’ordine del giorno, considerando la proliferazione di spot commerciali su YouTube, sia quelli che precedono i video – introdotti già nel 2008 – sia quelli visualizzati durante i video stessi, inseriti più di recente.
Per dare efficacia alla propria campagna pubblicitaria su YouTube, gli spot video non dovrebbero superare i circa 15 secondi. A rivelarlo è Poll Position, società leader per la proposta di questionari e sondaggi on line che riguardano il mondo del business e non solo, in seguito a un’indagine telefonica che ha coinvolto circa 1.100 consumatori americani.
Secondo i dati pubblicati da Poll Position, difatti, più della metà degli intervistati – il 54% dei consumatori d’oltreoceano coinvolti nell’indagine – ritengono “accettabile” uno spot pubblicitario di massimo 15 secondi, prima di vedere i video o nel corso dei contenuti multimediali ricercati sulle piattaforme di video sharing, YouTube in primo piano. Al contrario, soltanto il 12% degli utenti raggiunti dalla società di ricerca sarebbe disposto a fruire spot pubblicitari anche di 30 secondi, mentre il 3% degli intervistati accetterebbe anche di vedere video commerciali superiori a un minuto.
Dunque, se come rivelato da eMarketer qualche giorno fa gli inserzionisti pubblicitari si stanno avvicinando in modo sempre più deciso al Web e ai suoi strumenti – con le piattaforme video e multimediali che stanno ricoprendo un ruolo importante – le campagne pubblicitarie, gli spot video e i messaggi commerciali veicolati dovranno essere brevi, immediati e poco invasivi.
Via Tech Economy
La Internet economy fondata su smartphone, tablet, app, social network, video online e connected tv apre uno spiraglio di luce in un momento di crisi dei media tradizionali.
Secondo la ricerca presentata questa mattina dall’Osservatorio new media & new Internet della School of Management del Politecnico di Milano, raddoppia la pubblicità sui social network (che in Italia contano quasi 24 milioni di utenti) e crescono del 130% i ricavi generati dalle app.
Segno positivo anche per la pubblicità sui video online che registra un aumento dell’80%. Il 73% dei navigatori italiani – quasi 20 milioni – fruisce di contenuti video online e spende mediamente 1 ora e 12 minuti al mese, il 2,5% del tempo totale trascorso sul web contro il 6% degli utenti americani.
Crescono sul fronte advertising le new tv (del 23%) ma cala la raccolta pubblicitaria delle tv tradizionali (8%) e di stampa e radio (di oltre il 5%).
In aumento la raccolta pubblicitaria su smartphone e tablet, rispettivamente del 70% e del 110%. La possibilità di vendere contenuti in una logica multi-piattaforma sta facilitando lo sviluppo dei ricavi pay nel mondo del nuovo Internet, secondo lo studio.
“La sfida che le media company si trovano di fronte è estremamente complessa. Molteplici sono i cambiamenti organizzativi e culturali che gli editori devono affrontare”, secondo Giovanni Toletti, responsabile della ricerca che indica una ricetta sintetizzabile in cinque punti.
“Maggiore integrazione strategica e organizzativa, maggior focus sul consumatore digitale e sulla sua user experience multicanale, nuove competenze e rete di collaborazioni, diverso approccio al mercato e più creatività nello sviluppo di prodotti e servizi”.
via Tech Economy
Al di là dell'oceano si scrivono fiumi di parole sul tema: “il servizio clienti è il nuovo marketing?” Noi siamo ancora distanti da questo concetto; ciò che ci accomuna è il declino della qualità nel gestirlo; la differenza fondamentale è che negli USA si sono posti il problema e cercano soluzioni, il che significa che forse tra dieci anni lo faremo anche noi, se non sarà troppo tardi.
In un articolo di Customer Management IQ troviamo alcune riflessioni sui danni procurati dal declino della qualità che si adattano perfettamente anche alla nostra realtà. Vediamole.
La relazione con il cliente: la linfa vitale dei Call Center e, in definitiva, di tutte le Società.
Nel corso degli ultimi dieci anni il settore Call Center si è trasformato, perdendo di vista la naturale focalizzazione sul “servizio al cliente” e sulla sua soddisfazione.
L'attenzione ossessiva per il profitto immediato ha portato molte grandi società ad affidare a call center off-shore il customer service anche per il supporto tecnico, inducendo molte altre aziende a seguirne l'esempio.
Non sorprende che si sia registrata una flessione repentina nel grado di soddisfazione e fidelizzazione dei clienti ed un frenetico turnover dei dipendenti del call center.
Un sondaggio condotto da Opinion Research indica che la propensione all'acquisto degli americani scende al 69% dopo una brutta esperienza con il call center, mentre -secondo un rapporto di Aspect Index- le probabilità aumentano del 33% dopo una esperienza positiva.
Così, sebbene tutti capiscano quanto sia importante avere clienti soddisfatti, molte società hanno delegato questa responsabilità all'agenzia che offre il prezzo più basso, spesso all'estero, con operatori mal pagati e poco preparati, causando una drastica riduzione della fidelizzazione.
Il 21 ° secolo ha bisogno di un nuovo modello di call center incentrato sul cliente, non sui costi di vendita e del servizio. Bisogna tornare a focalizzarsi sul valore e porsi come obiettivo finale la completa soddisfazione: il cliente entusiasta e fedele genera altri clienti tramite il passaparola e alla fine questo processo virtuoso produce maggiori ricavi.
Il costo sembra essere per molte aziende la chiave di volta e alcuni call center in outsourcing possono contribuire a ridurlo, ma il richiamo delle sirene del profitto immediato mette in secondo piano l'alto rischio di insoddisfazione del cliente, il che è inevitabile a causa di barriere linguistiche, allungamento dei tempi di chiamata, problemi di comprensione; in aggiunta, vi è una mancanza di contesto culturale. Tutto ciò abbatte drasticamente la produttività del call center, che in soldoni oscilla tra il 39 e il 105%.
In sintesi, ciò che occorre è rivalutare e reinventare il Call Center per rimettere il Cliente al centro.
Il Call center manager deve sviluppare e implementare un modello di gestione strategica della forza lavoro che utilizzi risorse umane disponibili sul territorio (studenti, pensionati, disoccupati, invalidi e diversamente abili). Dobbiamo assumerci la responsabilità di andare oltre al profitto immediato e fornire istruzione, formazione e lavoro ai call center nazionali.
Il settore deve cambiare e migliorare il livello del customer service e del supporto tecnico in modo che le persone siano soddisfatte del contatto. Dobbiamo offrire una qualità che risponda alle aspettative e al contesto culturale dei clienti, che li trasformerà non solo in fedeli consumatori ma in promotori. Questo nuovo modello produce grandi benefici: attrae e mantiene i clienti, sviluppa la fedeltà e attraverso il valore aggiunto e stimola l'identificazione con il brand.
Dobbiamo reinventare il Call Center, fornire assistenza in modo più efficace, nel rispetto della risorsa più importante del cliente: il tempo.
Sulla base delle esperienze fatte nella metropolitana di Seul, Tesco rilancia all'aeroporto londinese di Gatwick il concetto del poster che in realtà è un supermercato - perché permette di fare la spesa e vedersela recapitata a casa.
Il concetto è quello di un "supermercato virtuale" - mentre si attende il proprio aereo, con lo smartphone si mettono in un carrello virtuale i prodotti, riprendendone i codici a barre.
La consegna sarà a domicilio - e la spesa si può fare in anticipo anche di tre settimane, in modo da tornare dal viaggio e non avere la sindrome da frigorifero (reale) vuoto.
Sono stati attivati quattro poster per i prodotti freschi e sei per quelli a temperatura ambiente...per un totale di un'ottantina di prodotti disponibili.
Il costo dello spazio media in un ambiente così costoso come quello dell'aeroporto, sarà giustificato dai volumi d'affari? E ci sarà un impatto positivo sulle vendite nei PV tradizionali grazie ad un effetto di branding (difficile misurarlo, ma credo che sarà uno dei principali obiettivi del test di due settimane effettuato in Inghilterra...) - considerando che il target è ampio, circa 30.000 persone al giorno che passano di lì...
Più passa il tempo e più lo scenario degli strumenti di marketing e dei punti di contatto con il cliente si fa complesso, veloce e difficile da comprendere in tutte le sue parti.
Molta di questa realtà è fatta da strumenti digitali, per i quali nelle organizzazioni solitamente si prefigura o un’area dedicata o un totale outsourcing, con il rischio però in entrambi i casi di percepire questo settore come un’entità a parte con obiettivi e strategia propria.
Gli analisti di Forrester invece prevedono (almeno per molti paesi) un contesto in cui il digital marketing diventerà semplicemente “marketing” in quanto sarà tutt’uno con gli altri strumenti rispetto al quale si avvia a diventare preminente. Per questo, secondo una ricerca IDC qui ben commentata, a livello internazionale nel 2013 il 50% dei nuovi assunti in area marketing avrà un background tecnico.
immagine tratta ed elaborata da http://venturebeat.com/2012/08/23/the-hot-new-cxo-chief-marketing-technology-officer-infographic/
Al di là degli aspetti organizzativi, di cui già mi sono occupato in passato, che cosa significa tutto questo? Io ho alcune idee.
1) Non si può più confondere il marketing con la sola comunicazione: ci sono dietro sempre più aspetti di analisi, di gestione dei dati, di visione di insieme dell’ecosistema di business (compresi gli strumenti tecnologici che lo fanno girare). Insomma, senza arrivare al big data, non è solo creatività.
2) È sempre più essenziale un’integrazione con le basi dati aziendali e con tutti gli altri strumenti: non è pensabile ancora a lungo che gli strumenti di marketing digitale delle aziende non dialoghino con i sistemi IT (e con i CIO) sia per prendere le informazioni necessarie a comunicare in modo mirato al cliente sia per fornire all’indietro preziosi insight per tutta l’organizzazione. Per non parlare poi della gestione degli asset digitali, ormai cruciale da razionalizzare e padroneggiare.
3) L’attenzione ai particolari non può essere più rivolta solo alla presentazione estetica: ogni dettaglio è fondamentale in un mercato super competitivo e l’attenzione va posta in tutto, compresa la velocità, correttezza ed efficacia delle informazioni e dei processi di marketing, digital e CRM. La “cosmesi” della facciata non può realisticamente nascondere a lungo i limiti di performance.
4) Non si può più temere la tecnologia: è un altro mio cavallo di battaglia, di cui ho già parlato e su cui sono in buona compagnia. Non è necessario essere dei tecnici per diventare delle valide persone di marketing ma altrettanto non si può più fare business senza un minimo di cognizione dei nuovi strumenti, solo perché “non ci capisco nulla”. Direste a un colloquio di lavoro “non ci capisco nulla”?
5) Siamo nell’era della condivisione e della visione di insieme: ci sono tutti i modi di comunicare all’interno delle organizzazione a patto di essere pronti a collaborare. Inoltre, i ruoli sono così fluidi e in divenire che la capacità chiave sta diventando quella di unire i vari elementi, non certo di produrre attività a compartimenti stagni. Ma senza collaborazione è piuttosto difficile.
Si potrebbe continuare ancora ma il punto penso sia chiaro, si spendono tante belle parole sulla teoria di marketing, che ancora assolutamente ci serve, ma ormai non si può ignorare che senza processi, informazioni, tecnologie e pragmatismo non si va da nessuna parte. Leggete un po’ questo decalogo… e poi scrivete i qui i vostri commenti!
Gianluigi Zarantonello via internetmanagerblog.com
Stipulata una nuova partnership tra la nota catena di caffetterie StarBucks e il quotidiano americano New York Times, che permetterà ai clienti di sorseggiare caffè e leggere gratuitamente il giornale. Nelle caffetterie l’accesso al wi-fi è comunemente libero, ma da adesso, a chi si ferma per la colazione, sarà permesso anche sfogliare gratuitamente il New York Times che ha concesso anche ai non abbonati all’app, di leggere 15 articoli al giorno. Normalmente il giornale online americano consente a chi non ha un abbonamento di poter leggere 10 articoli al mese, limite oltre il quale scatta la tassa per il pagamento. Con il wi-fi di Starbucks, accessibile in relatà anche all’esterno dei locali, si potranno leggere tre articoli di cinque sezioni: Top News, Business, Tecnologia e Most E-mailed, ovvero quelli più spediti via e-mail; la quinta è a rotazione: il lunedì, per esempio, si potrà accedere alla sezione Sport, il martedì a quella di Scienza, il sabato agli articoli del Magazine. Yasmin Namini, vicepresidente del marketing del New York Times, ha riferito in relazione all’accordo: “Starbucks è il luogo ideale per valorizzare la nostra offerta digitale”. “I clienti scopriranno una diversa selezione dei contenuti del Times, aggiornati in tempo reale, dalle top stories del giorno agli approfondimenti e alle opinioni” ha aggiunto.
Via Tech Economy
Qualche tempo fa ho avuto il piacere di essere ospite della Adobe Digital Academy a Padova per parlare di digital transformation e insieme ad alcuni colleghi e al pubblico presente abbiamo dato vita a un dibattito molto interessante che mi ha confermato molte delle idee che avevo espresso sul tema qualche giorno prima.
Una cosa mi è apparsa particolarmente evidente: in alcune aree di marketing (digital e non) è piuttosto chiara la percezione del cambio di un paradigma ma si tratta di un argomento estremamente vasto e pervasivo che va a toccare ovunque l’organizzazione. E che dunque non può essere affrontato e gestito solo da un manipolo di innovatori.
Lo scenario d’altra parte è chiaro: come scrive Scott Brinker sul suo blog la tecnologia cambia esponenzialmente mentre le organizzazioni lo fanno in modo logaritmico, ossia molto più lentamente. Un fatto comune probabilmente ma che non è da vedere in modo deterministico e irrimediabile.
Il punto però allora diventa: chi è che decide veramente sulla digital transformation? Se lo chiede anche Gartner. Di certo è necessario il committment dei vertici aziendali ma mio avviso questo non basta perché il cambiamento non può essere solo imposto ma deve essere adottato.
Prendiamo i 5 pilastri per il futuro che Brian Solis individua in suo recente lavoro:
1. Vision and leadership 2. Engaged customers 3. Empowered employees 4. Collaborative innovation 5. Internal agility in processes, systems, and decision making
In questi punti c’è tanto il vertice quanto il corpo dell’organizzazione e dunque, di nuovo, è impensabile che tale e tanta trasformazione possa avere successo se vissuta e gestita da un manipolo di digital marketers o di persone di IT.
Di certo poi non è solo un fatto di tecnologia, mezzi come il mobile e il cloud hanno cambiato il modo di lavorare in termini potenziali ma alla fine, come recita la legge di Conway, “any piece of software reflects the organizational structure that produced it“.
In positivo e in negativo.
Io credo che quindi oggi sia quanto mai necessario avere delle figure in azienda che abbiano il know tecnico per capire le nuove opportunità ma anche la capacità di raccogliere i bisogni delle persone che fanno parte dell’organizzazione per metterli a fattore comune con la strategia complessiva. Tali figure devono avere l’autorità per influire davvero sui processi e sulla mentalità e il tempo di lavorare a stretto contatto con tutte le aree interne per farsi portatrici del cambiamento.
Talvolta le organizzazioni hanno paura di semplificare ma in realtà è solo andando a risolvere gli aspetti organizzativi e motivando le persone a migliorare tramite la collaborazione e l’innovazione che si può poi essere pronti alle nuove sfide. Compreso il marketing integrato.
Voi che cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Ho scritto tante volte che quando si parla di digitale si tende a dimenticare il quadro strategico e si precipita nella tattica. Ho anche detto altrettante volte che il marketing ormai è digitale e che tutti quelli che se ne occupano non posso più temere la tecnologia ma devono invece saperla sfruttare con abilità senza diventare dei puri tecnici.
Una delle conseguenze di questi due temi irrisolti è che oggi si tende a pensare ai mercati e ai consumatori come a qualcosa di totalmente altro da 20 anni fa ed alle attività di marketing come lontane dalle teorie che hanno fondato la disciplina. Questo è vero nei modi ma non nei concetti, perché il marketing si occupa sempre di soddisfare bisogni, solo che non lo fa più per grandi gruppi omogenei di persone ma per individui informati, connessi e con aspettative differenziate. Ma che chiedono pur sempre di soddisfare delle necessità, esplicite o latenti.
La classica piramide di Maslow
I video online soddisfano infatti il bisogno di intrattenimento, le foto digitali quelle di documentare ricordi ed emozioni, gli smartphone e i social media quello di comunicare e tenersi in contatto e così via. Con le statistiche alla mano, gli esempi non mancano anche per i settori non prettamente tecnologici: il 43% degli italiani usa le nuove tecnologie per soddisfare il bisogno di informazioni sulle aziende, per quello di risparmiare tempo compiendo certe operazioni da casa (es. Il 30% di uso di home banking) o per quello di avere più scelta con gli acquisti online (24,4%).
Il primo grande errore dunque, legato al mancato utilizzo di una metodologia tipo quella POST, è di scambiare il bisogno da soddisfare con la tecnologia che utilizziamo, scegliendo un mezzo perché alla moda senza considerare le persone cui ci rivolgiamo e senza un obiettivo.
A rovescio poi molti grandi player sono caduti negli ultimi anni perché ciò che loro offrivano ai proprio clienti non era uno strumento ma il soddisfacimento bisogno che vi stava dietro, che è stato esaudito in modo migliore e diverso da terze parti, rispondendo però alla stessa richiesta del consumatore. Blockbuster, Kodak, BlackBerry, Nokia sono solo alcuni nomi della lunga lista che si potrebbe stilare.
La seconda grande opportunità che viene spesso perduta è poi quella di usare i nuovi strumenti digitali per ascoltare prima che per comunicare. Si tratta di un retaggio del marketing push, questo sì superato, basato su di una spinta unidirezionale dell’azienda verso i potenziali target. Il vero valore che giustifica le quotazioni miliardarie dei social media o dell’ecosistema di Google è invece data dalla montagna di dati che le persone ogni giorno mettono a disposizione dei brand sulla rete, spontaneamente. C’è per questo chi parla di figure come il Chief Data Officer e chi calcola in oltre 300 miliardi di dollari il costo di un cattivo customer service che invece da questo ascolto può trarre grande forza.
Qui il problema vero diventa filtrare il rumore di fondo, certo, ma quante realtà anche importanti si prendono davvero la briga di provare a capire che cosa le persone stiano chiedendo a loro e al mercato, senza trovare risposte? Nella maggior parte dei casi i brand si buttano anche loro nella mischia, partendo da ciò che credono unilateralmente e aumentando il rumore. Qui i dati tratti dal rapporto The State of Social Business di Altimeter Group.
A questi dati di fatto corrisponde senza dubbio un aumento della complessità e della velocità che non ha avuto probabilmente eguali negli ultimi anni, e che pone delle sfide che Chris Heuer, CEO di Alynd riassume così in un suo guest post: “The market leaders in the 21st century will need to focus on modernizing talent management, operational systems and organizational models for a fully connected society, where the social physics are fundamentally different than the one we lived in just over a decade ago. [...] This is compounded by a need for the organizations be more agile, so that they may respond in real time to both opportunities and threats, and to empower employees to serve as authentic ambassadors of their brands in both situations”.
Questo vuol dire dunque muoversi guardando sempre di più al cliente, visto che come scrive Rita Gunther McGrath le barriere all’ingresso della teoria del vantaggio competitivo sono sempre più labili e che i mercati sono delle arene dove si possono conquistare degli spazi anche fuori dai tradizionali confini del proprio business.
Questo può essere aiutato in modo dirompente dalla tecnologia, che secondo lo studio di IBM “The Customer-activated Enterprise” è diventata la priorità anche per i CEO. Ma se si confonde la tecnologia con il mercato si rischia di non essere rilevanti e di dimenticare che la missione del marketing è di essere significativamente differenti per essere scelti.
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
I consumatori sono disposti a condividere i propri dati personali con i rivenditori, soprattutto se ricevono qualcosa in cambio. A rivelarlo un nuovo studio di IBM, condotto su oltre 30.000 consumatori a livello mondiale e pubblicato in occasione dell’edizione 2014 della National Retail Federation.
La percentuale di consumatori disposti a condividere la loro posizione con i rivenditori via GPS, ad esempio, è quasi raddoppiata anno su anno, toccando il 36%. Il 32% dei consumatori condividerebbe i propri dati “social” con i rivenditori e il 22% fornirebbe il proprio numero di cellulare allo scopo di ricevere sms. Questo perchè “Il consumatore è abituato ormai in molti settori – dall’assistenza sanitaria ai viaggi – a ricevere interazioni personalizzate attraverso diversi canali”, spiega Jill Puleri, IBM Retail Global Industry Leader. “Lo studio IBM dimostra che i consumatori sono disposti a condividere i dati che li riguardano, in particolare se ricevono in cambio un’esperienza personalizzata. È indispensabile che i rivenditori mettano in atto una strategia Big Data e l’analytics in grado di assicurare un saggio utilizzo delle informazioni dei consumatori, che consenta di conquistane la fiducia ed in cambio permetta di fornire loro dei vantaggi”.
showroomingIbm spiega che anche se le vendite omnicanale, ovvero la prassi di fornire ai consumatori un’esperienza connessa e personalizzata attraverso i canali online, il mobile commerce e il negozio tradizionale, sono l’obiettivo dichiarato di quasi ogni rivenditore, i consumatori non le richiedono in sé e per sé. Si aspettano semplicemente la possibilità di utilizzare la tecnologia in tutti gli aspetti della loro vita, incluso il modo di fare shopping. Lo studio, infatti, ha riscontrato che le cinque funzionalità più importanti per i consumatori sono: la coerenza dei prezzi tra i vari canali di shopping, la possibilità di ricevere direttamente a casa propria gli articoli esauriti in negozio, la possibilità di monitorare lo stato di un ordine, l’assortimento di prodotti coerente tra i vari canali e, infine, la possibilità di restituire gli acquisti online in negozio.
Lo studio IBM ha rilevato che i consumatori rientrano in quattro gruppi diversi, che si distinguono per il loro interesse e utilizzo delle tecnologie social, di localizzazione e mobile durante lo shopping. Il 19% dei consumatori intervistati resta indietro rispetto alla maggioranza della popolazione quando si tratta di utilizzare la tecnologia per fare acquisti. Un altro 40% di acquirenti si serve delle tecnologie social, di localizzazione e mobile per raccogliere le informazioni, ma tende a non utilizzarle per l’acquisto dei prodotti. Il 29% utilizza le tecnologie social, di localizzazione e mobile molto più diffusamente, dalla ricerca dei prodotti all’ordinazione delle merci. Il 12% dei consumatori intervistati rientra nella categoria degli “apripista”, ossia coloro che usano queste tecnologie tra vari canali e scelgono il rivenditore che offre questa possibilità.
E i dati di vendita confermano la tendenza crescente verso gli acquisti online. Nel 2013 l’84% degli acquirenti intervistati da IBM aveva scelto il negozio per il suo più recente acquisto, se si esclude la comune spesa alimentare. Quest’anno, la cifra è scesa al 72%. In altre parole lo “showrooming”, ossia l’abitudine di vedere e provare gli articoli in negozio ma di acquistarli poi via web, non è alla base di questa crescita delle vendite online. Anche se un maggior numero di intervistati ha fatto “showrooming” quest’anno (l’8% rispetto al 6% dello scorso anno), solo il 30% di tutti gli acquisti online è stato effettivamente frutto di tale pratica – con un calo di quasi il 50% rispetto allo scorso anno. Il 70% degli acquisti online è stato effettuato da persone che si sono rivolte direttamente al web.
Via Tech Economy
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