Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ti seguo e t’inseguo: il #SocialCare si fa «mobile». Ecco uno tra i risultati più sorprendenti del «Social Customer Engagement Index 2014», appena pubblicato da Social Media Today. Il 49,9% dei Brand interpellati conferma di “ingaggiare” i clienti per attività di Social Caring attraverso piattaforme mobili e di realizzare regolarmente Customer Care via mobile.
Social careUna crescita che lo studio condotto da Brent Leary, con la collaborazione di Paul Greenberg, sull’«uso e l’efficacia degli strumenti social per il Customer Service» definisce «drammatica» rispetto all’anno precedente, quando il livello di coinvolgimento si fermava al 38,1%. Un dato che deve far riflettere anche da noi. È necessario e ormai imprescindibile effettuare Customer Care online tramite le piattaforme consuete, quali Facebook, Twitter e altri social “emergenti”: ma queste piattaforme stesse, per prime, stanno evolvendo. L’accesso a Facebook si svolge prevalentemente da Mobile App: proprio di qualche giorno fa è l’annuncio che oltre un miliardo di utenti accede al social network da dispositivi mobili. Inevitabile così che il cliente “corra”: che chieda assistenza non solo quando è a casa la mattina, prima di andare in ufficio, o la sera al ritorno, o ancora quando è comodamente seduto alla scrivania e si accorge di un problema inatteso: bensì piuttosto quando è in giro, in macchina, in fila alla posta o alla banca, a far la spesa e in attesa alla cassa. Il cliente si muove. E l’azienda deve muoversi con lui: evolvere contestualmente all’evolversi della richiesta. Il cliente è al centro: il Brand, chiamato a seguirlo, se non vuole perderlo deve convincersi e piegarsi a inseguirlo.
Se il 62,5% delle compagnie che investono oltre 250.000 dollari l’anno nel #SocialCare offrono già il servizio via mobile device e il 73% di chi si dice «soddisfatto» del Social Customer Care delle aziende con cui è in contatto specifica che queste offrono assistenza via mobile, vero è che ancora molto alta resta la percentuale di chi deve mettersi al passo coi tempi. Siamo al 34,5%: se la metà o quasi delle compagnie ha intrapreso la strada del cambiamento, oltre 1 su 3 deve aggiornarsi.
Come? Lavorando anzitutto sul proprio mobile website, gettonato dal 51,8% delle compagnie per fornire assistenza in mobilità. Ma anche sulle App per smartphone (usate nel 36,3% dei casi) e per tablet (23,4%). Proprio in App realizzate appositamente per il SelfCare dichiara di voler impegnarsi a investire il prossimo anno il 31,7% delle aziende interpellate, rispetto a un 19,6% che si dedicherà invece al Mobile Self-Service, un 18,9% impegnato su Chat Live via mobile, un 16,7% che si indirizzerà sul «Click-To-Call» e un 12,9% focalizzato su forum accessibili in mobilità.
Resta però un pesante 32,2% che ammette di non volere o non poter impegnarsi a breve in nessuna di queste attività. Il problema maggiore? L’allocazione delle risorse per il 42,3% dei Brand: accanto però – attenzione – per il 29,6% alla «accettazione» della riorganizzazione aziendale che il Social Care impone. Non si tratta insomma solo di un problema di budget: nel 2012 la percentuale di chi individuava la maggior difficoltà nel reperimento risorse era ben più alta, al 48,2%. In un anno chi voleva trovare i soldi li sta trovando: il problema vero resta la persuasione del management, che ancora fatica a convincersi della necessità, dell’urgenza di una riprogettazione della struttura aziendale alla luce di un Customer Care che si faccia online, di un’evoluzione social del DNA del Brand. Anche perché a sfuggire, e con ciò a frenare, è il possibile ROI: il guadagno, il ritorno sul business. Ostacolo, questo, evidenziato dal 26,1%.
E dire che è chiaro ormai il principio: «Vuoi vendere? Aiuta». Gli affari oggi si fanno solo essendo utili, guadagnando credibilità, recuperando affidabilità. Ponendo in opera la «Youtility», un «marketing così utile che la gente sarà felice di pagare», costruito sullo «Help», sull’aiuto, non sull’«Hype», lo strillo pubblicitario. Un “marketing del volontariato” – un “egoismo altruista”, altruismo egoista – che «assiste comunicando, comunica assistendo»: che «ascolta, poi risponde», fermandosi a comprendere l’altro – il cliente – prima di agire.
Uno stop quanto mai complesso da realizzare la prima volta: richiede l’accettazione di una svolta, della sfida dell’innovazione, di una trasfigurazione della propria natura che non è mai indolore. Mettere in gioco il cuore, vestirsi di dedizione e spirito di servizio, per cambiare come cambiano i tempi, non è cosa che si realizza dall’oggi al domani. Reclama una “con-versione”, un mutamento di rotta in animo e spirito che, oltre a realizzarsi nelle coscienze dei singoli, deve nel concreto essere accompagnato e favorito da un’adeguata gestione delle risorse, del capitale umano presente in un’azienda: risorse che anzitutto internamente devono collegarsi, per capire poi come ci si collega, come ci si connette a livello globale nella sharing economy entro cui viviamo.
Rimettersi in gioco è quanto sarà richiesto anche nella scelta pratica delle piattaforme su cui porre in opera le proprie attività di Social Caring. Se Facebook e Twitter, come è evidente, non possono non essere presidiati – e tuttora veicolano il traffico maggiore – emergono però prepotentemente altre realtà come Instagram e YouTube, Google+, LinkedIn e Pinterest: molte delle quali utilizzate soprattutto via mobile. E non ci vorrà molto per vedere la scalata di piattaforme come WhatsApp o la concorrente WeChat: sempre più in voga, tanto da competere ormai col gigante di Zuckerberg per numero di utenti attivi. L’assistenza viaggerà presto (anche) via instant messaging: se ti seguo, devo “inseguirti”, cliente, ovunque tu vada, in mobilità. Un messaggino ci salverà: se non ci faremo trovare impreparati.
Via Tech Economy
“The marketing future belongs to just two groups: technicians and magicians.” Sir Martin Sorrell
Sì, le due cose che cito nel titolo, i dati e l’experience, c’entrano eccome gli uni con l’altra. In un suo recente e-book Scott Brinker dice con grande chiarezza che la celebrata coppia art & copy è fondamentale anche oggi, anzi lo è di più per creare l’esperienza e lo storytelling ma che “in a digital world, art and copy must be augmented by code and data“.
Non abbiamo mai avuto così tante informazioni a disposizione come oggi e nemmeno così tanti strumenti di marketing che permettono di interagire, relazionarsi, ascoltare le persone, al punto che il marketing ha superato l’IT nella spesa per il software. Eppure, c’è ancora una diffidenza diffusa nei confronti degli automatismi e del dato, “roba da tecnici” si dice, e poi il digitale è “un mondo a sé stante, fatto di gente che smanetta”. Mi piace contrapporre a questa visione una frase di Clive Sirkin, CMO of Kimberly-Clark: “We don’t believe in digital marketing. We believe in marketing in a digital world, and there’s a huge difference“.
Il digitale quindi è uno strumento (permeante) per fare business, non il business in sé, e di tutti questi dati bisogna fare un uso intelligente per prendere decisioni velocemente e mettere al centro il cliente, cosa che non si può pensare di fare senza dei processi automatici di marketing. Amazon ci ha insegnato che la strada è offrire sempre la proposta (e quindi l’esperienza) giusta al momento giusto e quasi metà dei top retailer online lavora sulla personalizzazione dell’e-commerce. Tutti trends che si stanno allargando ad un’esperienza offline e multicanale. Leggete anche qui quali sono per Forrester i top trend del CRM 2014. Strategia e dato, marketing e tecnologia.
Oggi poi gli strumenti di visualizzazione del dato e i software che permettono di programmare delle azioni derivanti da queste analisi sono diventati sempre più grafici, intuitivi e semplici da usare.
Il marketing dunque torna ad essere una scienza di dati e strategia, non solo comunicazione, e allora è ovvio che se non tutti coloro se ne occupano devono diventare degli esperti di tecnologia è altrettanto vero che la capacità di cavalcare il nuovo paradigma data driven è indispensabile anche perandare al cuore della customer experience, un terreno emozionale che si prepara su solide basi razionali e che oggi viene indicata come il nuovo business benchmark.
Voi che cosa ne pensate?
Gianluigi Zarantonello via Internetmanagerblog.com
Il processo di acquisto del consumatore è appare lineare e sempre più diversificato: ci si informa online e si acquista offline ma, al tempo stesso, si fa largo l’abitudine di cercare informazioni mentre si è nel punto vendita o di toccare con mano il prodotto in negozio per poi cercare online il prezzo migliore. L’87% dei consumatori in Italia compera in negozio dopo essersi documentato in rete. 7 su 10 invece, provano il prodotto in store prima di finalizzare l’acquisto online. Facebook e YouTube tra i social con il maggiore potere di influenza sui consumatori del Belpaese. È questo, in sintesi, quanto emerge dalla nuova edizione di Connected Commerce: A Snapshot of the Modern Shopper, una ricerca condotta da DigitasLBi in Belgio, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda, Singapore, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti, per tratteggiare il comportamento d’acquisto dei consumatori.
“Il potenziale di smartphone e tablet sta rendendo sempre più labili i confini tra lo shopping tradizionale e il mondo dell’online – afferma Carol Pesenti, head of Italy and Spain di DigitasLBi – e se da un paio d’anni si è diffusa tra i consumatori la tendenza Ropo (research online purchase offline, l’abitudine a documentarsi in rete su un prodotto prima di acquistarlo fisicamente in negozio), ora si assiste alla nascita di un fenomeno inverso, lo showrooming: visitare, cioè, il negozio per toccare dal vivo la merce e procedere con l’acquisto online, magari ad un prezzo più contenuto”.
“La diffusione su vasta scala di dispositivi mobile sempre più smart – afferma Gianfranco Pocecai, cto West Europe di DigitasLBi – sta letteralmente rivoluzionando non solo l’esperienza d’acquisto del singolo consumatore, ma anche il mondo del retail a livello globale. Si stanno delineando nuovi scenari per negozi e store che devono ripensarsi, adeguandosi ad un mondo sempre più digitale se vogliono mantenere la propria competitività sul mercato. Ma si fanno avanti anche nuove dinamiche per il consumatore, sempre più combattuto tra un’esperienza d’acquisto digitale e il negozio offline”.
Via Quo Media
I risultati di una nuova ricerca di marketing avviata dalla startup Crowdtap e dalla società di ricerca Ipsos fanno luce sulle modalità di fruizione delle notizie da parte della generazione più connessa, la cosiddetta generazione dei Millennials, definita in questo studio come i nati tra il 1977 e il 1995, che hanno grande familiarità con i media e le tecnologie digitali. Quando si tratta di fiducia, si legge dal rapporto, i Millennials scelgono quasi sempre fonti provenienti dai loro pari.
Gli user generated content (Ugc) sono contenuti mediali sviluppati dagli utenti. Possiamo includere in questa categoria gli aggiornamenti di stato sui social network, i post sui blog, i video su Youtube autoprodotti, le recensioni dei ristoranti, in pratica qualsiasi contenuto pensato e pubblicato da utenti non professionisti, spinti da nessuna specifica motivazione professionale se non quella di offrire la propria opinione nel vasto, e affollato panorama delle opinioni esistenti. Secondo lo studio della Ipsos e di Crowdtap i Millennials si fidano di questo tipo di contenuti al pari delle recensioni dei professionisti o dei contenuti più professionali.
Nello specifico circa la metà dei Millennials si fida delle informazioni che trovano sulle reti sociali (50%) e sui blog e bacheche (48%) a seguire su siti web (49%). Gli user generated content sono anche il 20% più influenti quando si tratta dei consigli d’acquisto e il 35% più incisivi rispetto ad altri tipi di supporti. Il fatto che i Millennials trascorrano più di cinque ore al giorno con questi contenuti chiarisce ulteriormente il quadro.
Via Tech Economy
Per la prima volta, nel 2013, la pubblicità online e tramite dispositivi mobile ha superato i 40 miliardi di dollari. Secondo l’Internet Advertising Bureau (IAB) che ha ispirato la ricerca sull’internet advertising condotta dalla società di consulenza statunitense PwC, negli Stati Uniti dal 2004 la crescita del settore dell’advertising digitale ha avuto un tasso di crescita annuo del 18% e quest’anno i ricavi pubblicitari in ambito digitale hanno sorpassato quelli del comparto televisivo. La pubblicità nel comparto digitale è arrivata alla cifra record di 42,8 miliardi di dollari, battendo quella televisiva che si aggira intorno ai 40 miliardi di dollari.
In cima alla classifica delle percentuali di crescita, c’è il mobile che guida gli investimenti più fruttuosi, rispetto alle categorie più classiche dove il digital advertising si è sviluppato nel corso degli ultimi anni.
Come evidenzia la ricerca, però, mentre il web e i ricavi pubblicitari sul mobile battono la televisione, quest’ultima sommata ai ricavi della tv via cavo supera il settore del digitale. Sembra quindi tenere, anche se in forma aggregata, il ruolo della televisione nonostante l’impatto del digital advertising diventi sempre più consistente.
Secondo il Rapporto Pew dello scorso anno, due terzi degli adulti negli Usa accede ad internet via smartphone e tablet: grazie all’aumento delle vendite il mercato pubblicitario in questo ambito ha subito una veloce accelerazione. che sembra non stupire gli addetti ai lavori. Solo lo scorso anno, secondo la ricerca IAB, il mobile advertising ha superato i 7,1 miliardi di dollari di investimenti, con un incremento del 110% rispetto ai 3,4 miliardi di dollari dell’anno precedente. I digital video promozionali, una componente dell’advertising su display, hanno raggiunto i 2,8 miliardi di dollari, con una crescita del 19% rispetto al 2012.
“La notizia che la pubblicità interattiva ha superato le trasmissioni televisive non è una sorpresa” dichiara Randall Rothenberg, presidente e amministratore delegato di IAB, in occasione della pubblicazione del report, “gli schermi digitali hanno ormai il potere di raggiungere e coinvolgere audience sempre più vaste e differenziate”.
Sul fronte degli inserzionisti, le aziende locali continuano a rappresentare la categoria più attiva, con una crescita della spesa pari al 21% nel 2013, seguite dai servizi finanziari e dalle automotive.
“La nostra indagine conferma che siamo in transizione verso l’era post-desktop” dichiara David Silverman, consulente della PwC USA “ la crescita dei ricavi pubblicitari sui dispositivi mobili evidenzia ulteriormente la più tiepida crescita dell’8% dell’advertising sui computer tradizionali. Questo è semplicemente un riflesso del cambiamento, di come i consumatori fruiscono le loro informazioni in movimento!“
Via Quo Media
Curare i social network diventa sempre più importante per le case automobilistiche, tutti gli utenti di Facebook infatti frequentano le loro pagine e quelli soddisfatti rimangono fedeli al marchio. E’ quanto emerge dal Power's 2014 Social Media Benchmark Study della società di consulenza J.D. Power, secondo cui le campagne pubblicitarie sui social network hanno un impatto rilevante sulle vendite.
Facebook è il social network che offre di più, seguito da YouTube e da Twitter. In particolare, dalla ricerca di mercato in cui sono stati monitorati più di 10mila consumatori americani nelle loro attività online, è risultato che il 29% dei partecipanti ha frequentato i social media per consigli sui prodotti e sui servizi, mentre il 20% lo ha fatto per informarsi sulle case auto e sui loro prodotti.
Infine tutti gli intervistati hanno risposto di avere interagito almeno una volta con un canale social delle case automobilistiche.
Via Quo Media
Più volte, nel corso di una giornata, ci colleghiamo a Facebook per leggere gli aggiornamenti di stato, guardare le foto o cliccare sui link pubblicati dagli amici. Oppure chattiamo senza sosta su WhatsApp, fresco acquisto miliardario del sempre più ambizioso Mark Zuckerberg. Bene: in futuro potremo andare molto oltre, sarà possibile usare il social network più affollato del mondo come una banca. La notizia è che il social network avrebbe chiesto in Irlanda, Paese delle sua sede europea, l’autorizzazione per trasformarsi in un’enorme cassaforte virtuale di denaro dei suoi utenti. Che potranno custodirlo o indirizzarlo verso vari scopi. Proviamo a capire cosa significa questa mossa e quali implicazioni, prospettive e rischi porterà con sé.
COSA SI POTRÀ FARE L’uso più immediato e scontato sarà la possibilità di trasferire denaro a un altro iscritto. Svolgere tutte quelle operazioni che oggi sono possibili con servizi come Paypal o, in punti vendita fisici, su Western Union e affini verso un bacino di 1,2 miliardi di persone. Acquirenti di oggetti di seconda mano, amici, congiunti, società. La sensazione, per una pure questione di logica, è che Zuckerberg vorrà offrire il servizio a commissioni molto più basse rispetto a quelle attuali e, soprattutto, integrare il tutto in modo armonico nella sua piattaforma. Per esempio, una madre indiana che lavora in Italia potrà mandare una somma ai figli a Nuova Delhi dal suo conto Facebook come allegato di un messaggio privato del social network. L’esempio non è casuale, perché le rimesse, i soldi inviati dall’Occidente verso i Paesi in via di sviluppo, sono una costante e un’opportunità di business gigantesca. Naturalmente il proprio conto potrà essere utilizzato per tutti i fini tipici della valuta virtuale: dal più classico e-commerce all’acquisto di applicazioni, contenuti multimediali (film, musica) o per pagare abbonamenti a piattaforme streaming, giornali e affini. Il tutto, è qui la differenza, con sconti o pacchetti pensati ad hoc per chi usa questo strumento anziché le classiche carte di credito. I fornitori di servizi faranno la fila.
QUANDO SI COMINCIA In verità è opportuno chiedersi se si comincia, poiché si tratta pur sempre di un’indiscrezione rivelata dal quotidiano Financial Times e che l’azienda californiana si è rifiutata di commentare. Comunque, ottenuto il via libera delle autorità, tra test e partnership, potrebbero volerci come minimo alcuni mesi. Sebbene una fase beta per un numero ristretto di persone, come da tradizione per le nuove iniziative targate Menlo Park, potrebbe partire quasi subito.
COSA CI GUADAGNIAMO NOI In verità, parecchio. Chi è abituato a spedire soldi all’estero sa benissimo quanto fastidiose e spesso poco giustificabili siano certe commissioni. Ma anche pagare con un bonifico oppure usare strumenti virtuali di trasferimento fondi, specie se le cifre si alzano, è un piccolo salasso. Facebook potrebbe rinunciare a fare margini sulle transizioni, secondo le ipotesi più ardite azzerando del tutto le commissioni, per fare denaro in altro modo.
COSA CI GUADAGNA FACEBOOK E qui è il vero nodo. La piattaforma di Mark Zuckerberg fa cassa soprattutto vendendo pubblicità. Com’è noto, non indifferenziata ma cucita su misura sui gusti, le preferenze, le fasce d’età e altre caratteristiche precise dei suoi utenti. Avere a disposizione uno storico dei loro pagamenti – per gli articoli di un sito di e-commerce ma anche per quel film, quel particolare disco, quel libro – significherebbe profilarli ancora meglio. Perché riflettiamoci: un conto è un generico "mi piace" lasciato sulla pagina di un cantante o un brand, un altro è la prova che sono disposto a spendere per un suo prodotto. Il coinvolgimento è maggiore, quasi totale. Ed è oro per i pubblicitari. Come gli inserzionisti sono oro per Facebook: che pur sì ha guadagnato 900 milioni di dollari nel 2013 dalle transazioni svolte all’interno del social network, per esempio per gli acquisti di vite extra e armi speciali per i popolari videogame che ospita, ma smartphone e tablet con i loro negozi digitali sono concorrenti sempre più spietati. Questo tipo di articoli digitali pesava per il 18 per cento sul totale dei ricavi a inizio 2012; si è dimezzato, scendendo al 9 per cento alla fine del 2013.
QUALI RISCHI CI SONO Il più evidente è che Mark Zuckerberg sappia davvero tutto di noi, senza eccezioni e più zone franche. Il punto, inutile girarci intorno, è sempre lo stesso: capire a quanta privacy siamo disposti a rinunciare per avere servizi che già oggi ci sono familiari ma a tariffe più convenienti. Di sicuro Facebook non è un ente senza fine di lucro o con velleità di beneficenza, non raccontiamoci storie diverse. In questo caso farà soldi facendoci lo sconto. In passato è andata anche peggio.
Via Panorama.it
Dopo il colpo di Facebook che per la cifra record di 19 miliardi di dollari lo scorso febbraio ha messo le mani su WhatsApp, sembra che il mercato delle applicazioni di messaggistica e videochiamate sia diventato il nuovo terreno di conquista dei gruppi hi-tech. Oggi il colosso cinese dell'e-commerce, Alibaba, ha investito 215 milioni di dollari in Tango, l'applicazione californiana di videochat che conta 200 milioni di utenti in tutto il mondo ed è stata valutata un miliardo di dollari.
Nulla rispetto ai numeri di WhatsApp (si parla di 450 milioni di utenti attivi al mese e di 1 milione di nuovi iscritti al giorno), ma la mossa rappresenta un passaggio strategico per il gruppo cinese: entro la fine dell'anno dovrebbe arrivare a Wall Street con un Ipo che potrebbe raccogliere fino a 25,1 miliardi di dollari, diventando la più grande della storia. Quella di Facebook nel maggio 2012 aveva raccolto la cifra record di 16,1 miliardi di dollari.
Il co-fondatore di Tango, Eric Setton, ha dichiarato in un'intervista al Financial Times che l'investimento servirà per espandere il gruppo e poter competere con i grandi del settore: "Siamo ancora sfavoriti, abbiamo molto lavoro davanti a noi", ha detto Setton, ricordando che non ha ancora un piano strategico di cooperazione con il colosso cinese, ma che immagina e spera "che ci saranno un numero di iniziative da lanciare insieme".
Tango, fondata nel 2009 a Mountain View, ha 110 dipendenti: una struttura molto più grande rispetto a WhatsApp che con solo 55 impiegati è riuscita a conquistare il settore. Inoltre Tango si sostiene anche grazie alle entrate della pubblicità, a differenza del gruppo fondato da Jim Koum che ha di recente ricordato di non voler ospitare messaggi promozionali.
Ma il mondo delle applicazioni di messaggistica continua ad attrarre investimenti, soprattutto dopo l'esplosione del mercato mobile che rappresenta per i grandi gruppi hi-tech un treno su cui saltare per continuare a espandersi: la società giapponese di commercio online, Rakuten, ha comprato per 900 milioni di dollari la startup di messaggistica Viber che conta oltre 100 milioni di user attivi ogni mese. E ancora il rivale cinese di Alibaba, Tencent, sta investendo capitali sulla sua applicazione WeChat che di recente ha raggiunto i 350 milioni di utenti mensili (molti di essi all'interno del Paese orientale) mettendo in pericolo il primato di WhatsApp.
Pur essendo usata soprattutto in Cina, WeChat si sta espandendo anche in altri Paesi dell'Asia e in Sud America. Inoltre Trecent ha delle partecipazioni nella popolare startup di messaggistica nata in Corea del Sud, Kakao Talk. Ma il primo acquisto in questo mercato era stato messo a segno da eBay, che nel 2005 aveva comprato Skype per 2,6 miliardi di dollari, poi nel 2011 passata nelle mani di Microsoft per la cifra di 8,5 miliardi.
Intanto WhatsApp non sta a guardare: il gruppo comprato da Facebook userà infatti parte dei soldi arrivati nelle sue casse per sviluppare un sistema di telefonate Voip e così poter conquistare anche questo settore dominato da Viber e Skype. Il motivo? Secondo alcuni analisti ci sarebbero ormai troppe alternative alla semplice applicazione di messaggistica (tra queste WeChat, la giapponese Line, la tedesca Telegram e la neonata Kik) e WhatsApp, adesso che è diventata grande, deve cambiare per poter sopravvivere.
Via America 24
La rete si conferma uno dei canali preferiti dagli italiani per fare shopping, soprattutto nel settore della moda. A sostenerlo è una nuova indagine condotta da Human Highway per Netcomm, il Consorzio del Commercio Elettronico Italiano, presentati nel corso del Digital Fashion & Design, appuntamento che per la prima volta analizza anche il mercato online dell’arredamento e del design.
Su 30,5 milioni di individui che compongono l’universo di Internet (sopra i 15 anni), 16,2 milioni hanno fatto un acquisto online negli ultimi 3 mesi e di questi quasi 11 milioni sono acquirenti online abituali, il 36% dell’universo degli utenti Internet in Italia. In un anno, tra aprile 2013 e aprile 2014, oltre 3,3 milioni di utenti Internet sono diventati eShopper nella moda: 1,7% in più gli “sporadici” con uno o due acquisti nell’ultimo trimestre (5,3 milioni in totale) e ben 22,8% in più gli abituali con tre o più acquisti nell’ultimo quarto (sono 10,9 milioni in totale). Aumentano anche i volumi delle transazioni nei prodotti fashion del +80% in occasione dell’ultimo Natale, ma il trend si mantiene con lo stesso ritmo di crescita, registrando nei primi soli due mesi 73 milioni di euro (+79% rispetto allo stesso periodo del 2013).
Per lo specifico comparto del Fashion (abbigliamento, scarpe, borse, accessori) è significativa la crescita anno/anno di coloro che almeno una volta hanno fatto acquisti: +42%, pari a 3,3 milioni di nuovi acquirenti in 12 mesi. L’indagine rileva inoltre una consistente sovrapposizione tra eShopper di prodotti di moda e eShopper di prodotti di Design e Arredamento. Da osservare anche il valore dello scontrino medio, che, se per il Fashion raggiunge un massimo con gli 80 euro, per le borse da donna, è di ben 140 euro per i prodotti di arredamento (80 euro per prodotti di Design).
“L’aumento significativo degli eShopper abituali – commenta Roberto Liscia, Presidente di Netcomm – Consorzio del Commercio Elettronico Italiano – è un dato che deve farci riflettere. Da una parte è significativo il fatto che aumentano gli utenti Internet disposti a fare acquisti online e quindi ad affidarsi alla tecnologia, ma dall’altro possiamo forse leggerlo come una risposta delle famiglie alla crisi, con la ricerca sulla Rete di prodotti a prezzi più vantaggiosi rispetto all’esperienza di acquisto nel negozio tradizionale. L’aumento esponenziale in un anno degli acquisti di abbigliamento è anche frutto di una maturità del settore in termini di ampiezza del catalogo, di disponibilità di servizi e naturalmente di maggiore convenienza”.
Chi acquista arredamento o design in rete, infatti, lo fa principalmente per la convenienza (40-43%, buon rapporto qualità/prezzo), ma anche in virtù della credibilità del sito di vendita (32-33%). Un dato questo interessante: per il design un motivo importante nella decisione d’acquisto è l’occasione, un’offerta precisa che non si sarebbe ripresentata in futuro, elemento che attrae il 31% degli eShopper. Per l’arredamento l’occasione è un buon motivo per il 23% degli acquirenti.
Via Tech Economy
L’annuncio sarebbe alle porte, precisamente il 30 aprile in occasione di una conferenza dedicata agli sviluppatori prevista a San Francisco: in questa occasione, secondo indiscrezioni da Recode, Facebook annuncerà il piano per la realizzazione di una sua piattaforma pubblicitaria per mobile, che vada al di là del social network, da proporre agli investitori come un modo per trarre vantaggio dal suo enorme database di informazione sugli utenti.
Non si tratta di una notizia completamente nuova, se è vero, spiega Recode, che già a gennaio il colosso aveva annunciato la sperimentazione di nuovi modi per vendere pubblicità su app di terzi, definendo il test “come una rete di pubblicità mobile”. In passato Facebook si era tenuta alla larga dal costruire una rete di pubblicità esterna al social network perchè impegnata a venderla sul suo sito. E non era possibile, secondo Recode, contemplare una rete di advertising mobile fino ad oggi che lo scenario è completamente cambiato. Negli ultimi tre mesi del 2013, infatti, la pubblicità da mobile ha generato 1,24 miliardi per Facebook, una cifra record anche per i numeri a cui è abituata la creatura di Mark Zuckerberg. Di cui una buona fetta, forse il 50%, sarebbe arrivata da quegli annunci pubblicitari che suggeriscono agli utenti applicazioni da scaricare. Al momento Facebook non commenta l’indiscrezione.
Via Tech Economy
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