I più meritevoli avranno uno sconto. Nel senso che pagheranno meno (cinque dollari al mese) l’assicurazione sanitaria se dimostreranno, dati alla mano, di essere in forma, di mangiare in modo corretto, di fare un po’ di attività fisica, e dunque di tenere alla propria salute. E non potranno barare. Perché a monitorare tutte queste buone abitudini sarà Pact, un’app disponibile sia su Google Play che su App Store. Che grazie a un sistema di sensori terrà traccia delle attività dell’utente, calcolando le calorie assunte con la colazione, i battiti del cuore ogni minuto, i respiri durante il jogging mattutino, gli zuccheri nel sangue, i millimetri di mercurio per la pressione, i passi sul tapis roulant della palestra.... Succede nel Massachusetts, lo Stato americano che, primo al mondo, sta per implementare nell’offerta assicurativa un piano che preveda rimborsi (o multe, per chi promette ma non mantiene) ai salutisti. Ed è il segno di una rivoluzione molto concreta che ha portato sul mercato un’intera generazione di prodotti e servizi digitali legati alla forma fisica, al benessere, ma anche alla gestione delle terapie e al rapporto con il medico di base: un mare di app sono già in commercio, poi piattaforme web, sensori o dispositivi indossabili).
Così cambia il nostro mondo-salute, ma cambia - e molti ne sono preoccupati - il vecchio modello della “proprietà” delle informazioni sanitarie, che il nostro organismo fornisce ogni giorno a chi le sa captare.
Pact ne è l’esempio più lampante. E in arrivo anche in Italia c’è The Band, il braccialetto di casa Microsoft appena lanciato sul mercato statunitense, battendo sul tempo l’iWatch di Apple atteso per l’anno prossimo. 199 dollari per portare al braccio un sensore in grado di monitorare costantemente i propri parametri vitali, tra cui appunto la frequenza cardiaca, il consumo di calorie durante l’attività fisica, e persino i movimenti compiuti durante il sonno. Cuore del bracciale smart è l’applicazione Microsoft Health, «una piattaforma studiata», spiega l’Ad Carlo Purassanta: «Per aiutare le persone a tenere traccia dei dati personali sul fitness». E che di fatto proietta l’azienda di Seattle nel mondo promettente della salute.
Perché il piatto della digital health, è ricco, e sono in tanti a volerci mettere le mani: Google e Facebook in testa, e poi Samsung, Intel, Apple, LG. D’altra parte i numeri sono da capogiro. Il tasso di crescita del settore, stimato per i soli Stati Uniti, è del 7,4 per cento annuo, e il volume di affari è destinato a raggiungere i 31,3 miliardi di dollari nel 2017. Secondo le ultime stime di RockHealth, la società americana che finanzia le startup, gli investimenti hanno raggiunto i tre miliardi di dollari nei primi nove mesi del 2014, con una crescita del 100 per cento sull’anno precedente.
A fare gola è soprattutto il segmento degli over 50, quei baby boomers nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta che oggi, smartphone alla mano, si sentono ancora in forma ma hanno tutto l’interesse a tenere d’occhio i propri parametri vitali. Sono, questi, la prossima generazione di anziani digitali. Solo in Italia, 5,1 milioni di cinquantacinquenni navigano in Internet (dati comScore giugno 2014), pari al 15 per cento del totale dei navigatori. Usano i social network e i blog (4,4 milioni, ossia l’86 percento del totale. Condividono foto e pensieri su Facebook (3,6 milioni) e su Twitter (600 mila). E lo fanno non soltanto dal Pc di casa, ma anche in mobilità: il 55 per cento possiede uno smartphone (8,5 milioni di persone). Insomma, un fiume di persone che giovane non è più e che si è messa in testa di avere servizi dedicati ai loro bisogni.
Un recente rapporto di McKinsey mostra come, negli Stati Uniti, i pazienti over 50 chiedano servizi relativi alla salute quasi quanto i pazienti più giovani, anche se in generale sono più interessati a quelli che aiutano a gestire malattie croniche. Altri dati arrivano dal The Pew Research Internet Project, un’indagine compiuta su anziani americani tra i cinquanta e i 64 anni: la stragrande maggioranza di loro (80 per cento) possiede un computer, un tablet o un e-reader e tra loro una quota pari al 64 per cento usa i dispositivi elettronici per tenere sotto controllo il peso, l’alimentazione, l’attività fisica e altri parametri relativi al benessere. «La digital health è una forma di innovazione fortemente trainata dalla domanda del cittadino-paziente, che ha ormai una sua vita digitale e si aspetta che la tecnologia soddisfi i suoi bisogni anche nel campo della salute», commenta Luca Buccoliero, docente al Dipartimento di Marketing dell’Università Bocconi, e responsabile del “Citizens Lab” del Cermes.
GOOGLE IN POLE POSITION
E Google è in pole position con la nuova società Calico che sta lavorando all’implementazione del servizio Helpouts (helpouts.google.com), con una funzionalità in grado di mettere in contatto diretto pazienti e medici attraverso delle videochat. Attualmente il servizio è in fase di test: il sistema, a partire dalle query effettuate sul motore di ricerca, darà la possibilità di parlare (quasi in tempo reale rispetto alla ricerca) con uno specialista. Per esempio, se si digita “dolore al ginocchio”, oltre ai soliti risultati, comparirà un avviso che recita più o meno così: «Sulla base della tua ricerca, pensiamo che tu stia cercando informazioni su una condizione medica. Qui puoi trovare degli operatori sanitari da contattare in videochat. Il costo delle visite sarà coperto da Google per questo periodo limitato di prova». Anche se ovviamente è lecito aspettarsi che una volta in funzione, l’onorario sarà a carico del paziente.
Ma che Big G non puntasse solo agli adolescenti era già evidente in occasione del lancio dei Google Glass. Secondo alcuni analisti, infatti, il vero punto di forza dei superocchiali potrebbe essere proprio nella cura e nella gestione degli anziani. Basterebbero alcune applicazioni mirate per aiutare famiglie e comunità ad affrontare i problemi di salute legati all’invecchiamento: specifici sensori sulla montatura potrebbero monitorare l’andatura di una persona e identificare i problemi di mobilità, prevenendo cadute e fratture. Gli occhiali potrebbero mostrare video o inviare messaggi audio per ricordare di assumere le medicine e scongiurare il pericolo di assunzioni multiple. Grazie al riconoscimento facciale, poi, gli occhiali potrebbero identificare membri della famiglia e offrire informazioni a chi li indossa, soprattutto se affetto da leggere forme di demenza: «Questo è tuo figlio, lei è tua nuora, ricordati di farle gli auguri di buon compleanno». Gli occhiali potrebbero inoltre essere usati come strumento per chiedere aiuto in situazioni di difficoltà, ad esempio dopo una caduta.
Un occhio di riguardo nei confronti degli over 50 è poi quello che il colosso di Mountain View ha mostrato in occasione della Google Science Fair 2014, la competizione scientifica destinata ai giovani innovatori. Nella categoria Science in Action
ha infatti vinto il progetto di Kenneth Shinozuka, che si è inventato dei sensori indossabili per rivelare i movimenti di persone anziane allettate, migliorandone la sicurezza e alleviando il lavoro delle badanti.
Non basta. Oltre a progettare lenti a contatto per diabetici, dotate di sensori per rilevare i livelli di zuccheri nel sangue, Google starebbe anche lavorando a una tecnologia che combina una pillola a base di nanoparticelle magnetiche a un sensore da polso con un sistema di allerta. Le nanoparticelle sarebbero in grado di individuare i primi segnali di una malattia, per esempio un tumore, monitorando i cambiamenti nella biochimica dell’organismo, e invierebbero una segnalazione al dispositivo per la diagnosi precoce. Il progetto, guidato da Andrew Conrad - il biologo molecolare del National Genetics Institute americano già noto per aver sviluppato un test a basso costo per la diagnosi dell’Hiv - è portato avanti dall’unità di ricerca GoogleX, e non sarà ragionevolmente operativo prima di cinque anni. Big G non ha intenzione di svelare gli investimenti dedicati all’impresa, cui però partecipano almeno un centinaio tra astrofisici, chimici e ingegneri. E di certo non si lascia intimorire dalle critiche, che lo descrivono di volta in volta come un progetto fantascientifico degno di Star Trek (come Chad A. Mirkin, direttore dell’International Institute for Nanotechnology della Northwestern University), o più brutalmente come l’ennesimo sistema per raccogliere dati sensibili su tutti noi.
LA MALATTIA È SOCIAL
Visto che Larry Page ha imboccato l’autostrada della digital health, Mark Zuckerberg non poteva essere da meno. Ecco quindi che anche Facebook, in gran segreto, come riporta l’agenzia di stampa Reuters, starebbe esplorando la possibilità di creare una serie di “comunità di supporto online” suddivise per aree patologiche, così da connettere gli utenti del social media colpiti dalle stesse malattie. Non contenti, nelle scorse settimane i dirigenti dell’azienda di Menlo Park avrebbero incontrato rappresentanti dell’industria farmaceutica, esperti e imprenditori della sanità, per sviluppare e testare nuove applicazioni relative al settore della salute e del benessere: aree nei confronti delle quali i coniugi Zuckerberg (la moglie Priscilla Chan è pediatra all’Università di California a San Francisco) sembrano essere particolarmente sensibili, visto anche il successo dell’iniziativa lanciata nel 2012 sulla donazione di organi. Il giorno in cui Facebook ha consentito agli utenti di aggiungere al proprio status la dicitura “donatore di organi”, riporta uno studio dell’“American Journal of Transplantation”, oltre 13 mila persone negli Stati Uniti si sono accreditate online come donatori (in media si registrano 600 registrazioni al giorno).
Di fronte a tanto attivismo, qualcuno prova a sollevare l’obiezione: cosa ne farà il social media di tutte queste informazioni sensibili, relative allo stato di salute degli iscritti? Negli Stati Uniti già adesso chi seleziona il personale può chiedere di aver accesso al profilo dell’aspirante impiegato. E in futuro, quello che abbiamo postato anni fa sulla nostra bacheca potrebbe ritorcersi contro di noi. «Il tema della privacy presenta aspetti contrastanti», continua Buccoliero: «Fino a qualche tempo fa, il dato clinico era considerato di proprietà del sistema sanitario. Ora, grazie a un progressivo processo di empowerment generato dalle nuove tecnologie, il cittadino si sente padrone dei propri dati, e vuole condividerli o raccontarli a chi meglio crede. Questo, da una parte, è un bene. Dall’altra, però, servirebbe più accortezza nel lasciare informazioni preziose in mani altrui».
IL FUTURO È ADDOSSO
Non solo web: il futuro della digital health passerà infatti soprattutto per i wearable computer, i dispositivi indossabili destinati a controllare in tempo reale tutto ciò che accade nell’organismo umano. Secondo gli analisti di Abi Research sarebbe infatti questo il segmento destinato a crescere con maggiore rapidità, con un giro d’affari che si duplicherà entro tre-cinque anni raggiungendo i cinquanta miliardi di dollari e i cento milioni di pezzi venduti nel mondo. E il bracciale proposto da Microsoft è solo l’ultimo di una lunga serie. La Airo Health, uno spin off dell’Università canadese di Waterloo, sta per esempio testando le potenzialità di un bracciale per controllare automaticamente, grazie a un piccolo spettrometro interno che individua le diverse sostanze disciolte nel sangue, non soltanto l’alimentazione e l’esercizio fisico, ma anche la qualità del sonno e i livelli di stress.
In attesa di conoscere le dieci e più applicazioni su fitness e salute programmate sull’iWatch di Apple si può intanto scegliere tra il GearFit di Samsung, bracciale a schermo curvo completo di contapassi e misurazione del battito cardiaco, e il Jawbone Up, dispositivo flessibile da polso che per meno di cento dollari, grazie ai sensori di vibrazione e movimento,
analizza i dati relativi all’alimentazione, al sonno e all’attività fisica. O preferire il Lark, con funzionalità Bluetooth, che inviando piccoli impulsi all’arteria radiale controlla la pressione al polso. Per i mesi estivi c’è June, della francese Netatmo, il bracciale-gioiello che misura l’esposizione al sole in ogni momento della giornata e suggerisce anche il fattore di protezione solare più adatto al tipo di pelle e ai raggi UV di quel particolare momento, indicando quando rimettere il cappello, gli occhiali, o cercare l’ombra. I bio-orologi di Neumitra monitorano invece il sistema nervoso centrale per individuare i primi segnali di stress e ansia e i loro effetti sulle prestazioni fisiche e mentali, mentre un’app sullo smartphone connesso indica quando è il momento di prendersi una pausa. I belgi di Imec propongono invece un sistema indossabile integrato che include una collana smart con sensori per l’elettrocardiogramma in grado di individuare aritmie cardiache, e un casco per monitorare l’attività elettrica del cervello in caso di crisi epilettiche.
Tempo è invece il sistema indossabile progettato dall’azienda CarePredict appositamente per gli anziani, con l’obiettivo di prevedere importanti cambiamenti nel loro stato di salute. Il dispositivo è composto da sensori da polso che inviano segnali ai rilevatori da parete, controllando il numero di ore dormite o gli spostamenti tra le mura domestiche, e inviando segnalazioni di allarme se i parametri si discostano sensibilmente da quelli definiti. Ma il più completo è probabilmente lo smartphone LifeWatch V, basato su Android e in grado di rilevare la temperatura, gli zuccheri nel sangue, la saturazione di ossigeno, la percentuale di grassi corporei e i livelli di stress valutati sulla base della variabilità del ritmo cardiaco, e di inviarli poi a un centro clinico.
Ma c’è un problema. Buccoliero sottolinea che non tutti i dispositivi producono dati affidabili. Per questo il Centro per la Tecnologia Medicale Mobile dell’Università di Stanford ha appena inaugurato un laboratorio il cui compito sarà proprio quello di stabilire degli standard qualitativi minimi per le informazioni biometriche, così da rendere gli strumenti wearable un aiuto valido per i medici, e non solo un’ossessione per i salutisti della domenica.
Via L'Espresso